Angela Davis è stata una delle
protagoniste della plenaria di Socialism 2023 a Chicago. Qui ha fissato alcuni
concetti-chiave per immaginare un'altra società
Dal primo al 4 settembre Chicago ha ospitato Socialism 2023, un
evento che ogni anno «riunisce centinaia di socialisti e attivisti radicali»
per partecipare a conferenze di carattere politico-storico-sociale, a workshop
sulle strategie di lotta e organizzative da mettere in atto praticamente e a
importanti momenti di condivisione di esperienze di attivismo fatte sul campo
da vari movimenti. Tantissimi sono stati i temi trattati, dal marxismo alla
storia della working class e delle battaglie socialiste, dalla lotta contro il
razzismo a quella per la libertà di genere, dall’intelligenza artificiale alla
poetica socialista, dalla distruzione del pianeta ai modi in cui operativamente
cercare di fermarla.
Vista la centralità ricoperta da temi quali abolizionismo, carcere e
polizia, l’onore della prima plenaria di Socialism 2023 è
toccato a quattro note attiviste, tra cui Angela Davis, che negli anni
cruciali della pandemia hanno scritto insieme il testo Abolition.
Feminism. Now. pubblicato nel 2022 negli
Stati uniti e nel marzo di quest’anno uscito in italiano per Alegre. Frutto di infiniti
confronti e discussioni tra le autrici – oltre ad Angela Davis le docenti
universitarie Gina Dent, Beth Richie e Erica Meiners – che considerano abolition e feminism imprescindibili
l’uno dall’altro, il libro è stato nella Conferenza considerato come
imprescindibile per il legame che il femminismo abolizionista ha
proprio con il socialismo.
Il termine abolition, derivato dalla lotta contro lo schiavismo
afroamericano, ha assunto oggi il significato più ampio di ricerca di una
giustizia trasformativa che nel breve e medio periodo offra alternative
all’attuale sistema penale basato su carcere e polizia, arrivando nel lungo
periodo a sostituirlo. Altre espressioni spesso citate dalle autrici sono «Prison
Industrial Complex» e «Carceral feminism». Così come la
definizione Military Industrial Complex, coniata da un inascoltato
Dwight Eisenhower nel 1945 per mettere in guardia dalla creazione di
quell’enorme industria della guerra che genera strabilianti profitti privati,
anche Prison Industrial Complex fa riferimento all’enorme giro
d’affari che ruota intorno alle prigioni, moltissime delle quali negli Usa sono
private, in cui i carcerati – come magistralmente raccontato nel 2016 da Ava
DuVernay nel documentario Thirteenth (Tredicesimo
Emendamento) – sono gli strumenti dei quali corporation di tutti i
tipi si servono per i propri scopi di lucro, tifando ovviamente per il
mantenimento e l’incremento dell’ormai pluri-decennale fenomeno americano
dell’incarcerazione di massa.
Con «Carceral feminism» si intende invece quella teoria, divenuta pratica,
secondo cui l’unico modo per eliminare o ridurre i femminicidi e le violenze
sulle donne sia l’inasprimento e il prolungamento delle pene carcerarie dei
colpevoli. Si tratta, ha spiegato Angela Davis nella conferenza, di un
approccio capace di «sconfiggere l’obiettivo stesso per cui è nato, ossia
quello di liberare le donne», sia perché all’aumento delle spese per polizia e
prigioni si provvede spesso togliendo fondi a programmi sociali come case e
ripari sicuri per le donne sopravvissute a violenze domestiche, sia perché
aumentando la repressione di una società già di per sé repressiva, l’effetto è
quello di rinforzare le pratiche di violenza e la reiterazione dei crimini. Per
questo Angela Davis ha aperto Socialism 2023 spiegando l’impossibilità di
slegare il «femminismo abolizionista» dal socialismo.
Non riesco a immaginare un femminismo che non sia anche anticapitalista. E
non riesco a immaginare un abolizionismo che si basi sul fuorviante presupposto
che sia possibile abolire prigioni, polizia, servizi protettivi per famiglie e
tutti gli altri aspetti del sistema carcerario in un regime capitalista che non
riconosca le connessioni tra quelle istituzioni e il capitalismo. Per
conseguire appieno i suoi scopi l’abolizionismo deve abbracciare il socialismo,
poiché quel che è in discussione non è tanto il processo per liberarci di
quelle istituzioni repressive, quanto il tipo di società che dobbiamo creare
per non dover contare su questo tipo di istituzioni per la sicurezza e la
protezione. Possiamo avere sicurezza e protezione solo se c’è un’abitazione per
tutte e tutti, la sanità pubblica, l’istruzione gratuita… Non può
esistere un femminismo davvero incisivo che non sia anche abolizionista e non
possiamo avere un abolizionismo del tipo che intendiamo senza abolire anche il
patriarcato. Così come non può esserci un femminismo abolizionista senza la
visione di una società completamente trasformata, la visione di una società
socialista.
Angela Davis e Gina Dent da più di trent’anni collaborano e viaggiano in
giro per il mondo visitando le prigioni di ogni Stato abbia consentito loro di
farlo (in Francia per esempio si sono viste negare il permesso), e hanno
ricordato come questo lavoro collettivo, al quale sono state invitate a
partecipare da Beth Richie e Erica Meiners, abbia dato loro modo di esprimere
una definitiva connessione tra abolizionismo e femminismo. Pur percependone
l’interdipendenza sin dalla seconda metà degli anni Novanta – già alla prima
conferenza di Critical Resistance del 1998,
intitolata Beyond Prison Industrial Complex, il femminismo era
parte integrante delle strategie analitiche e organizzative – c’erano tuttavia
elementi mancanti che ne impedivano la definizione attuale a causa di forti
tensioni tra i diversi movimenti femministi. Sebbene il problema del «femminismo
mainstream» sia più forte che mai, il femminismo abolizionista «non solo sta per
diffondersi – ha detto Angela Davis – ma è ormai in piena circolazione. Mai mi
sarei immaginata cinquant’anni fa che l’attivismo avrebbe potuto fare così
tanti progressi in questo senso».
Alla base del femminismo abolizionista c’è dunque la necessità di minare
l’intero sistema poliziesco e carcerario creando un movimento sempre più vasto
e in continua evoluzione di «feminist agitators and freedom fighters»,
un movimento che consideri «la violenza di genere – come ha ribadito Beth
Richie – il diretto risultato delle ineguaglianze sociali, politiche, di genere
e razziali del potere. Se non consideriamo le cause della violenza di genere e
come questa sia resa possibile da un certo tipo di società, allora saremo in
grado solo di far fronte di volta in volta a singoli episodi individuali». Non
che l’attenzione ai singoli casi e molte metodologie di intervento, come ad
esempio abitazioni e organizzazioni a supporto delle vittime, non siano messe
in pratica con tutti i mezzi disponibili da varie associazioni e gruppi,
tuttavia quel che sottolineano è che la sicurezza e la protezione delle
sopravviventi, in particolare donne e persone non binarie in grande
maggioranza nere e brown, non dovrebbero essere affidate allo Stato perché lo
Stato risponde con una violenza pari a quella da cui le vittime tentano di
fuggire: «attraverso prigioni e polizia è uno dei più accaniti perpetratori di
violenza di genere. Decenni di dati mostrano che [quelle istituzioni] non pongono
fine alla violenza di genere né ne sono un deterrente. Esiste una lunga storia
di comunità, specialmente di donne di comunità di colore, che rigetta queste
risposte carcerarie dello Stato alle violenze sessuali e di genere».
Non è un caso che le denunce di violenze di genere siano così basse: c’è un
timore, anch’esso basato su dati di fatto, che le vittime nutrono nei confronti
delle istituzioni non solo per l’umiliazione cui spesso sono sottoposte, ma per
i soprusi – stupri compresi – che ricevono da coloro che dovrebbero invece
offrire loro riparo e protezione.
Una parte importante delle discussioni e del lavoro durante la conferenza
ha riguardato l’internazionalismo del femminismo abolizionista: il tema delle
relazioni del femminismo abolizionista con il capitalismo globale e quello
delle lotte in atto in altre parti del mondo ha sollevato riflessioni sia
sull’abitudine americana a considerarsi sempre al centro del mondo, sia
sull’esportazione del sistema carcerario targato Us.
«Abbiamo cercato – ha detto Dent – di combattere il centralismo americano»
molto spesso considerato come fulcro del problema tanto per «la storia dei neri
negli Stati uniti» nella definizione del termine «abolizionismo», quanto per
«l’incarcerazione di massa, costantemente tirata in causa nella maggior parte
dei dibattiti mentre il problema è la sua completa abolizione […]
Dobbiamo cercare di dismettere l’abitudine di considerare questo un problema se
non esclusivo degli Usa, focalizzato comunque negli Stati uniti, partendo dall’assunto
che se risolviamo il problema qui lo possiamo risolvere anche a livello
internazionale. Non possiamo cancellare la dipendenza dal Prison
Industrial Complex senza pensare al capitalismo razziale e non
possiamo capire il fenomeno senza pensare al modo in cui gli Usa sono stati
leader nel modellare il sistema di incarcerazione nel mondo».
Davis e Dent, che hanno visitato in particolare le carceri di Sud Africa e
America Latina, ricordano ad esempio una piccola prigione in Argentina, «Stato
nazionale a maggioranza bianca», al cui interno «persone nere e indigene
vivevano in condizioni terrificanti. Contemporaneamente c’era un meeting di
rappresentanti di Stato di varie nazioni. Era molto tempo fa ma era molto
chiara l’esistenza di scambi di informazioni riguardanti polizia e
incarcerazione, che è qualcosa con cui il movimento deve assolutamente
confrontarsi», anche perché «tanto l’America Latina quanto il Sud Africa stanno
copiando sempre più il modello di incarcerazione statunitense». Il Brasile per esempio
lo sta applicando per risolvere il problema di «persone non più in grado di
mantenersi. Così invece di creare lavoro e un sistema scolastico più
accessibile, stanno pensando a cosa fare di gente che il capitalismo globale
butta fuori dal ciclo della vita». Altro riferimento è stato la Turchia dove,
nei giorni del 1998 in cui Angela Davis e Gina Dent si trovavano al già citato
primo convegno di Critical Resistance, era in atto uno sciopero del popolo
turco contro il modello di prigione entrato in vigore a replica di quello
statunitense. Potremmo noi aggiungere anche un attualissimo riferimento
sull’esportazione di metodi e idee di incarcerazione in atto in Italia, vista
la recente approvazione del Governo Meloni del cosiddetto «Decreto Caivano».
La discussione si è infine chiusa con queste parole di Angela Davis, senza
dubbio in grado di restituire il ruolo centrale dello stesso internazionalismo
per poter immaginare un altro tipo di società:
In questo paese non sappiamo come fare internazionalismo. Siamo stati
allenati persino contro i nostri migliori impulsi a immaginare gli Stati uniti
come il centro del mondo. Credo che una delle nostre sfide più grandi sia
quella di creare nel nostro paese una cultura socialista generativa. Se ora
come ora non possiamo avere il socialismo, possiamo perlomeno creare quel tipo
di cultura che cominci a richiedere una società completamente trasformata in
senso socialista e non possiamo farlo senza enfatizzare un certo tipo di
internazionalismo.
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