La cautela espressa dal governo italiano
a fronte delle indiscrezioni della stampa su un impegno importante di truppe
italiane sul terreno, apre la possibilità di chiedere con forza e subito un ripensamento radicale
dell’approccio alla crisi libica che si è andato configurando negli scorsi mesi. Proprio a fronte dell’impasse nella quale il
dibattito politico sulla Libia si è avvitato, è possibile ora proporre un’opzione
diversa, per prevenire anche il rischio di una
precipitazione verso soluzioni “false” improntate sull’uso della forza, al di
fuori della legittimità internazionale. In
tale quadro, la prima scelta necessaria sarà quella della de-escalation della
logica di guerra e di uso della forza per risolvere la crisi libica, che
rischia da una parte di pregiudicare ulteriormente una possibile soluzione
politica e negoziale, e dall’altra di
rafforzare le posizioni ed il protagonismo delle varie milizie armate e di
Daesh (IS).
La crisi
libica può essere distinta in tre dinamiche: la prima relativa alla
stabilizzazione del paese, la seconda rispetto al contrasto a Is, la terza
rispetto alla possibile nuova crisi “migratoria”. Le
tre questioni possono e devono essere affrontate e risolte con gli strumenti della diplomazia e della politica, nel
rispetto della legalità internazionale e dei diritti fondamentali.
Per quanto riguarda la stabilizzazione e
il perseguimento di un’opzione politica,qualsiasi governo di unità nazionale eterodiretto,
oggi, risulterebbe fortemente delegittimato all’interno del paese, visto lo scarso livello di
coinvolgimento delle tribù e delle realtà locali. Senza un dialogo dal basso
tra i vari attori, senza la convocazione di una shura dei
leader locali, tribali, o dell’emergente società civile libica. Un governo di comodo di unità nazionale che chiedesse
un intervento esterno creerebbe ancor più caos e violenza, dai quali Daesh
potrebbe beneficiare. In questo quadro, l’Italia si trova ora di fronte a un’impasse:
o continuare a sostenere il governo di Tobruk e le milizie di Misrata, o
invertire la rotta e sostenere invece il governo di Tripoli, principalmente in
chiave di protezione e tutela degli interessi economici dell’Eni. Tra queste
opzioni ne resta una terza: quella
di essere neutrali rispetto alle due fazioni, e invece
controproporre una strategia di costruzione della pace che preveda anzitutto la
convocazione di un tavolo che veda riuniti tutti i soggetti politici e sociali
libici, le tribù, i governatori locali e quelle strutture sociali e
amministrative e di società civile che dovranno costituire l’ossatura del nuovo
assetto di “governo” del paese.
:
Neutralità
attiva significa in questo caso creare le condizioni per un ruolo terzo di
mediazione che prevede l’abbandono di ogni opzione militare, e mantenere misure
volte a prevenire il flusso di armi, tra cui l’embargo all’export di armamenti
verso la Libia, assieme al sostegno ad attività di
peacebuilding, anche attraverso il coinvolgimento delle strutture
dedicate delle Nazioni Unite quali la UN
Peacebuilding Commission. Questo implicherebbe per il governo italiano la
necessità di rivedere radicalmente le strategie militari finora messe a punto,
che prevedono ad esempio l’uso di forze speciali per intervenire sotto il comando
dell’Aise e del presidente del consiglio.
Tale condizione di segretezza nell’invio
di truppe prefigurerebbe un gravissimo vulnus
“legale” e di controllo democratico e collocherebbe il nostro paese nella zona
oscura dell’extragiudizialità rispetto al diritto internazionale. Riteniamo sia invece
assai più logico e opportuno predisporre un approccio di “polizia” rispetto a Is dando seguito ed
impegnandosi a sostenere le raccomandazioni contenute nell’ultimo rapporto di
Ban Ki Mun su Daesh presentato il 29 gennaio scorso. Il Segretario generale
elenca una serie di misure da intraprendere sule quali chiediamo un maggior
impegno da parte del governo italiano tra cui: contrasto al finanziamento del
terrorismo attraverso la collaborazione delle forze di polizia e Interpol,
contrasto al reclutamento via internet, prevenzione e interruzione degli
spostamenti di combattenti di Daesh attraverso la collaborazione e lo scambio
di dati, prevenzione di attacchi terroristici, attraverso la collaborazione
delle forze di polizia e investigative, e l’adozione di misure di prevenzione che siano
rispettose dei diritti umani, reintegrazione e riabilitazione dei foreign
fighters che rientrano in patria.
Sul tema della sicurezza, riteniamo
essenziale rielaborare questo concetto anche nel caso libico, e quindi passare
ad un approccio fondato sulla sicurezza umana,
che prevede da una parte misure a garanzia dei diritti umani e dall’altra la
protezione delle popolazioni civili, attraverso strumenti di interposizione ed early warning, che potrebbero essere svolti
da contingenti
civili-militari disarmati, sotto il mandato delle Nazioni Unite o
da una missione EUpol di polizia internazionale.
Ultimo ma non da meno, la questione dei migranti e rifugiati. La missione Euronavfor Med inviata dall’Europa con
l’obiettivo iniziale di lottare contro i trafficanti di essere umani, rischia di trasformarsi in
una missione di guerra di terra, qualora si passasse alla fase tre, che prevede
interventi armati sul suolo libico. Chiediamo
invece che tale missione venga riconfigurata con mandato Onu e trasformata
essenzialmente in missione di salvataggio di supporto a canali umanitari.
:Più in generale, pensiamo sia giunto il
momento, di fronte al rischio di un’escalation di guerra che
potrebbe infiammare l’intera area mediterranea, di chiedere la convocazione di
una riunione straordinaria dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sulla
crisi politica, sociale e umanitaria nel Medio Oriente e nel Mediterraneo. Da tale Assemblea dovrebbe uscire un messaggio chiaro
sulla trasformazione delle missioni navali Nato e Ue (Euronavfor Med) in missioni a comando Onu, con obiettivo di creazione
di canali umanitari, un piano straordinario per l’assistenza ai rifugiati e
profughi e di aiuti umanitari per la popolazione libica, programmi ampi di
sostegno e formazione ad attivisti libici per i diritti umani, la convocazione
di una “shura” o consiglio nazionale
di tutti i soggetti politici e sociali della Libia, il rilancio delle soluzione
“politiche” all’avanzata di Is, e la
costituzione di una missione civile-militare disarmata di polizia
internazionale, peacebuilding e di tutela delle popolazioni civili.
In venticinque anni di guerra la comunità
internazionale e la leadership irachena hanno distrutto
l’Iraq. Oggi continuiamo a sbagliare e avremo
presto 1.300 soldati italiani dispiegati tra Iraq e Kuwait, investendo soldi e
vite umane in interventi che destabilizzano ulteriormente i conflitti inter-etnici
e tra fazioni politiche in Iraq. Riusciremo a non fare gli stessi errori in Libia?
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