IL TRATTATO DEL
1947 HA SEGNATO LA NOSTRA SCHIAVITÙ (MA LE CATENE SI POSSONO SPEZZARE)
Mentre il nostro Governo accetta senza batter ciglio che la più grande portaerei statunitense attraversi il nostro mare Adriatico[1], ricordiamo quali siano le ragioni storiche di questo subire costante le decisioni americane sul nostro territorio. Bisogna guardare indietro, al Trattato di Pace firmato a Parigi nel 1947 fu di fatto una Resa senza condizioni[2], un “Dettato di Pace”[3]. L’Assemblea costituente italiana votò a favore della ratifica del Trattato di Parigi il 31 luglio 1947, e autorizzò il Governo della Repubblica guidato da Alcide de Gasperi a ratificarlo con legge del 2 agosto 1947; Enrico de Nicola gli diede piena ed intera attuazione con decreto legislativo del 28 novembre 1947, recependolo nell’ordinamento giuridico italiano con effetto retroattivo al 16 settembre 1947.
Qui
di seguito il discorso vibrante e indignato di Benedetto Croce all’Assemblea
costituente[4].
“Io non pensavo che la sorte mi
avrebbe, negli ultimi miei anni, riserbato un così trafiggente dolore come
questo che provo nel vedermi dinanzi il documento che siamo chiamati ad
esaminare, e nell’essere stretto dal dovere di prendere la parola intorno ad
esso. Ma il dolore affina e rende più penetrante l’intelletto che cerca nella
verità la sola conciliazione dell’interno tumulto passionale.
Noi italiani abbiamo perduto una
guerra, e l’abbiamo perduta ‹‹tutti››, anche coloro che l’hanno deprecata con
ogni loro potere, anche coloro che sono stati perseguitati dal regime che l’ha
dichiarata, anche coloro che sono morti per l’opposizione a questo regime,
consapevoli come eravamo tutti che la guerra sciagurata, impegnando la nostra
Patria, impegnava anche noi, senza eccezioni, noi che non possiamo distaccarci
dal bene e dal male della nostra Patria, né dalle sue vittorie né dalle sue
sconfitte. Ciò è pacifico quanto evidente.
Sennonché il documento che ci
viene presentato non è solo la notificazione di quanto il vincitore, nella sua
discrezione o indiscrezione, chiede e prende da noi, ma un giudizio morale e
giuridico sull’Italia e la pronunzia di un castigo che essa deve espiare per
redimersi e innalzarsi o tornare a quella sfera superiore in cui, a quanto
sembra, si trovano, coi vincitori, gli altri popoli, anche quelli del
Continente nero.
E qui mi duole di dovere
rammentare cosa troppo ovvia, cioè che la guerra è una legge eterna del mondo,
che si attua di qua e di là da ogni ordinamento giuridico, e che in essa la
ragion giuridica si tira indietro lasciando libero il campo ai combattenti,
dall’una e dall’altra parte intesi unicamente alla vittoria, dall’una e
dall’altra parte biasimati o considerati traditori se si astengono da cosa
alcuna che sia comandata come necessaria o conducente alla vittoria. Chi
sottopone questa materia a criteri giuridici, o non sa quel che si dica, o lo
sa troppo bene, e cela l’utile, ancorché egoistico, del proprio popolo o Stato
sotto la maschera del giudice imparziale. Segno inquietante di turbamento
spirituale sono ai nostri giorni (bisogna pure avere il coraggio di
confessarlo) i tribunali senza alcun fondamento di legge, che il vincitore ha
istituiti per giudicare, condannare e impiccare, sotto nomi di criminali
di guerra, uomini politici e generali dei popoli vinti, abbandonando la diversa
pratica, esente da ipocrisia, onde un tempo non si dava quartiere ai vinti o ad
alcuni dei loro uomini, e se ne richiedeva la consegna per metterli a morte,
proseguendo e concludendo con ciò la guerra. Giulio Cesare non mandò innanzi a
un tribunale ordinario o straordinario l’eroico Vercingetorige, ma, esercitando
vendetta o reputando pericolosa alla potenza di Roma la vita e l’esempio di
lui, poiché gli si fu nobilmente arreso, lo trascinò per le strade di Roma
dietro il suo carro trionfale e indi lo fece strozzare nel carcere. Parimenti
si è preso oggi il vezzo, che sarebbe disumano, se non avesse del tristemente
ironico, di tentar di calpestare i popoli che hanno perduto una guerra, con
l’entrare nelle loro coscienze e col sentenziare sulle loro colpe e pretendere
che le riconoscano e promettano di emendarsi: che è tale pretesa che neppure
Dio, il quale permette nei suoi ascosi consigli le guerre, rivendicherebbe a
sé, perché egli non scruta le azioni dei popoli nell’ufficio che il destino o
l’intreccio storico di volta in volta loro assegna, ma unicamente i cuori e i
reni, che non hanno segreti per lui, dei singoli individui. Un’infrazione della
morale qui indubbiamente accade, ma non da parte dei vinti, si piuttosto dei
vincitori, non dei giudicati, ma degli illegittimi giudici.
Noi italiani, che abbiamo nei
nostri grandi scrittori una severa tradizione di pensiero giuridico e politico,
non possiamo dare la nostra approvazione allo spirito che soffia in questo
dettato, perché dovremmo approvare ciò che sappiamo non vero e pertinente a
transitoria malsania dei tempi: il che non ci si può chiedere. Ma altrettanto
dubbio suscita questo documento nell’altro suo aspetto di dettato
internazionale, che dovrebbe ristabilire la collaborazione tra i popoli
nell’opera della civiltà e impedire, per quanto è possibile, il rinnovarsi
delle guerre.
Il tema che qui si tocca è così
vasto e complesso che io non posso se non lumeggiarlo sommariamente e in
rapporto al solo caso dell’Italia, e nelle particolarità di questo caso.
L’Italia, dunque, dovrebbe, compiuta l’espiazione con
l’accettazione di questo dettato, e così purgata e purificata, rientrare nella
parità di collaborazione con gli altri popoli. Ma come si può credere che ciò sia possibile, se la
prima condizione di ciò è che un popolo serbi la sua dignità e il suo legittimo
orgoglio, e voi o sapienti uomini del tripartito, o quadripartito internazionale,
l’offendete nel fondo più geloso dell’anima sua, perché, scosso che ebbe da sé
l’Italia, non appena le fu possibile, l’infesto regime tirannico che la
stringeva, avete accettato e sollecitato il suo concorso nell’ultima parte
della guerra contro la Germania, e poi l’avete, con pertinace volontà, esclusa
dai negoziati della pace, dove si trattava dei suoi più vitali interessi,
impedendole di fare udire le sue ragioni e la sua voce e di suscitare a sé
spontanei difensori in voi stessi o tra voi? E ciò avete fatto per avere le
sorti italiane come una merce di scambio tra voi, per equilibrare le vostre
discordi cupidigie o le vostre alterne prepotenze, attingendo ad un fondo
comune, che era a disposizione.
Così all’Italia avete ridotto a poco più che forza di
polizia interna l’esercito, diviso tra voi la flotta che con voi e per voi
aveva combattuto, aperto le sue frontiere vietandole di armarle a difesa,
toltole popolazioni italiane contro gli impegni della cosiddetta Carta
atlantica, introdotto clausole che violano la sua sovranità sulla popolazioni
che le rimangono, trattatala in più cose assai più duramente che altri Stati ex
nemici, che avevano tra voi
interessati patroni, toltole o chiesta una rinunzia preventiva alle colonie che
essa aveva acquistate col suo sangue e amministrate e portate a vita civile ed
europea col suo ingegno e con dispendio delle sue tutt’altro che ricche
finanze, impostole gravi riparazioni anche verso popoli che sono stati dal suo
dominio grandemente avvantaggiati; e perfino le avete come ad obbrobrio,
strappati pezzi di terra del suo fronte occidentale da secoli a lei congiunti e
carichi di ricordi della sua storia, sotto pretesto di trovare in quel possesso
la garanzia contro una possibile irruzione italiana, quella garanzia che una
assai lunga e assai fortificata e assai vantata linea Maginot non seppe dare.
Non continuo nel compendiare gli
innumeri danni ed onte inflitte all’Italia e consegnati in questo documento,
perché sono incisi e bruciano nell’anima di tutti gli italiani; e domando se,
tornando in voi stessi, da vincitori smoderati a persone ragionevoli, stimate
possibile di avere acquistato con ciò un collaboratore in piena efficienza per
lo sperato nuovo assetto europeo.
Il proposito doveroso di questa
collaborazione permane e rimarrà saldo in noi e lo eseguiremo, perché
corrisponde al nostro convincimento e l’abbiamo pur ora comprovato col fatto:
ma bisogna non rendere troppo più aspro all’uomo il già aspro suo dovere, né
dimenticare che al dovere giova la compagnia che gli recano l’entusiasmo, gli
spontanei affetti, l’esser libero dai pungenti ricordi di torti ricevuti, la
fiducia scambievole, che presta impeto ed ali.
Noi italiani, che non possiamo accettare questo
documento, perché contrario
alla verità, e direi alla nostra più alta coscienza, non possiamo sotto questo
secondo aspetto dei rapporti fra i Popoli, accettarlo, né come italiani curanti
dell’onore della loro Patria, né come europei: due sentimenti che confluiscono
in uno, perché l’Italia è tra i popoli che più hanno contribuito a formare la
civiltà europea, e per oltre un secolo ha lottato per la libertà e
l’indipendenza sua, e, ottenutala, si era per molti decenni adoperata a serbare
con le sue alleanze e intese difensive la pace in Europa. E cosa affatto
estranea alla costante sua tradizione è stata la parentesi fascistica, che ebbe
origine dalla guerra del 1914, non da lei voluta ma da competizioni di altre
potenze; la quale, tuttoché essa ne uscisse vittoriosa, nel collasso che seguì
dappertutto, la sconvolse a segno da aprire la strada in lei alla imitazione
dei nazionalismi e totalitarismi altrui. Libri stranieri hanno testé
favoleggiato la sua storia nei secoli come una incessante aspirazione
all’imperialismo, laddove l’Italia una sola volta fu imperiale, e non
propriamente essa, ma l’antica Roma, che peraltro valse a creare la comunità
che si chiamò poi l’Europa e, tramontata quell’egemonia, per la sua posizione
geografica divenne campo di continue invasioni e usurpazioni dei vicini popoli
e stati. Quei libri, dunque, non sono storia, ma deplorevole pubblicistica di
guerra, vere e proprie falsificazioni. Nel 1900 un ben più sereno scrittore
inglese, Bolton King, che con grande dottrina narrò la storia della nostra
unità, nel ritrarre l’opera politica dei governi italiani nel tempo seguito
all’unità, riconosceva nella conclusione del suo libro che, al confronto degli
altri popoli d’Europa, l’Italia “possedeva un ideale umano e conduceva una
politica estera comparativamente generosa”.
Ma se noi non approveremo questo
documento, che cosa accadrà? In quali strette ci cacceremo? Ecco il dubbio e la
perplessità che può travagliare alcuno o parecchi di voi, i quali, nel giudizio
di sopra esposto e ragionato del cosiddetto Trattato, so che siete tutti e del
tutto concordi con me ed unanimi, ma pur considerate l’opportunità contingente
di una formalistica ratifica.
Ora non dirò ciò che voi ben
conoscete; che vi sono questioni che si sottraggono alla spicciola opportunità
e appartengono a quella inopportunità opportuna o a quella opportunità
superiore che non è del contingente ma del necessario; e necessaria e
sovrastante a tutto è la tutela della dignità nazionale, retaggio affidatoci
dai nostri padri, da difendere in ogni rischio e con ogni sacrificio. Ma qui
posso stornare per un istante il pensiero da questa alta sfera che mi sta
sempre presente e, scendendo anch’io nel campo del contingente, alla domanda su
quel che sarà per accadere, risponderei, dopo avervi ben meditato, che non
accadrà niente, perché in questo
documento è scritto che i suoi dettami saranno messi in esecuzione anche
senza l’approvazione dell’Italia: dichiarazione in cui,
sotto lo stile di Brenno, affiora la consapevolezza della verità che l’Italia
ha buona ragione di non approvarlo. Potrebbero bensì, quei dettami, venire
peggiorati per spirito di vendetta, ma non credo che si vorrà dare al mondo di
oggi, che proprio non ne ha bisogno, anche questo spettacolo di nuova
cattiveria, e, del resto, peggiorarli mi par difficile, perché non si riesce a
immaginarli peggiori e più duri.
Il governo italiano certamente
non si opporrà alla esecuzione del dettato; se sarà necessario, coi suoi
decreti o con qualche suo singolo provvedimento legislativo, la seconderà docilmente,
il che non importa approvazione, considerato che anche i condannati a morte
sogliono secondare docilmente nei suoi gesti il carnefice che li mette a morte.
Ma approvazione, no! Non si può
costringere il popolo italiano a dichiarare che è bella una cosa che esso sente
come brucia, e questo con l’intento di umiliarlo e di togliergli il rispetto di
sé stesso, che è indispensabile ad un popolo come a un individuo, e che solo lo
preserva dall’abiezione e dalla corruttela.
Del resto, se prima eravamo soli
nel giudizio dato di sopra del trattamento usato all’Italia, ora spiritualmente
non siamo più soli: quel giudizio si avvia a diventare un’opinio
communis e ci viene incontro da molti altri popoli e perfino da
quelli vincitori, e da minoranze dei loro parlamenti che, se ritegni molteplici
non facessero per ora impedimento, diventerebbero maggioranze, E fin da ora ci
si esorta a ratificare sollecitamente il Trattato per entrare negli areopaghi
internazionali, da cui siamo esclusi e nei quali saremmo accolti a festa, se
anche come scolaretti pentiti, e ci si fa lampeggiare l’incoraggiante visione
che le clausole di esso più gravi e più oppressive non saranno eseguite e tutto
sarà sottoposto a revisione.
Noi non dobbiamo cullarci nelle
facili speranze e nelle pericolose illusioni e nelle promesse più volte trovate
fittizie, ma contare anzitutto e soprattutto su noi stessi; e tuttavia possiamo
confidare che molti comprenderanno la necessità del nostro rifiuto
dell’approvazione, e l’interpreteranno per quello che esso è: non un’ostilità
contro il riassetto pacifico dell’Europa, ma, per contrario un ammonimento e un
contributo a cercare questo assetto nei modi in cui soltanto può ottenersi; non
una manifestazione di rancore e di odio, ma una volontà di liberare noi stessi
dal tormento del rancore e dalle tentazioni dell’odio.
Signori deputati, l’atto che oggi
siamo chiamati a compiere, non è una deliberazione su qualche oggetto
secondario e particolare, dove l’errore può essere sempre riparato e
compensato; ma ha carattere solenne, e perciò non bisogna guardarlo unicamente
nella difficoltà e nella opportunità del momento, ma portarvi sopra
quell’occhio storico che abbraccia la grande distesa del passato e si volge
riverente e trepido all’avvenire. E non vi dirò che coloro che questi tempi
chiameranno antichi, le generazioni future dell’Italia che non muore, i nipoti e pronipoti ci terranno responsabili e
rimprovereranno la generazione nostra di aver lasciato vituperare e avvilire e
inginocchiare la nostra comune Madre a ricevere rimessaménte un
iniquo castigo; non vi dirò questo, perché so che la rinunzia alla propria fama
è in certi casi estremi richiesta all’uomo che vuole il bene o vuole evitare il
peggio; ma vi dirò quel che è più grave, che le future generazioni potranno
sentire in se stesse la durevole diminuzione che l’avvilimento, da noi
consentito, ha prodotto nella tempra italiana, fiaccandola. Questo pensiero mi
atterrisce, e non debbo tacervelo nel chiudere il mio discorso angoscioso.
Lamentele, rinfacci, proteste, che prorompono dai petti di tutti, qui non sono
sufficienti.
Occorre un atto di volontà, un esplicito ‹‹no››.
Ricordare che, dopo che la nostra
flotta, ubbidendo all’ordine del re ed al dovere di servire la Patria, si fu
portata a raggiungere la flotta degli alleati e a combattere al loro fianco, in
qualche loro giornale si lesse che tal cosa le loro flotte non avrebbero mai
fatto. Noi siamo stati vinti, ma noi siamo pari, nel sentire e nel volere, a
qualsiasi più intransigente popolo della terra”.
Di Katia Migliore per
ComeDonChisciotte.org
20.10.2023
NOTE
[1] https://www.adriaports.com/it/shipping/in-arrivo-a-trieste-la-portaerei-piu-grande-del-mondo/#:~:text=TRIESTE%20%E2%80%93%20%C3%88%20in%20arrivo%20nel,rimarr%C3%A0%20fino%20al%20gioved%C3%AC%20seguente.
[2] https://www.prismamagazine.it/2023/05/10/il-doppio-stato-che-ha-insanguinato-litalia/#:~:text=Che%20cosa%20dice%3F,Trattato)%20aiutarono%20la%20causa%20alleata.
[3] https://www.jstor.org/stable/26040079?typeAccessWorkflow=login
[4] https://legislature.camera.it/_dati/costituente/lavori/Assemblea/sed200/sed200nc.pdf
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