Il male del nostro tempo
“E se potessi racchiudere in un’immagine tutto il male del nostro tempo,
sceglierei quest’immagine, che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte
china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere
traccia di pensiero”. L’uomo è seduto davanti a noi nel posto medico per
l’assistenza psicologica, un piccolo modulo di plastica, il caldo è soffocante.
Siamo nel deserto, a pochi chilometri da Agadez, nel campo allestito dall’UNHCR
per i rifugiati in fuga dalla Libia. L’uomo, sudanese, ha trenta, forse
quarant’anni; racconta di come è fuggito dal Darfur, dove il suo villaggio è
stato distrutto e parte della sua famiglia sterminata. Il resto delle persone a
lui care, un figlio e un fratello, le ha perse nei campi di sequestro libici
dove è rimasto quasi un anno; poi la fuga ancora in Algeria perché l’accesso
alle coste libiche e all’Europa era bloccato e il respingimento da quel
paese, con una marcia forzata nel Sahara nigerino, fino ad Agadez. L’uomo
ha perso tutto; le persone, le cose, la sua terra. Racconta la sua storia con
un tono di voce regolare, monotono, in un silenzio assoluto in cui anche il
respiro di noi medici sembra essersi fermato, sembra che la sua voce debba
spezzarsi da un momento all’altro e trasformarsi, se non in pianto, in lacrime.
Ma non avviene. Al termine, il suo sguardo appare perduto, i suoi occhi vuoti,
il suo corpo scarno e ripiegato su se stesso. Da un angolo della mia memoria
riemerge la descrizione di un uomo ad Auschwitz, in Se questo è un uomo di
Primo Levi.
Per ogni generazione c’è un momento in
cui ogni certezza si sgretola e ciò che è umano sembra svanire. Per la nostra,
quel momento è arrivato nel quotidiano incontro con uomini, donne e bambini
migranti sopravvissuti alle atrocità commesse nei campi di tortura in Libia e
sulle rotte migratorie del XXI secolo. Si dirà che l’accostamento dei campi di
sequestro e dei centri di detenzione libici in cui dal 2011 almeno un milione
di persone sono state rinchiuse per settimane, mesi o anni, all’Olocausto per
eccellenza, ai campi di sterminio hiltleriani, sia del tutto pretestuoso data
l’incomparabilità storica e oggettiva delle due vicende. Forse, probabilmente.
Lascerò giudicare a chi leggerà queste righe. Mi limiterò ad elencare solo
alcune delle volte (purtroppo gli esempi sarebbero assai di più, date le
innumerevoli testimonianze di atrocità ascoltate come medico e psicoterapeuta
in questi anni) in cui le storie e le evidenze raccolte dagli operatori di
Medici per i Diritti Umani direttamente dai sopravvissuti mi hanno richiamato
attraverso un prepotente meccanismo di associazione, le parole di Primo Levi.
Faccio questo, lo ammetto, per impellente necessità personale, non pretendendo
che le associazioni della mia testa abbiano sempre un’indiscutibile forze
oggettiva.
Sonderkommandos (squadre
speciali)
Così le SS chiamavano, in modo volutamente vago, i gruppi di prigionieri che
venivano obbligati ad occuparsi dei forni crematori ad Auschwitz e negli altri
lager nazisti. “Aver concepito ed organizzato le Squadre (sonderkommandos
n.d.r) è stato il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo. Attraverso
questa istituzione, si tentava di spostare su altri, e precisamente sulle
vittime, il peso della colpa talché, a loro sollievo, non rimanesse neppure la
consapevolezza di essere innocenti. Non è facile né gradevole scandagliare
questo abisso di malvagità, eppure io penso che lo si debba fare, perché ciò
che è stato possibile perpetrare ieri potrà essere nuovamente tentato domani” (I sommersi e i salvati, Primo Levi). “Ho lavorato per la polizia libica ma non era proprio un lavoro.
Loro mi usavano, io non mi potevo rifiutare. Quando ho provato a rifiutarmi mi
hanno picchiato violentemente e hanno minacciato di uccidermi. Il mio compito
era quello di recuperare i cadaveri dal mare, i cadaveri dei miei fratelli che
morivano durante i naufragi. Li recuperavo e poi dovevo seppellirli. In questi
due anni ho contato circa 3.000 corpi. Ho finito per farci l’abitudine. Alla
fine non mi emozionavo più, non mi sconvolgevo più. Solo per le donne che erano
visibilmente in gravidanza o per i cadaveri dei bambini non sono mai riuscito a
farci l’abitudine. (L., 17 anni, dal Gambia, testimonianza raccolta
presso l’Hotspot di Pozzallo, ottobre 2017).
La vergogna e la colpa
“L’uscir di pena è stato un diletto solo per pochi fortunati, o solo per pochi
istanti, o per animi molto semplici; quasi sempre ha coinciso con una fase di
angoscia… A mio avviso, il senso di vergogna o di colpa che coincideva con la
riacquistata libertà era fortemente composito: conteneva in sé elementi
diversi, ed in proporzioni diverse per ogni singolo individuo…Si soffriva per
la riacquistata consapevolezza di essere stati menomanti. Non per volontà né
per ignavia né per colpa, avevamo tuttavia vissuto per mesi o anni ad un
livello animalesco” (I sommersi e i salvati,
Primo Levi). “Vicino alla città di Ajdabiya siamo stati
rapiti da militanti del Daesh (l’autoproclamato Stato Islamico, n.d.r) e per 3
mesi ci hanno tenuto in ostaggio. All’inizio ci maltrattavano con i fucili, con
i coltelli, urinavano su di noi, facevano tutto quello che volevano senza
pietà. Dormivamo ammassati in un capannone senza mangiare e senza bere. Io sono
cristiano, ma quando ho capito che l’unico modo per salvare la mia vita era
convertirmi l’ho fatto…” (M.I., dall’Eritrea, 22 anni,
testimonianza raccolta a Roma presso la clinica mobile di Medu, novembre
2015). “Da lì, sono stato portato alla prigione di Al-Khums, lontano da
Tripoli. C’erano più di 300 persone in ciascuna stanza, non c’era spazio per
stendersi e per dormire. Ci davano poca acqua e poco cibo. Ogni giorno alle 13
ci portavano un pezzo di pane e un bicchiere di acqua. Questo era tutto ciò che
abbiamo ricevuto per tutti gli 8 mesi in cui sono stato detenuto lì
dentro.” (A. D, 20 anni, dal Gambia, testimonianza raccolta
presso il CAS di Canicarao, Ragusa, novembre 2014).
“Più realistica è l’autoaccusa, o
l’accusa, di aver mancato sotto l’aspetto della solidarietà umana
…quasi tutti si sentono colpevoli di omissione di soccorso…Hai vergogna perché
sei vivo al posto di un altro? Ed, in specie, di un uomo più generoso, più
sensibile, più savio, più utile, più degno di vivere di te ? … è una supposizione
ma rode; si è annidata profonda, come un tarlo… (I sommersi e i salvati,
Primo Levi). “Il casolare dove eravamo tenuti prigionieri
era a pochi chilometri dal mare, ad Al Zawiya. Quella sera le guardie entrarono
nello stanzone in cui eravamo ammassati per portare via i cadaveri di alcuni di
noi; poi iniziarono a picchiare selvaggiamente alcuni nuovi arrivati che,
secondo loro, non obbedivano agli ordini abbastanza velocemente. Io e il mio
amico approfittammo del trambusto; la porta era rimasta semi aperta. Iniziammo
a correre senza guardare indietro, con tutte le forze che avevamo ancora nelle
gambe. Eravamo quasi al sicuro in un campo di ulivi quando una raffica di mitra
colpì il mio amico. Cadde a terra. Io mi fermai per un attimo, poi ripresi a correre
perché le guardie stavano arrivando. Piango ora come allora. Lo porterò con me
fino a che vivrò.” (A., 20 anni, dalla Sierra Leone,
testimonianza raccolta al centro Medu Psychè, settembre 2017).
“E c’è una vergogna più vasta, la
vergogna del mondo…c’è chi davanti alla colpa altrui, o alla propria, volge le
spalle, così da non vederla e non sentirsene toccato … nell’illusione che il
non vedere sia un non sapere” (I sommersi e i salvati,
Primo Levi). La vergogna del mondo, certo. Dell’Italia, dell’Europa, della
comunità internazionale. La nostra vergogna che è l’ostinazione a non
voler vedere chi sta dall’altra parte del mare, per non sapere, per declinare
ogni responsabilità. Oppure il voler credere, al di là di ogni evidenza, che
sia tutto finto, sia tutta propaganda perché in realtà “qui da noi arrivano
finti rifugiati, giovani palestrati con i cellulari di ultima generazione e le
catene d’oro”. Chiunque abbia responsabilità di governo, qualunque cittadino
degno di questo nome prima di formulare giudizi e intraprendere azioni dovrebbe
riflettere su come i peggiori crimini del mondo contemporaneo siano sempre
stati oggetto di incredulità e di ogni tipo di negazionismo; dovrebbe per lo
meno porsi il dubbio prima di urlare il proprio verdetto.
Violenza inutile
“Violenza inutile, fine a se stessa, volta unicamente alla creazione di dolore;
talora tesa ad uno scopo, ma sempre ridondante, sempre fuor di proporzione
rispetto allo scopo medesimo” (I sommersi e i salvati,
Primo Levi). “La Libia è stato un inferno. Io sono
maledetta, sono proprio maledetta. A Sabha mi hanno preso e portato in
prigione, volevano da me dei soldi. Sono stata in prigione sette mesi: dal
settembre 2016 all’aprile 2017. Mi hanno fatto di tutto! Ogni giorno ci
prendevano e ci portavano da degli uomini per soddisfare le loro voglie. Mi
hanno preso da davanti, da dietro, erano così violenti che dopo avevo
difficoltà anche a sedermi. Mi filmavano mentre mi violentavano. Mi urinavano
addosso! Un giorno mi hanno costretta ad avere un rapporto con un cane e loro
mi hanno filmato. Sono maledetta” (N. S., dalla Costa
d’Avorio, 40 anni, testimonianza raccolta presso il CARA di Mineo, giugno
2017). “Le guardie si divertivano a vederci soffrire. Ci portavano il
cibo una volta al giorno e mentre ce lo davano ci torturavano con le scosse
elettriche. Durante 3 mesi sono stato picchiato ogni giorno. Le guardie
venivano, mi facevano togliere la maglietta e mi picchiavano sulla schiena con
un bastone, dicevano che senza vestiti faceva più male e loro si divertivano. A
volte invece di picchiarmi mi bruciavano, scaldavano un ferro da stiro e me lo
appoggiavano addosso”. (G.O., 19 anni, dalla Nigeria, testimonianza
raccolta presso l’Hotspot di Pozzallo, agosto 2017). “Vivevamo nel terrore anche perché sembrava che i carcerieri ci
facessero del male per puro divertimento o per proprio piacere. A volte la
notte arrivavano ubriachi e se qualcuno passava sparavano. A volte lasciavano
morire le persone dissanguate.”. (O., 18 anni, dalla Nigeria,
testimonianza raccolta presso l’Hotspot di Pozzallo, 8 settembre 2017).
“Evacuare in pubblico era angoscioso o
impossibile: un trauma a cui la nostra civiltà non ci prepara, una ferita
profonda inferta alla dignità umana, un attentato osceno e pieno di presagio;
ma anche il segnale di una malignità deliberata e gratuita” (I sommersi e i salvati, Primo Levi). “Il cibo veniva preparato negli stessi contenitori dove ci si
lavava e si urinava. Le guardie del centro mescolavano gli escrementi che i
bambini facevano nella spazzatura con gli alimenti ed eravamo costretti a
mangiare quel cibo anche perché eravamo da giorni o settimane a digiuno.” (M.,
dalla Costa d’Avorio, 38 anni, testimonianza raccolta presso il CARA di Mineo,
agosto 2017).
Kapò
“(i Kapò, n.d.r.) erano liberi di commettere sui loro sottoposti le peggiori
atrocità, a titolo di punizione per qualsiasi loro trasgressione, o anche senza
motivo alcuno: fino a tutto il 1943, non era raro che un prigioniero fosse
ucciso a botte da un Kapo, senza che questo avesse da temere alcuna sanzione” (I sommersi e i salvati, Primo Levi). “Preciso che io mi trovavo a Sabha nel ghetto dei nigeriani ed il
capo del centro era il nigeriano Rambo. Ho poi saputo che c’erano ghetti per
ogni nazionalità, ma tutti facevano parte del grande Ghetto di Alì. Ogni ghetto
aveva un capo, spesso della stessa nazionalità dei prigionieri che dipendeva
dai padroni libici. Subivamo ogni giorno violenze atroci. Rambo era una
presenza fissa. Era presente all’appello e procedeva personalmente a torturare
i ragazzi che non pagavano per essere liberati” (W., 20 anni,
dalla Nigeria, testimonianza raccolta al centro Medu Psychè, dicembre 2017).
Gli scopi del sistema
“Il lavoro non retribuito, cioè schiavistico, era uno dei tre scopi del sistema
concentrazionario (nazista, n.d.r.); gli altri due erano l’eliminazione degli
avversari politici e lo sterminio delle cosiddette razze inferiori … il regime
concentrazionario sovietico differiva da quello nazista per la mancanza del
terzo termine e per il prevalere del primo” (I sommersi e i salvati,
Primo Levi). Estorsione di denaro e lavoro schiavistico, sono i principali
scopi dei campi di sequestro e dei centri di detenzione libici. Come nei gulag,
la morte è dunque “un sottoprodotto” mentre nei campi di sterminio hitleriani
essa ero lo scopo ultimo. “Sono stato rinchiuso in una
prigione per 2 anni. Non ci portavano niente da mangiare. Venivano per il cibo
un giorno si e uno no e il cibo era solo un piccolissimo pezzo di pane. Durante
questi due anni mi hanno picchiato tantissimo, tutti i giorni. E non mi
facevano mai alzare, ero costretto a stare sempre seduto. Ho cominciato a non
riuscire più a usare bene le gambe. Non riesco più a stendere le gambe, non
riesco camminare e nemmeno a stare in piedi. Mentre ero in prigione non potevo
muovermi, alla fine. Non sono riuscito nemmeno a salire sulla barca che mi
portava in salvo. Un amico ha dovuto prendermi in braccio…Queste persone
volevano da me un riscatto ma io non sapevo come pagare. Se sono libero oggi è
perché mi hanno dato per spacciato, ero vicinissimo alla morte secondo loro.
Per questo mi hanno liberato. Pensavano che da me non avrebbero potuto ottenere
nient’altro.” (A., 20 anni, dalla Somalia, testimonianza raccolta presso
l’Hotspot di Pozzallo, novembre 2017).
Sebbene non ne sia un aspetto fondante,
il movente dell’odio e del disprezzo razziale è comunque rintracciabile anche
per molte delle atrocità commesse in Libia. “Il trattamento che viene
riservato agli eritrei e ai somali non è lo stesso. Gli eritrei in generale
vengono trattati un po’ meglio, i somali invece vengono massacrati. Il cibo e
l’acqua non ci sono per nessuno. Però ai somali fanno subire più violenze e
crudeltà. Queste cose vengono fatte da Walid e dai suoi uomini che sono
moltissimi. Si divertono a vederci soffrire. Di solito vengono la mattina e
passano tutta la mattinata a giocare con noi. Ci costringono a farci del male
l’uno all’altro. Per esempio se si accorgono che due persone sono moglie e
marito chiedono ad uno di picchiare l’altra nel modo più forte possibile.
Oppure se una persona sta molto male le guardie vanno lì e dicono “Tu non sei
né vivo né morto, ti devi decidere”. E allora lo picchiano violentemente. Così
la persona deve scegliere se riuscire ad alzarsi e continuare a vivere o lasciarsi
andare e morire.” (G., 18 anni, dall’Eritrea, testimonianza
raccolta presso l’Hotspot di Pozzallo, novembre 2017). “Sono stato quattro anni nelle mani di criminali e miliziani
libici. Ho dovuto lavorare come schiavo. Ho subito violenze senza fine. Ma la
cosa che ancora oggi più mi duole è che mi abbiano impedito di praticare la mia
religione. Dicevano che un negro non può essere un vero musulmano.” (S.,
31 anni, dalla Guinea, testimonianza raccolta al centro Medu Psychè, novembre
2017).
Umano e disumano
Non erano di “una sostanza umana perversa, diversa dalla nostra (i sadici, gli
psicopatici c’erano anche fra loro, ma erano pochi): semplicemente “erano
piuttosto bruti ottusi che demoni sottili. Erano stati educati alla violenza:
la violenza correva nelle loro vene, era normale, ovvia.” (I sommersi e i salvati, Primo Levi). Auschwitz
ritornerà? Era una delle domande più frequenti che veniva rivolta a Primo Levi
e agli altri superstiti dell’Olocausto. I lager libici mostrano qui forse
l’aspetto più inquietante: anche senza la letifera ideologia nazista, pezzi di
quel mostro possono ritornare in altre epoche e con altri uomini. Il lettore
avrà notato che le testimonianze riportate in queste righe si arrestano al
dicembre del 2017. I lager libici sono ancora lì, intatte macchine di dolore e
di morte. Semplicemente i migranti che dalla Libia riescono a raggiungere
l’Italia e l’Europa sono oggi enormemente meno. Come ha scritto Levi “le verità
scomode hanno un difficile cammino”.
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Dal 2014 Medici per i Diritti Umani
gestisce in Italia, Egitto e Niger programmi medico-psicologici di supporto a
migranti e rifugiati sopravvissuti a tortura e violenza intenzionale. La web
map Esodi raccoglie
migliaia di testimonianze raccolte sulle rotte migratorie dall’Africa
sub-sahariana all’Europa.