Valeva la
pena venire fin qui per farsi mandare a quel paese da un monaco, poeta e rivoluzionario
di novanta anni? Sì, valeva la pena. Attraversare un oceano, atterrare in una
città invisibile come Managua, svegliarsi e, nella prima mattina di Nicaragua,
stordito dalla diversità dell’ora, ritrovarsi, per caso e presagio, nel Cafè
de los poetas. Allora i piccoli miracoli sono possibili, mi sono detto:
dietro il bancone, c’è un grande quadro azzurro, il tuo ritratto accennato con
maestria. Inconfondibile è la tua barba bianca, i capelli lunghi e candidi, la
camicia di cotone con un solo bottone, il basco nero. E fuori, appeso a due
palme, uno striscione ricorda il compleanno di Ernesto Cardenal festeggiato,
con gloria, lo scorso gennaio. Aggiungo io altre parole a quelle che lui usa
per definirsi: il poeta, monaco e rivoluzionario, è anche scultore, ribelle,
mistico, sacerdote, politico, profeta. E io sono venuto fino in Nicaragua per
incontrare la sua leggenda. Per stringere la mano che ha scritto versi che
lasciano a metà il respiro. E ben sapevo che l’incontro non sarebbe stato
facile. Anzi, impossibile.
Ernesto è
stato uno dei protagonisti della Teologia della Liberazione latinoamericana. E’
da anni candidato al premio Nobel per la letteratura, le sue poesie più celebri
(Hora cero, Orazione per Marylin Monroe, gli Epigrammi…) sono amate da
generazioni di ragazzi e ragazze. A Granada, la più antica città coloniale
dell’America centrale, cammino per la strada assieme ad Alfredo Ulloa, poeta
costaricense: ha sessanta anni, una bella barba bianca e indossa un cappello di
paglia. Una ragazzina si avvicina con timida spudoratezza e chiede: ‘Usted es
el poeta Cardenal?’. Ridiamo di gusto, io e Alfredo. E lui si scusa di non
esserlo. Le poesie d’amore di Ernesto, le poesie di un monaco, sono state la
serenata di migliaia e migliaia di corteggiamenti. La ragazzina se ne va,
felice di aver solo sfiorato un poeta che appena gli assomiglia.
Ernesto è un
uomo ruvido, collerico, solitario, taciturno, a volte rabbioso. C’è una parola
centroamericana che non è traducibile: jodido. Ernesto è ‘jodido’.
Insopportabile. Sfiorarlo è come toccare un’ortica. Ma questo poeta ha lasciato
dietro a se le tracce di una Rivoluzione, di una liberazione, di una presa di
coscienza straordinaria. Ha aperto cuori e menti. Ha lottato e sofferto. Ha
visto morire i suoi compagni di battaglia, è sopravvissuto al suo maestro, il
mistico Thomas Merton, ai suoi allievi, è stato cacciato dai governi
rivoluzionari di cui aveva fatto parte, è stato umiliato in maniera teatrale e
pubblica, sotto i flash dei fotografi, da Papa Giovanni Paolo II (ed era il
1983) sulla pista dell’aeroporto di Managua, è stato sospeso dal Vaticano, non
ha smesso di pregare, di essere ‘innamorato’ di Dio. Oggi dice: ‘Papa Francesco
è un miracolo’. A novanta anni è amato e detestato, è intrattabile e dolcissimo,
viaggia ancora per il mondo (e niente lo rende più nervoso dei viaggi, lui,
viaggiatore instancabile, detesta prendere un aereo), ama la solitudine ed è
sempre in mezzo alla gente, lotta ancora, con ostinazione. E scrive, per nostra
fortuna, scrive. L’ultima sua battaglia è contro il Gran Canal, il canale che i
cinesi, un’impresaprivata di Hong Kong, hanno già cominciato a
costruire per tagliare il Nicaragua in due e collegare l’Atlantico al Pacifico.
‘Una mostruosità’, grida Cardenal. A Granada, al festival di poesia, l’ho visto
innalzare, davanti a una piazza commossa, la carta del ‘suo’ lago Nicaragua,
destinato a essere trafitto dal Canale. Lo ha fatto di fronte a un immobile
ministro del governo che ha autorizzato la sua costruzione. Ernesto, quella sera,
era orgoglioso della sua disobbedienza.
Alle nove e
trenta del mattino, lo vedo arrivare al suo ufficio. Al Centro degli Scrittori
di Nicaragua, in una strada tranquilla di Managua. Conosco il suo autista Pedro
e la sua assistente LuzMarina. Ernesto si fida solo di loro. So che questa è
stata prima la sua casa e poi la galleria per le sue sculture. Sono belle:
aironi, garzette, forme che si allungano, pietre rotonde. Qualcuno mi ha detto:
‘La poesia di Cardenal è rotonda’. Una piccola statua di una garzetta bianca
vale oltre 400 dollari. E’ molto bella. Cardenal scultore. Attorno, dispersi
ovunque libri di Ernesto Cardenal, su Ernesto Cardenal, attorno a Ernesto
Cardenal.
Il vecchio
attraversa il piccolo giardino appoggiato al suo bastone, è un uomo curvo e
dall’equilibrio incerto e ostinato. Si ribella alla vecchiaia, si arrabbia con
stizza. ‘E’ molto scomodo avere questa età. Non l’auguro a nessuno’, liquida
chi vuole fargli ancora gli auguri. Indossa la sua uniforme: oltre
la camicia bianca a un solo bottone e il basco nero, ha sempre jeans e zoccoli
(in gioventù aveva stivali ai piedi, poi sandali francescani). Da mezzo secolo,
Ernesto, non cambia abbigliamento. Lo immaginavo un uomo alto, imponente.
Invece è piccolo, basso, gli anni lo hanno come ripiegato su se stesso, un
tempo era magro come un chiodo, ora tende a ingrassare. Ha un naso da falco.
Penso che il tempo, nonostante quel che lui ne pensi, gli ha fatto un dono e ha
sfatato una regola: Ernesto è un mito che tocca i cuori, e allora non è necessario
morire giovani come l’altro Ernesto che lui ama, Ernesto Che Guevara,
per essere capaci di contagiare i ragazzi con le proprie parole.
So che è
sveglio da ore. La sua disciplina è ferrea. Monastica. Alle tre del mattino è
il tempo delle orazioni, della meditazione, del silenzio. Forse appunta un
frammento di verso su un pezzetto di carta. Mille foglietti che disperde. La
colazione alle otto. Poi arriva Pedro, poche centinaia di metri fino
all’ufficio. La sua poltrona bianca è la stessa sulla quale sedeva, quaranta
anni fa, al ministero della cultura. Deve essere appartenuta alla figlia del
tiranno Somoza, l’ultimo erede della feroce dinastia che per quasi mezzo secolo
ha posseduto il Nicaragua. Il ministero aveva occupato l’ultimo piano della sua
casa. Oggi, la scrivania di Ernesto è sommersa dalle sue statue: cactus e
garzette che ricordano i tempi della comunità utopica da lui fondata nell’isola
Mancarròn, la più grande del remoto arcipelago di Solentiname, all’estremo Sud
del lago Nicaragua.
Già, Ernesto
è stato un giovane ricco e inquieto, giramondo, sciupafemmine, figlio di una
delle famiglie più importanti del paese. Studi eccellenti all’estero.
Contemplativo, dilaniato fra vocazioni contrapposte, poeta. Lettore accanito di
Ezra Pound e dei poeti nordamericani, senza mai tradire Rubén Darìo, il cantore
principe del Nicaragua e del Latinoamerica. A 33 anni, nel 1956, Ernesto cambiò
vita: si fece monaco trappista, divenne novizio del filosofo Thomas Merton, nel
severo monastero di Gethsemani, nel Kentucky. A quaranta anni fu ordinato
sacerdote e tornò al suo paese per fondare, incoraggiato dal maestro, la Comunidad di
Solentiname. Merton sapeva che quell’uomo non era fatto solo per il silenzio.
Lui avrebbe voluto seguirlo. Lo mandò come in avanscoperta. Sperava, un giorno,
di potersi ricongiungere con l’allievo. Ernesto, dal 1966 al 1977, ha vissuto
con i pescatori e i contadini di quelle isole lontane. ‘Eravamo sconcertati –
ricorda doña Esperanza, 59 anni, una delle protagoniste della storia di
Solentiname – Era un prete che non voleva essere pagato per i battesimi e i
matrimoni. Non voleva essere chiamato padre. Non contava i nostri
rosari. Ci ammonì: i vostri figli non muoiono per volontà di Dio, muoiono di
diarrea, vittime della ingiustizia degli uomini. Possono essere salvati. Ci
soprese. Chiamò maestri per scuole che mai vi erano state nelle nostre isole.
Le sue messe erano una festa, ogni domenica discutevamo assieme, per ore, le
pagine del Vangelo. Poi mangiavano assieme, suonavamo, cantavamo. Imparammo
altri mestieri: diventammo artigiani, artisti, perfino poeti. Ernesto ci entrò
nel sangue’.
Solentiname
fu una delle cento scintille della Rivoluzione sandinista, uomini e donne che,
nel nome di Augusto Sandino, il primo ribelle del Latinoamerica del ‘900, si
batterono contro Anastasio Somoza. ‘La poesia di Ernesto è stata la colonna
sonora della Rivoluzione’, dice Gioconda Belli, grande scrittrice nicaraguense.
‘Le sue parole hanno incoraggiato chi combatteva, i guerriglieri le leggevano
nelle foreste’, è certo Sergio Ramirez, altro scrittore celebre di queste
terre. Nel 1977, la chiesa di Solentiname fu distrutta dai soldati di Somoza, i
‘figli’ di Ernesto caddero uno dopo l’altro. Muore Elvis, muore Donald, muore
Alejandro, alla fine muore anche Laureano, il prediletto, il contadino
analfabeta che gli aveva detto: ‘Io non credo in Dio, ma Dio è in ogni uomo’.
Le famiglie di Solentimane erano riuscite a fuggire in Costarica prima delle
rappresaglie del tiranno. Infine, nel 1979, la Rivoluzione trionfò. E la chiesa
di Nuestra Señora de Solentiname fu ricostruita. Mi appare
bellissima, colorata, splendente.
A
cinquant’anni, Ernesto Cardenal aveva già vissuto quattro vite. Divenne
ministro della cultura nel primo governo sandinista. S’inventò scuole popolari
di poesia, l’arte primitivista di Solentiname divenne celebre. Fu osteggiato
dal mondo delle università, ma lui fu testardo: ‘Tutti possono scrivere poesie,
Soprattutto i più indifesi: bambini e anziani, carcerati e infermi’. Diffuse la
poesia fra militari e poliziotti. A sessanta anni, viene castigato
dall’intransigenza del Vaticano di Karol Woijtila, gli viene proibito di salire
su un altare. Infine, oggi, a novanta anni, la battaglia ambientalista, la
difesa della terra del Nicaragua dalla minaccia del Gran Canal. Una nuova
trincea dove gli amici di un tempo, ora sono avversari potenti e implacabili.
Sono le ferite e le cicatrici della vita, di una vita lunghissima. Di sei vite.
Tutte unite dal filo rosso dei suoi versi della sua poesia.
Ora ho
davanti a me quest’uomo, ho un appuntamento fissato da un mese. E lui si
divincola come un leone in gabbia, ha un borbottio da lupo, mi scansa, tira
fuori gli aculei come un istrice. Mi evita con un gesto e mi dice dietro: ‘Non
ho tempo’. L’urgenza del tempo. ‘Parlare mi toglie tempo. Tempo nel quale devo
scrivere’. E se davvero vincesse il Nobel? Una sciagura. Lo sa anche lui: ‘Quei
soldi mi servirebbero per aiutare molta gente, ma penso con orrore alle
interviste, alle scomodità, al tempo che perderei’. Il tempo deve essere un
incubo per lui. So che a 85 anni ha fatto un corso di lettura veloce per
leggere tutto quello che ha ancora da leggere. Fra i suoi esercizi di ogni
giorno: leggere al volo le targhe delle automobili e ripetere numeri e lettere
dieci minuti dopo.
Non ho
attenuanti, ero stato avvertito: ‘Odia le interviste’. Ama il silenzio. Eppure
Ernesto è un uomo pubblico, sale sui palcoscenici, dà conferenze, è attorniato
da gente, viaggia. E detesta tutto questo. Le sue contraddizioni sono
irrisolte. ‘Noi sappiamo come restituirgli allegria’, mi dirà doña Maria, 65
anni, sorella di Esperanza, all’isola di San Fernando. Maria ed Esperanza hanno
vissuto gli anni della Comunità. Forse solo i contadini-pescatori di
Solentimane, isole solitarie, sono capaci di regalare pace a Ernesto. A
Mancarròn, mi assicurano, Ernesto abbandona la sua severità. Giurano di vederlo
sorridere e, qualche volta, molto tempo fa, lo hanno convinto a ballare.
Felice. Ernesto, naturalmente, mi risponde di odiare il ballo.
Ernesto si
accartoccia nella sua sedia, le sue statue sono un sipario insuperabile, ammiro
la perfezione del collo delle garzette di pietra. Mi incanta la sua arte. Un
uomo di parole che ha saputo lavorare la pietra, il legno, il metallo. So,
però, che non era bravo né come pescatore, né come contadino. ‘Ci provava – mi
raccontano a Solentiname – ma perdeva sempre i suoi raccolti di mais e fagioli’.
La faccia di Ernesto è aggrottata. Si nasconde dietro una valigetta nera. Mi
alzo, vado al suo fianco. Se potesse mi prenderebbe a calci. Vedo che tira
fuori giornali e tre copie della rivista Time. Nella sua vita da
monaco, Ernesto diceva che era una fortuna non avere giornali: ‘Così potevamo
avere una visione più chiara della totalità’. Nel 1970 dichiarò che non avrebbe
mai più letto Time: ‘Non volevo più farmi ingannare su Cuba’.
Cuba, per
lui, fu una ‘seconda conversione’. Oggi, nel mosaico incomprensibile della
politica latinoamericana, professa odio per Daniel Ortega, il presidente del
Nicaragua e suo antico compagno di battaglie, passione per Chavez e dubbi su
Fidel Castro.
Questa
mattina lo osservo mentre si immerge nella lettura dei giornali e sfoglia con
avidità le pagine di Time. E io rimango in piedi. Gli chiedo dei suoi anni
perché non so che altro chiedere. ‘Può darsi che io sia cambiato. Non lo so’.
Nostalgie? ‘Sì, ho nostalgia della Rivoluzione’. Ernesto ha scritto tre volumi
di una bellissima autobiografia: il primo è ‘La vita perduta’, l’ultimo è ‘La
Rivoluzione perduta’. Perdi sempre, Ernesto? ‘Leggi Luca – mi risponde quasi
con furia – Colui che perde la vita per me, la salverà. Io ho
guadagnato una vita. La Rivoluzione, no, l’abbiamo persa sul serio. Trent’anni
fa. Per colpa degli Stati Uniti e nostra. E oggi viene tradita ogni giorno’. I
poeti non sono stati capaci di governare un paese? ‘Non c’entrano i poeti, la
Rivoluzione è stata fatta da un popolo. I poeti erano metafora’. Non sono
d’accordo, Ernesto. Nei primi governi sandinisti c’erano cinque poeti, tre
preti, e tutti i ministri scrivevano poesie. Persino il severo Daniel Ortega,
che, quarant’anni dopo, è ancora al potere, scriveva poesie. La tua nemica di
oggi, la moglie di Ortega, Rosario Murillo, era un’eccellente poetessa. Persino
il rude Tomàs Borge, eroe della Rivoluzione, scrisse poesie splendide in cui
spiegava che la vendetta più bella era il perdono. In Nicaragua, hai la
sensazione che la poesia sia nell’aria. No, hai torto, Ernesto. Ma non ho il
coraggio di dirtelo.
E’
infastidito: ‘Non mi fare domande difficili’. E quali sono le domande facili?
‘Quelle per le quali non devo pensare prima di rispondere’. Scrivi ancora,
Ernesto? ‘A volte. Quando ho qualcosa di nuovo da dire. Non tutti i giorni’.
Non è vero, lo so. Hai sempre detto che i poeti devono essere umili, è così?
‘Non so, non so. Non arriviamo da nessuna parte a questa maniera. Preferisco non
parlare’. Ernesto non è umile. E’ vanitoso, orgoglioso. Penso alla regola del
silenzio nel monastero trappista: gli vietarono anche di scrivere. ‘Lo sapevo,
non mi importava’, ricorda. Penso alle parole infinite che ha poi scritto.
Penso alla sua poesia: ‘I poeti devono scrivere versi comprensibili, semplici,
essenziali. Bisogna capire, non essere enigmatici, prendere ispirazione dalla
realtà, dai cartelli stradali, dai supermercati, dalla pubblicità, dai
trattori. La poesia deve contenere storia, economia, dati, geografia, politica,
statistiche’. Hai imparato bene le lezioni di uno dei tuoi maestri, il poeta
nicaraguense Coronel Urtecho: ‘I poeti devono mangiare del buon pesce e devono
scrivere buone poesie. E avere buona fede. Devono essere uomini di fede’.
Eppure io so che Ernesto ha amato profondamento il più ostico e intricato degli
scrittori latinoamericani, l’argentino Julio Cortàzar. Penso all’ultimo,
immenso libro di Ernesto. Le cinquecento pagine di Canto Cosmico,
opera smisurata che vaga ai confini fra scienza e Dio. E ne afferma la stessa
sapienza, la stessa ricerca, lo stesso misticismo.
Uomo dalle
mille contraddizioni, Ernesto: sì, gli anni hanno affilato il suo carattere
come una lama. Gli strappo un sorriso con Papa Francesco: ‘Sta cambiando la
chiesa. Questa è la chiesa che Giovanni XXIII aveva già provato a costruire. E’
una Rivoluzione’. Come deve amare questa parola, Ernesto. Non azzardo a
chiedergli di Giovanni Paolo II, non voglio una tempesta sopra di me. Sono
contento che sorrida. Non voglio perdermi il suo sorriso. Mi dicono che quando
va alla Mascota, ospedale pediatrico di Managua, a parlare di poesia con i
bambini colpiti dalla leucemia, è il più tenero dei nonni. E i pescatori di
Solentiname mi parlano di lui con inarrivabile dolcezza.
Dalla
valigetta nera saltano fuori fogli battuti a macchina, foglietti colmi di
parole scritte con calligrafia illeggibile, libri, opuscoli, pezzi di carta.
Ernesto cerca di dividerli per sfuggire alla mia presenza. Quasi graffia il
telefono che lo insegue. A tutti ripete: ‘Non ho tempo’. Claudia, giovane
segretaria, sa come calmarlo. Lo protegge, impedisce che le telefonate lo
raggiungano, firma lei gli autografi che in mille, ogni giorno, gli chiedono.
LuzMarina mi
dice: ‘No, non chiederà la revoca della sospensione a divinis. Più
volte mi ha spiegato che lui non è diventato prete per dire messa, ma per amore
di Dio, per la Sua contemplazione, per la bellezza di Dio’. Guardo fuori, il
cielo azzurro, disperso di nuvole del Nicaragua. Sì, questo paese ha i più bei
tramonti del mondo. La loro bellezza è inarrivabile. Ernesto ha rinunciato a
tutto per la bellezza di Dio. Era ossessionato dalla bellezza. Le sue poesie
hanno lo stupore della bellezza di Carmen, la donna che più ha amato nella sua
vita. E lui aveva appena 18 anni. Lei, 14. E, per lei, scrisse versi
meravigliosi; tornò dal Messico con una camarita fotografica
solo per fotografarla. E il suo ricordo più sensuale è quando l’aiuta ad
attraversare una strada di Granada e le sfiora un gomito. Ernesto amava la
bellezza delle donne. Ma poi, di colpo, di fronte alle onde leggere del lago
Managua, capì che la bellezza assoluta era Dio. Si vide con la veste da
benedettino. Si consegnò a Dio. Ha rivisto Carmen settanta anni dopo. E
LuzMarina mi assicura che era emozionato come un bambino.
Alla fine,
ti alzi. E dici: ‘Me ne vado’. Pedro si incammina verso la macchina. A ogni
passo sembri cadere. Ma stai in piedi. Claudia ti guarda con qualche
apprensione. E io sono qui. Fermo sulla porta. Felice di essere qui. Felice dei
tuoi modi bruschi e delle tue non-parole che sembrano una lima sopra un legno.
Hanno la stessa forza con le quali le donne, nei mercati del Nicaragua, raspano
il ghiaccio per poi metterci sopra uno sciroppo dolcissimo. La granita, qui, si
chiama raspados. Parole raspadas. Parole per una
bevanda di miele. Cosa hai detto una volta? Che ‘la solitudine è amara e dolce,
come un coktail Martini. Così deve essere’.
Te ne vai e
io, posso giurarlo, vedo che hai appena afferrato una parola che ti era
sfuggita. E so che oggi finirà in un minuscolo foglietto. Che, forse, diventerà
frammento di poesia. So che hai dato ordine che le tue carte siano bruciate
dopo la tua morte, se la poesia dovesse rimanere non finita. E so che
LuzMarina, con le lacrime agli occhi, ubbidirà.
Non ho una
foto assieme a te, non ti ho chiesto un autografo. Eppure come me avevo un
libro del 1969 che ho ritrovato negli scaffali della mia libreria: alcune tue
poesie sono anonime perché, anche in Italia, c’era chi,
allora, voleva proteggerti dal tiranno. A te non ne fregherà un bel niente, ma
ho scritto questa non-intervista nella tua isola, ho visto l’alba dalla veranda
della tua casa, ho pregato nella tua chiesa dal pavimento di terra, ho
conosciuto i figli dei tuoi ‘figli’, ho visto volare le garzette che tu hai
fermato nella pietra, ho ascoltato il canto instancabile dei tuoi uccelli (e
non so come riprodurlo con le parole, tu sapresti farlo), ho mangiato il riso,
iplatanos fritti, i fagioli e perfino il maiale di doña Maria (e so
che per questo mi invidierai). E mi sono bagnato nelle acque del lago
Nicaragua.
Questa è
stata la più bella intervista della mia vita.
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