A passi felpati e a occhi bendati l’Italia si avvia alla
guerra. Per certi versi, a contare i caduti sul terreno, c’è già dentro.
E la fortunata soluzione per i
due altri lavoratori che hanno avuto il coraggio di liberarsi e sono vivi,
comunque fa capire che a Sabratha di un «assaggio di guerra» si è trattato,
vale a dire del caos e della ambiguità nel quale rischieremmo di precipitare se
solo l’Italia intervenisse in armi in Libia. Ma purtroppo, come in altri
momenti oscuri della storia, ci si avvia a una nuova avventura coloniale che ha
tutte le caratteristiche per annunciarsi disastrosa, e lo si fa nelle
condizioni peggiori.
Con poche idee (forse nessuna).
In un quadro di collaborazione sgangherato (mentre a Roma si chiede la «guida
delle operazioni», americani inglesi e francesi già operano per conto loro).
Con i peggiori alleati che ci si possa immaginare: Egitto, Turchia, Arabia Saudita,
Qatar, i foraggiatori di quell’Isis che si dice di andare a combattere. E
come riferimento l’orrendo generale Haftar in quella Cirenaica in cui,
nella prima metà del secolo scorso, noi italiani – con generali che si
chiamavano Badoglio e Graziani – abbiamo perpetrato una vera e propria pulizia
etnica, deportandone la popolazione e facendo oltre centomila morti in
operazioni di repressione e quarantamila nei lager messi su lungo quella costa
da cui oggi partono i barconi.
Così a sud. Mentre a nord, sulle
spiagge di Calais, il socialista Hollande attacca a colpi di ruspa la città
dolente dei profughi di altre guerre, in combutta col conservatore Cameron il
quale annuncia che, di quella moltitudine di fuggiaschi, non ne accetterà più
di 5000 all’anno ma in compenso donerà 20 milioni di euro al governo francese,
per compensarne la complicità.
E a est nuovi fascismi crescono,
a murare la Grecia di Alexis Tsipras, unico paese capace di una cosmopolitica
umanitaria, già prosciugato dalle vessazioni economiche di un’Europa a sua
volta murata nel proprio egoismo e ora condannato a divenire un enorme campo
profughi a cielo aperto.
L’immagine che ne emerge è quella
di una classe dirigente disastrosa. Spaventosamente al di sotto delle sfide che
è chiamata ad affrontare. Uomini, in prevalenza, ma anche donne – poche, ma
potenti – dai volti ingessati, di circostanza. (Si pensi alle foto di
gruppo dei summit europei), che si riempiono la bocca promettendo Ordine,
Sicurezza, Responsabilità, Rispetto delle Regole, e sono in realtà i Signori
del Caos. Incapaci di immaginare le condizioni elementari della convivenza
civile e di un sistema di relazioni tra persone, gruppi sociali, popolazioni
razionalmente e umanamente sostenibile.
Non è solo Matteo Renzi – che
pure quanto a faciloneria e demagogia non scherza – con il suo giglio
magico, incerto tra la grande catastrofe dell’intervento armato aperto e
la piccola catastrofe dell’azione coperta, anche agli occhi del Parlamento, ma
comunque incapace di pensare un’alternativa alla guerra.
È tutto l’establishment politico e finanziario occidentale che
ha fatto fallimento. E che continua a riproporsi, fallendo. Nel silenzio, e
nella penombra spessa che ha avvolto il mondo della cultura, incapace di
pensare un’alternativa di sistema nell’età dei tramonti.
È quanto Luciano Gallino, nel suo
ultimo libro-testamento, ha descritto parlando della sconfitta del «pensiero
critico» e del «trionfo della stupidità» su scala globale (gara nella quale
l’Oscar spetterebbe probabilmente di diritto ai vecchi partiti socialisti e
socialdemocratici europei, che come ha scritto Piero Bevilacqua «si ritirano
dai valori della propria storia»).
Pesa dunque, in uno dei momenti
più difficili e pericolosi del passaggio di secolo, il vuoto lasciato aperto
dalle vecchie sinistre, tutte, quale più quale meno, in dissoluzione, mentre le
nuove crescono a macchia di leopardo, impetuose in alcuni Paesi – non per nulla
bersaglio di oligarchie politiche e finanziarie europee e globali -, fragili e
stentate in altri (il nostro in primis).
Su questo scenario, e questi
compiti, dovrebbe concentrarsi l’impegno delle nostre frastagliate e disperse
forze, fuori da tatticismi, competizioni intraspecifiche, piccole rivalità,
grandi vuoti mentali.
Prima che siano la guerra e i
disumani populismi a dettare le regole del gioco.
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