martedì 24 ottobre 2023

sanità allo sfascio

 

Il Servizio Sanitario Nazionale che non c’è più. I dati del 6° Rapporto GIMBE - G

 

La Fondazione GIMBE ha presentato il 6° Rapporto sul Servizio Sanitario Nazionale (SSN) dal quale si evince come il servizio pubblico sia sempre più compromesso e con esso il diritto costituzionale alla tutela della Salute. Come sottolinea la Fondazione, “siamo davanti al lento e progressivo sgretolamento della più grande opera pubblica mai costruita in Italia”. Siamo di fronte al rischio concreto di perdere, lentamente ma inesorabilmente, un modello di servizio sanitario pubblico, equo e universalistico. Stiamo per compromettere definitivamente una conquista sociale irrinunciabile per l’eguaglianza e la dignità di tutte le persone.   Questi i dati.

Finanziamento pubblico. Il fabbisogno sanitario nazionale (FSN) dal 2010 al 2023 è aumentato complessivamente di € 23,3 miliardi, in media € 1,94 miliardi per anno, ma con trend molti diversi tra il periodo pre-pandemico (2010-2019), pandemico (2020-2022) e post-pandemico (2023), su cui “è opportuno rifare chiarezza –come sottolinea la Fondazione – per documentare che tutti i Governi che si sono succeduti negli ultimi 15 anni hanno tagliato e/o non investito adeguatamente in sanità”. Nel periodo 2010-2019 alla sanità pubblica sono stati sottratti oltre € 37 miliardi di cui: circa € 25 miliardi nel 2010-2015, in conseguenza di “tagli” previsti da varie manovre finalizzate al risanamento della finanza pubblica; oltre € 12 miliardi nel periodo 2015-2019, in conseguenza del “definanziamento” che ha assegnato meno risorse al SSN rispetto ai livelli programmati. In 10 anni il FSN è aumentato complessivamente di € 8,2 miliardi, crescendo in media dello 0,9% annuo, tasso inferiore a quello dell’inflazione media annua (1,15%). Nel periodo 2020-2022 il FSN è aumentato complessivamente di € 11,2 miliardi, crescendo in media del 3,4% annuo. Tuttavia, questo netto rilancio del finanziamento pubblico è stato di fatto assorbito dai costi della pandemia COVID-19, non ha consentito rafforzamenti strutturali del SSN ed è stato insufficiente a tenere in ordine i bilanci delle Regioni. Nel periodo 2023-2026 la Legge di Bilancio 2023 ha incrementato il FSN per gli anni 2023, 2024 e 2025, rispettivamente di € 2.150 milioni, € 2.300 milioni e € 2.600 milioni. Nel 2023 € 1.400 milioni sono stati destinati alla copertura dei maggiori costi energetici. Dal punto di vista previsionale, nella Nota di Aggiornamento del DEF 2023, approvata lo scorso 27 settembre, il rapporto spesa sanitaria/PIL precipita dal 6,6% del 2023 al 6,2% nel 2024 e nel 2025, e poi ancora al 6,1% nel 2026. In termini assoluti, nel triennio 2024-2026 si stima un incremento della spesa sanitaria di soli € 4.238 milioni (+1,1%). Da rilevare che nel 2022 e nel 2023 l’aumento percentuale del FSN è stato inferiore a quello dell’inflazione: nel 2022 l’incremento del FSN è stato del 2,9% a fronte di una inflazione dell’8,1%, mentre nel 2023 l’inflazione al 30 settembre acquisita dall’ISTAT è del 5,7% a fronte di un aumento del FSN del 2,8%.

Spesa sanitariaLa spesa sanitaria totale (sistema ISTAT-SHA) per il 2022 è pari a € 171.867 milioni di cui € 130.364 milioni di spesa pubblica (75,9%), € 36.835 milioni di spesa out-of-pocket (21,4%), ovvero a carico delle famiglie e € 4.668 milioni di spesa intermediata da fondi sanitari e assicurazioni (2,7%). La spesa sanitaria pubblica del nostro Paese nel 2022 si attesta al 6,8% del PIL, sotto di 0,3 punti percentuali sia rispetto alla media OCSE (7,1%) che alla media europea (7,1%). Il gap con la media dei paesi europei dell’area OCSE è di $ 873 pro-capite ($ 873, pari a € 829) che, tenendo conto di una popolazione residente ISTAT al 1° gennaio 2023 di oltre 58,8 milioni di abitanti, per l’anno 2022 corrisponde ad un gap di quasi $ 51,4 miliardi, pari a € 48,8 miliardi. Il progressivo aumento del gap della spesa sanitaria con la media dei paesi europei è perfettamente in linea con l’entità del definanziamento pubblico relativo al decennio 2010-2019, ma poi si è sorprendentemente ampliato nel triennio 2020-2022 durante l’emergenza pandemica. Complessivamente, rispetto alla media dei paesi europei, nel periodo 2010-2022 la spesa sanitaria pubblica italiana è stata inferiore di $ 363 miliardi (pari a € 345 miliardi). E, per colmare il divario pro-capite con la media dei paesi europei attestato nel 2022 ($ 873, pari a € 829), al 2030 si stima un incremento totale di $ 122 miliardi (pari a € 115,9 miliardi), ovvero a partire dal 2023 un finanziamento costante di $ 15,25 miliardi, pari a € 14,49 miliardi per anno.

Livelli Essenziali di Assistenza. L’obiettivo dichiarato di “continuo aggiornamento dei LEA, con proposta di esclusione di prestazioni, servizi o attività divenuti obsoleti e di inclusione di prestazioni innovative ed efficaci, al fine di mantenere allineati i LEA all’evoluzione delle conoscenze scientifiche” non è mai stato raggiunto. Il ritardo di oltre 6 anni e mezzo nell’approvazione del Decreto Tariffe ha reso impossibile sia ratificare i 29 aggiornamenti proposti dalla Commissione LEA, sia l’esigibilità delle prestazioni di specialistica ambulatoriale e di protesica inserite nei “nuovi LEA”. Nonostante la pubblicazione del DM Tariffe il 4 agosto 2023, i LEA rimarranno ancora in stand-by sino al 1° gennaio 2024 per la specialistica ambulatoriale e al 1° aprile 2024 per l’assistenza protesica. Tutte le analisi confermano una vera e propria “frattura strutturale” tra Nord e Sud: negli adempimenti cumulativi 2010-2019 nessuna Regione meridionale si posiziona tra le prime 10Nel 2020 l’unica Regione del sud tra le 11 adempienti è la Puglianel 2021 delle 14 adempienti solo 3 sono del Sud: Abruzzo, Puglia e BasilicataSia nel 2020 che nel 2021 le Regioni meridionali sono ultime tra quelle adempienti. Il focus sulla mobilità sanitaria documenta che i flussi economici scorrono prevalentemente da Sud a Nord: in particolare nel 2020, Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto “cubano” complessivamente il 94,1% del saldo di mobilità attiva.

Regionalismo differenziatoLa “frattura strutturale” tra Nord e Sud compromette l’equità di accesso ai servizi sanitari e gli esiti di salute e alimenta un imponente flusso di mobilità sanitaria dalle Regioni meridionali a quelle settentrionali. Di conseguenza, l’attuazione di maggiori autonomie in sanità, richieste proprio dalle Regioni con le migliori performance sanitarie e maggior capacità di attrazione, non potrà che amplificare le diseguaglianze registrate già con la semplice competenza concorrente in tema di tutela della salute.

Personale dipendente. I dati relativi al 2021 verosimilmente sottostimano la carenza di personale, in conseguenza di licenziamenti volontari e pensionamenti anticipati negli anni 2022-2023. Ancora, le differenze regionali sono molto rilevanti, in particolare per il personale infermieristico, maggiormente sacrificato nelle Regioni in Piano di rientro. Infine, i benchmark internazionali relativi a medici e infermieri collocano il nostro Paese poco sopra la media OCSE per i medici e molto al di sotto per il personale infermieristico, restituendo di conseguenza un rapporto infermieri/medici tra i più bassi d’Europa.  Nel 2021 sono 124.506 i medici che lavorano nelle strutture sanitarie: 102.491 dipendenti del SSN e 22.015 dipendenti delle strutture equiparate al SSN. La media nazionale è di 2,11 medici per 1.000 abitanti, con un range che varia dagli 1,84 di Campania e Veneto a 2,56 della Toscana con un gap del 39,1%. L’Italia si colloca sopra la media OCSE (4,1 vs 3,7 medici per 1.000 abitanti), ma con un gap un rilevante tra i medici attivi e quelli in quota al SSN.  Sono 298.597 invece gli infermieri che lavorano nelle strutture sanitarie: 264.768 dipendenti del SSN e 33.829 dipendenti delle strutture equiparate al SSN. La media nazionale è di 5,06 per 1.000 abitanti, con un range che varia dai 3,59 della Campania ai 6,72 del Friuli Venezia Giulia con un gap dell’87,2%. L’Italia si colloca ben al di sotto della media OCSE (6,2 vs 9,9 per 1.000 abitanti). Nel 2021 il rapporto nazionale infermieri/medici tra il personale dipendente è di 2,4, con un range che varia dagli 1,83 della Sicilia ai 3,3 della Provincia autonoma di Bolzano, con un gap dell’80,3%. Fatta eccezione per il Molise, le Regioni in Piano di rientro si trovano tutte sotto la media nazionale, dimostrando che le restrizioni di personale hanno colpito più il personale infermieristico che quello medico. L’Italia si colloca molto al di sotto della media OCSE (1,5 vs 2,7) per rapporto infermieri/medici, in Europa davanti solo a Spagna (1,4) e Lettonia (1,2).

Anche al fine di orientare le decisioni politiche nella nuova Legislatura, il Rapporto contiene anche un piano di rilancio del Servizio Sanitario Nazionale che propone coraggiose riforme e azioni indispensabili a garantire il diritto costituzionale alla tutela della salute a tutte le persone. Un diritto fondamentale che, silenziosamente, si sta trasformando in un privilegio per pochi, lasciando indietro le persone più fragili e svantaggiate.

Qui per scaricare il Rapporto: https://www.salviamo-ssn.it/var/contenuti/6_Rapporto_GIMBE_SSN.pdf

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Pochi medici, turni pesanti e ricoveri impossibili: l’inferno dei pronto soccorso - Michele Bocci

I reparti di emergenza vivono la crisi più dura della sanità italiana. E intanto gli specializzandi scappano

 

La crisi è nerissima e va avanti ormai da anni. I pronto soccorso italiani sono in affanno e via via che il numero dei medici scende, come un cane che si morde la coda, sempre meno professionisti vogliono lavorare nell’emergenza. E per chi resta è sempre più dura. Ma sono tanti i fattori che hanno fatto peggiorare le condizioni di questi reparti, che spesso si trovano in difficoltà, come racconta la storia di Tor Vergata a Roma.

Orari pesanti e niente attività privata

Chi lavora al pronto soccorso deve sopportare turni pesanti, con molte notti al mese e anche weekend. In altri reparti i turni sono più agevoli. Poi c’è un problema economico. Lo stipendio è considerato troppo basso anche dallo stesso ministro alla Salute, Orazio Schillaci, che ha promesso aumenti. La paga è la stessa degli altri medici pubblici, ma chi lavora al pronto soccorso, come chi esercita altre specialità, non fa praticamente mai attività privata, che permette a tanti professionisti di arrotondare.

Quei 5mila medici in meno

Secondo Simeu, la società scientifica dell’emergenza, mancano oggi circa 5.000 medici nei pronto soccorso. E la situazione non sembra destinata a sbloccarsi a breve. Basta vedere le scuole di specializzazione. Proprio le condizioni di lavoro difficili spingono i giovani medici verso altre attività. E quest’anno il 70% delle borse di studio in medicina di urgenza sono andate deserte. Nel frattempo ci sono moltissimi medici assunti, circa 600 l’anno scorso, che lasciano. Si spostano magari nel privato, provano ad andare all’estero oppure partecipano ai bandi per i medici di famiglia o professionisti di altri reparti ospedalieri.

Il caso turnisti

Le Regioni sono disponibili a fare di tutto per assumere ma ai concorsi si presentano sempre molti meno professionisti di quelli necessari. Qualcuno punta sui turnisti, cioè paga liberi professionisti anche 100 euro l’ora, cioè 1.200 euro per un turno di notte. Si tratta di una pratica che presto dovrà finire, visto che in un decreto di maggio si è previsto che debba concludersi entro un anno. Ma non sono da escludere proroghe, visto che in alcune Regioni il sistema si regge sui turnisti.

Niente spazio nei reparti

Il lavoro è difficile anche perché il pronto soccorso è diventato un punto di riferimento per i cittadini, pure quelli che hanno problemi lievi,che si potrebbero risolvere altrove e cioè sul territorio. L’iper afflusso, anche di casi banali, rende il lavoro più difficile. Ma il presidente di Simeu Fabio De Iaco sottolinea un’altra criticità, che ha a che fare anche con quello che sta succedendo a Tor Vergata in questi giorni. Si tratta del cosiddetto “boarding”.

Nei reparti di degenza spesso non si trova posto per chi ha bisogno del ricovero e quindi la persona interessata rimane parcheggiata anche molto a lungo nei corridoi o nelle stanze del pronto soccorso. E’ questa la causa forse più importante del sovraffollamento, visto che i pazienti con problemi banali rappresentano un problema soprattutto per se stessi, visto che sono spesso costretti a una lunga attesa prima di essere visitati.

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La sanità allo sfascio e lo sciopero generale: se non ora, quando? - Gianluigi Trianni 

La Cgil – Area Stato Sociale e Diritti ha redatto e diffuso, in occasione della manifestazione nazionale del 7 ottobre scorso, un documento dal titolo “Salute e Sanità – Verso la legge di Bilancio” (https://volerelaluna.it/materiali/2023/10/11/salute-e-sanita-verso-la-legge-di-bilancio/), frutto della convergenza con centinaia di associazioni di scopo (una per tutte, in ambito sanitario, Medicina Democratica). È un documento basato su robuste fonti documentali, con importantissime analisi e proposte, qua e là, a mio parere, “perfettibili”, ma sempre condivisibili per “direzione” politica e sindacale.

Tra le cose “perfettibili”, c’è la questione della entità del finanziamento del Fondo Sanitario NazionaleLa richiesta di «aumentare il finanziamento pubblico, oltre a quanto già previsto, di almeno 5 miliardi l’anno, per i prossimi 10 anni» avanzata nel documento CGIL, pur politicamente significativa e positiva, è insufficiente a coprire le necessità minime per il mantenimento in vita del Servizio Sanitario NazionaleSolo per l’insieme degli incrementi di personale e dei rinnovi contrattuali di tutte le professionalità necessari per dare dignità retributiva e rispetto dei diritti contrattuali – e quindi fermare l’esodo verso il privato e verso l’estero – il fabbisogno è superiore ai 4-5 miliardi (come segnala C. Palermo, Presidente Anaao su Fanpage.it.), e lo è – segnalo – col sistema organizzativo quali-quantitativo del Servizio Sanitario attuale, che eroga direttamente solo attorno al 60% delle prestazioni per acuti e meno del 25% delle prestazioni per lungo-assistenza e riabilitazione (Istat 2022). Non è certo un Servizio Sanitario che garantisca la “copertura universale” (come pure è nella sua mission, per il combinato disposto della Costituzione e della legge n. 833/1978) e che lo faccia secondo i modelli organizzativi più recenti, all’insegna delle tre integrazioni Ospedale-Territorio, Sanità-Sociale, Assistenza-Ricerca (Universitaria e del SSN).

Per gli amanti delle percentuali segnalo che l’incremento dei 134,734 miliardi del 2023 con (insufficienti) 5 miliardi per il 2024, porterebbe la dotazione 2024 a 139,734 miliardi e la spesa sanitaria dal 6,2% al 6,5% del Pil 2024. Con l’aumento invece di 10 miliardi, come alcuni hanno proposto, si arriverebbe a 144,734 miliardi e al 6,7% del Pil. In entrambi casi si sarebbe sotto la soglia del 7% del Fondo Sanitario Nazionale, da molti indicata opportuna sino a pochi anni fa, con la quale si arriverebbe per il 2024 a poco oltre i 150,005 miliardi, con un incremento, di poco oltre i 17 miliardi. Tali incrementi sarebbero comunque inferiori a quello di circa 27 miliardi di euro in più all’anno per raggiungere il livello della spesa media dell’Eurozona (a parità di potere d’acquisto), e agli 80 miliardi necessari per raggiungere la spesa pro-capite della Germania, stimati da Cgil!

Senza adeguati investimenti non ci si può sottrarre allo sfascio del Servizio Sanitario Nazionale a fronte dello sofferenze di milioni di persone (Istat 2023) e al contemporaneo espandersi in Italia del mercato sanitario e socioassistenziale, caratterizzato dallo shopping e dagli investimenti della finanza francese (Korian), della finanza araba (Gruppo San Donato) di quella americana (Cinven) delle banche e delle assicurazioni italiane, di De Benedetti e dei capitali del Bahrain (KOS), di Unipol (S. Agostino), degli Elkan/Agnelli (Exor Lifenet) e di quant’altre espressioni del private equity, senza contare i ricatti di Big Pharma sui farmaci e la privatizzazione multinazionale delle farmacie (cfr. Emilia Romagna), con la bufala del loro essere in collegamento (spoke) con i presidi della medicina territoriale nel contesto della collaborazione pubblico-privato. Non si può lasciare che “i buoi scappino dalla stalla “, e poi piangere sull’impotenza dello Stato italiano ad arginare la pressione sul Pil della spesa sanitaria privatizzata e finanziarizzata (giunta, in Usa, al 18% del Pil: Ocse 2023) e quella sulle istituzioni democratiche della “privatocrazia”.

Di fronte a queste esigenze, lo scorso 3 ottobre a Torino, al “Festival delle Regioni e delle Province autonome”, il ministro Giorgetti è stato autorizzato a procedere con i tagli in bilancio 2024 dalla presidente G. Meloni che è ricorsa, con la consueta irridente retorica, a un argomento sino a qualche tempo fa di moda anche in ambito medico: «Un sistema sanitario efficace è l’obiettivo di tutti, però sarebbe miope concentrare tutta la discussione sull’aumento delle risorse. Bisogna avere un approccio più profondo anche su come vengono spese. Non basta necessariamente spendere di più per risolvere i problemi se poi i fondi vengono usati in modo inefficiente». Se si aggiunge l’ulteriore dichiarazione, anch’essa irridente ed eversiva della realtà del Serzizio Sanitario regionalizzato secondo cui «l’autonomia regionale proseguirà senza stop: è l’occasione per costruire un’Italia più unita», ce n’è a sufficienza per uno sciopero generale: per ottenere ben più di ulteriori 5 miliardi, per idonee politiche fiscali e di bilancio (altroché flat tax, esenzioni dei superprofitti delle banche, delle multinazionali anche sanitarie e della finanza e 2% per la spesa militare) e contro l’autonomia regionale differenziata.

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Sanità, la grande fuga - Michele Bocci

Stipendi bassi, ritmi disumani e poca sicurezza. E ora anche i primari scappano all’estero o nel privato

 

Se ne vanno. Lasciano il servizio pubblico per quello privato, oppure si fanno mettere in reparti meno pesanti, perché non riescono più a reggere i ritmi di lavoro. Magari hanno problemi con i vertici della loro azienda o semplicemente hanno deciso che è arrivato il momento di lavorare meno e guadagnare di più. Così si spostano in una clinica privata. I dati non lasciano dubbi: nel 2021 erano usciti prima del tempo 2.700 camici bianchi, l’anno scorso il numero è salito a ben 4.000 e quest’anno si viaggia verso i 5.000. Un numero che ormai fa concorrenza ai pensionamenti.

Chi ha detto addio

Solo nelle ultime settimane in Veneto tre primari di radiologia hanno detto basta, così come ha fatto un loro collega che dirigeva una ginecologia. All’ospedale di Merate, in Lombardia, ha lasciato, seguendo altri colleghi che hanno fatto la stessa scelta, il direttore dell’ortopedia, a Voghera un altro radiologo. Poi ci sono state le dimissioni del capo del pronto soccorso del Rummo di Benevento, e di quello di Agrigento, quest’estate. Sono solo alcuni esempi, che tra l’altro riguardano figure di vertice, di una grave crisi della professione che riguarda anche medici di famiglia, pediatri e altri specialisti. Un esodo a cui si aggiunge il flop dei bandi per le scuole di specializzazione, con almeno 6 mila borse non assegnate, e quindi andate perdute, quest’anno.

 

Le ragioni di chi scappa

Il dato sulla fuga degli ospedalieri lo ha raccolto, incrociando i numeri del Conto annuale dello Stato e di Onaosi (l’ente previdenziale e assistenziale dei camici bianchi) l’Anaao, principale sindacato di settore. Dei 4 mila che se ne sono andati nel 2022, prima del pensionamento, non è chiaro quanti abbiano scelto l’estero e quanti si siano spostati nel privato. «I problemi sono tre: stipendi bassi, mancanza di sicurezza dovuta al rischio di contenzioso e pure alle violenze di qualche paziente o suo parente, mancanza di tempo o condizioni di lavoro disumane».

C’è una novità, fa notare il sindacalista, e potrebbe essere un duro colpo per la manovra del 2024. «Il governo promette più soldi in busta paga ma siamo di fronte a colleghi che probabilmente lascerebbero comunque: hanno raggiunto il punto di non ritorno, perché è stato tolto loro il tempo vita». Tra i reparti più in crisi ci sono, com’è noto, i pronto soccorso. In tanti li hanno lasciati in questi anni. Ma ci sono anche casi di dottori che si mettono a fare i freelance e tornano a occuparsi di emergenza, magari a gettone.

La programmazione fallita

Perché siamo arrivati a questa situazione? Il peccato originale sono stati gli errori di programmazione degli anni scorsi. In passato si sono formati troppi pochi medici per fronteggiare l’onda dei pensionamenti. In questo modo gli organici si sono ridotti e in certi reparti il lavoro è diventato pesantissimo, cosa che, in un circolo vizioso devastante per il nostro sistema sanitario, ha spinto molti ad andarsene ben prima della conclusione della carriera pubblica.

Nel 2020, rispetto a 4.500 borse utilizzate, sono andati via in 5.000. Ma anche negli anni, come il 2024, nei quali gli specializzandi sono di più dei pensionabili, ci sono comunque problemi. Il fatto è che non tutti coloro che finiscono il percorso di specializzazione poi lavorano nel pubblico. Anzi, tanti vanno a lavorare nel privato oppure all’estero. E poi alle uscite bisogna aggiungere anche i 4 mila e più che, come abbiamo visto, lasciano prima della pensione.

I medici ospedalieri sono circa 102 mila in Italia e secondo Anaao oggi ne mancano 15 mila. Ci vorrà ancora tempo prima di recuperare. Le cose dovrebbero migliorare nel 2026-2027, quando sarà passata la gobba pensionistica e entreranno più specializzandi, quelli che hanno cominciato a studiare nel 2021-2022 quando è cominciato l’aumento delle borse. Per questo i sindacati si oppongono all’eliminazione del numero chiuso di medicina, stimando che nel 2030 la tendenza sarà ormai invertita e ci saranno tanti camici bianchi specializzati.

Ma il grande problema non è tanto il numero totale di professionisti bensì lo scarso interesse che c’è da parte dei giovani per alcune specialità come il pronto soccorso, l’anestesia e la chirurgia. Far entrare più persone all’università darebbe una mano a riempire i vuoti nei settori più in crisi.

 

La crisi dei medici di famiglia

Per i medici di famiglia, e anche per i pediatri di libera scelta, il futuro è difficile e a farne le spese saranno i cittadini. Nel loro caso i posti del corso triennale regionale necessario a esercitare la professione non compensano le uscite per i pensionamenti. Va un po’ meglio nell’ultimo periodo, grazie ai fondi del Pnrr. «In sei anni abbiamo perso 6 mila medici, oggi siamo 39 mila in tutto», spiegano dalla Fimmg, il principale sindacato della categoria che prevede un futuro nero per la categoria.

Già adesso le Regioni convenzionano i giovani dottori prima che concludano il tirocinio. In più è stata data la possibilità di aumentare il numero degli assistiti, da un massimo di 1.500 a 1.800, per non lasciare persone senza il medico. Ovviamente, con tanti pazienti, magari in zone isolate, riuscire a essere disponibili per tutti è difficilissimo. Cosa che ancora una volta si riflette negativamente sui pazienti.


Il chirurgo di Agrigento: “Lascio il pubblico col cuore a pezzi ma ora nel privato tornerò a vivere”

Giovanni Palmisciano fino al primo novembre rimarrà alla guida dell’ortopedia dell’ospedale San Giovanni di Dio di Agrigento. Poi passerà al privato.

Da quanto tempo lavorava nel pubblico?

«Da sempre. Prima lavoravo nel Palermitano, da 18 anni sono dirigente medico al San Giovanni, direttore facente funzioni da 3 anni».

Perché lascia?

«La mia decisione è stata particolarmente sofferta, mai avrei immaginato di arrivare a questo punto. Il sovraccarico di lavoro, i turni massacranti, ben oltre le direttive del contratto collettivo, le carenze di organico, un numero di ore di reperibilità di gran lunga superiore a quelle previste, sono state le cause che mi hanno spinto a rassegnare a malincuore le dimissioni. Il benessere psicofisico, la serenità e la lucidità sono condizioni imprescindibili per esercitare la professione del chirurgo. Quando vengono meno è impossibile mantenere standard elevati».

Come mai tantissimi camici bianchi lasciano il pubblico?

«In linea di massima, ritengo che le ragioni siano pressoché uguali nei vari ambiti della sanità pubblica. È evidente come sia quanto mai urgente una riforma dell’intero sistema sanitario nazionale».

Di cosa si occuperà da ora in avanti?

«Continuerò a fare quello che ho sempre fatto e che amo fare, ma con ritmi più umani, in una clinica privata».

Come si fa a rendere di nuovo attrattiva la professione del medico?

«Il primo passo è sbloccare il numero chiuso a Medicina. Tutte queste restrizioni danneggiano il sistema sul breve e sul lungo periodo, il risultato è che poi siamo costretti a reclutare medici dall’estero, quando tanti giovani italiani vorrebbero lavorare nel loro Paese».

Il suo è un addio o un giorno potrebbe tornare a lavorare per la sanità pubblica?

«Adesso non sono proprio in grado di dirlo. Sicuramente lascio nel reparto un pezzo del mio cuore e sono grato a tutti quelli che hanno lavorato con me in questi ultimi 18 anni. Senza di loro non avrei mai raggiunto certi risultati. Per ora viviamo il presente».


Il medico di famiglia di Napoli: “Non prendo in giro i miei pazienti: la burocrazia uccide, vado in pensione” - Giuseppe Del Bello

Stanco e deluso, Angelo Costantino si è sfilato il camice a 63 anni. Ne ha passati 39 da medico di famiglia a Napoli. «Mio padre era poliziotto, ho studiato molto per fare questa professione. E quando sono arrivato al traguardo, ne fui felice perché credevo di poter aiutare il prossimo, ma adesso basta. Non ce la facevo più».

Ha lasciato molto prima dei 70 anni.

«Avrei potuto esercitare per altri 8 anni, ma la professione era diventata insostenibile. Mi è costato molto. In termini economici, perché ho dovuto sborsare migliaia di euro per riscattare 11 mesi di contributi, e psicologici perché non è facile dire addio a un’attività di sacrifici e passione. Ma mi stava uccidendo».

Parola grossa, la professione la stava uccidendo?

«Avevo perso anche il sonno. La burocrazia ha irrimediabilmente minato la deontologia. Bisogna rispettare l’etica della professione verso gli assistiti, e questo non era più possibile».

Si spieghi.

«Le faccio un esempio. Tra i miei pazienti avevo una donna di 50 anni affetta da tumore alla mammella in fase iniziale. Doveva fare una Pet, esame costoso ma indispensabile per individuare precocemente eventuali lesioni. Ebbene, oggi un medico di famiglia non può prescriverla se non in determinate condizioni».

E lei non gliel’ha prescritta?

«Io no, ma per fortunata coincidenza il giorno che la paziente venne in studio c’era il mio sostituto: ignaro delle regole, prescrisse l’esame che si rivelò fondamentale per la sopravvivenza della donna. Cose di questo genere turbano profondamente la coscienza perché la burocrazia si insinua anche nelle banalità quotidiane».

In che modo?

«Mal di denti, mestruazioni dolorose, cefalea, roba per le quali è indicata la Nimesulide, ma è un farmaco che il Ssn per risparmiare concede solo in casi specifici. Ed è duro dire di no, così salta il rapporto di fiducia tra dottore e pazienti».

Lei è ancora giovane, cosa farà adesso?

«Sono anche cardiologo, per ora ho rifiutato varie offerte e ho cancellato la partita Iva. Voglio pensare a me, sono ancora troppo stressato».

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