Questo articolo è stato pubblicato il 29 maggio 2015 nel numero 1104 di Internazionale.
Saúl Armendáriz è cresciuto a ridosso di una delle frontiere più strane del
mondo: El Paso, Texas, e Ciudad Juárez, Messico. È nato a El Paso ma ha sempre
vissuto su entrambi i lati del confine. “Andavo a scuola negli Stati Uniti, ma
il venerdì io e le mie sorelle attraversavamo di corsa il ponte che porta a
Juárez”, racconta. I divertimenti e i parenti erano quasi tutti in Messico. In
cima alla lista dei divertimenti, per Saúl, c’era la lucha libre, la popolare e colorita versione messicana
del wrestling professionistico. Ogni quartiere aveva una piccola arena dove
tutte le domeniche i buoni (técnicos) e i
cattivi (rudos) lottavano mascherati, roteando avvinghiati e
scaraventandosi da una parte all’altra del ring. Saúl adorava i loro costumi
sgargianti. Amava la folla rumorosa e appassionata. Idolatrava i luchadores, personaggi eccessivi e carismatici. Non
aveva una corporatura imponente, ma era un ragazzino agile e atletico e alla
disperata ricerca di un alter ego.
“Essere gay è un dono di dio”, mi ha detto qualche tempo fa. Ma a giudicare
dalla sua infanzia non si direbbe. Armendáriz racconta che da bambino veniva
punito duramente perché gli piaceva giocare a battimani, un gioco da femmine,
con un compagno di scuola che era come lui. I suo genitori – soprattutto suo
padre – si sentivano umiliati dalla sua effeminatezza. “Mio padre era un machista”,
dice. “Non voleva un figlio gay”. Era un camionista che beveva e picchiava la
moglie. I genitori di Saúl divorziarono quando lui aveva tredici anni. Anche
gli altri bambini lo trattavano in modo crudele e violento. “I ragazzi del
quartiere, compresi alcuni parenti, mi usavano come giocattolo sessuale”.
Oggi Armendáriz ha 45 anni. Mi parla di questi orrori mentre stende sulle
palpebre un ombretto verde glitterato, in piedi davanti allo specchio di un
camerino di Los Angeles. Quando ricorda la sua infanzia non sembra né troppo
turbato né troppo distaccato, una via di mezzo. “Non sono una vittima”, ci
tiene a precisare. Poi si lascia sfuggire un sospiro e si mette il rossetto, di
un colore rosso acceso. “Ma sono rimasto molto segnato”. Poi si applica un paio
di ciglia finte. Sta trasformando Saúl nel personaggio che interpreta nella
lucha libre: il favoloso campione mondiale dei pesi welter Cassandro.
Talento e sensibilità
A quindici anni Armendáriz lasciò la scuola e si affidò a un allenatore di
Ciudad Juárez, e due anni dopo fece il suo esordio da professionista con il
nome di Mister Romano. Quel personaggio era ispirato a Rey Misterio, un famoso
lottatore messicano con cui Armendáriz si era allenato all’inizio della sua
carriera. Mister Romano era un rudo, un cattivo, costruito sul modello dei
gladiatori. Portava una maschera e un costume bianco e nero. Il suo dropkick, il calcio volante sferrato all’avversario con
entrambi i piedi, era implacabile. Armendáriz si esibì interpretando quel
personaggio per meno di un anno, vincendo un incontro dopo l’altro nelle arene
lungo tutto il confine. “Fu Baby Sharon a convincermi ad abbandonare Mister
Romano”, racconta. Baby Sharon era un exótico, un
lottatore che combatteva travestito da donna. Gli exóticos esistevano fin dagli
anni quaranta del novecento. All’inizio erano dei dandy. Assumevano pose
sofisticate e teatrali e lanciavano fiori al pubblico. A poco a poco
diventarono sempre più leziosi e ammiccanti, finché non cominciarono a vestirsi
da donna e a somigliare sempre di più a una macchietta del gay effeminato. Il
pubblico, che si divertiva tantissimo a odiarli, gli urlava “Maricón!” e
“Joto!” (finocchio). Gli exóticos facevano da contrasto ai bruti supervirili
contro cui combattevano. I più famosi dicevano che interpretavano quel
personaggio sul ring ma in realtà erano eterosessuali. Secondo Armendáriz, Baby
Sharon fu tra i primi a dichiarare pubblicamente che lui non faceva finta. Era
davvero omosessuale.
Al suo esordio come exótico, Armendáriz non portava una maschera. “Sono
salito sul ring indossando una camicetta a fiori di mia madre e lo strascico
del vestito rosa da debuttante di mia sorella. Poi, per combattere, ho messo un
costume da bagno da donna”. In cartellone era annunciato come Rosa Salvaje, ma l’incontro
si teneva a Juárez, dove tutti lo conoscevano. Fu una serata da incubo.
“Credevo che nessuno sapesse che ero gay, e quindi ero convinto che quello
sarebbe stato il mio coming out. Invece lo sapevano tutti, ero l’unico a non
rendermene conto”. Il pubblico continuava a incitare il suo avversario:
“Ammazzalo, quel finocchio”.
Rosa Salvaje, come Mister Romano, era un lottatore potente e veloce. Niente
mossette o gridolini: solo un balletto celebrativo ogni volta che scaraventava
un avversario fuori dal ring, o un bacio a sorpresa sulla bocca di qualche
maschione inchiodato a terra in una presa di sottomissione. Il pubblico adorava
questo genere di trovate. Ma alcuni lottatori più anziani non volevano battersi
con Rosa. Era il 1989, in piena isteria da aids. La madre di Armendáriz, María,
cominciò ad andare agli incontri. E quando qualcuno, tra il pubblico, gli
rivolgeva insulti omofobici, lei protestava: “Quello è mio figlio!”. Non c’è
niente di meglio in Messico per zittire un provocatore.
Rosa Salvaje combatteva spesso insieme a un altro exótico di talento,
Pimpinela Escarlata. Giravano le arene dello stato di Chihuahua pestando
omaccioni eterosessuali. Erano vittorie legittime? No, almeno a livello
sportivo. C’è una ragione se il Nevada gaming control board, l’agenzia
governativa statunitense che regola il gioco d’azzardo, non ha mai permesso le
scommesse sul wrestling professionistico: i risultati sono stabiliti in
anticipo. Ma lo spettacolo – nella lucha libre come nel wrestling – prevede sempre
una trama e i vincitori devono essere atleti convincenti. Rosa e Pimpi lo erano
senz’altro.
Sul ring sono piovuti pesos, una dimostrazione di apprezzamento da parte
del pubblico. Cassandro è rimasto lì a godersi lo spettacolo
L’evoluzione della trama non è determinata solo dai promoter, gli
organizzatori degli incontri. Quando Armendáriz decise di cambiare il suo nome
di scena, partecipò a una lucha de apuesta (un
incontro associato a una scommessa) contro un exótico che si chiamava Johnny
Vannessa: lo sconfitto avrebbe rinunciato al suo nome. Rosa perse l’incontro, e
da allora Armendáriz ha sempre combattuto come Cassandro. Il nome viene dalla
direttrice di un bordello di Tijuana che Saúl ammirava molto. Cassandra era
famosa per la sua generosità verso i poveri: con i profitti del suo fiorente
commercio aiutava i ragazzi di strada, come aveva sempre fatto, fin da quando
era una giovane prostituta di alto bordo. Il suo strano miscuglio di talento e
sensibilità era sempre stato fonte di ispirazione per Armendáriz. Dopo tutto,
forse era possibile essere un personaggio trasgressivo, sexy e di successo e
allo stesso tempo una brava persona.
Una volta, a Guadalajara, una donna anziana accoltellò Cassandro durante un
incontro, dopo che l’azione si era spostata – come succede spesso nella lucha
libre – nella zona riservata al pubblico. Perché lo fece? Cassandro scrolla le
spalle. “Stavo picchiando uno dei suoi idoli. Mi colpì proprio qui, sotto la
gabbia toracica”. A Juárez un’altra anziana una volta gli rovesciò una scodella
di peperoncini verdi sulla schiena. “Le dissi di calmarsi”, racconta. “Era
fuori di sé. Le dissi che rischiava un infarto, ma lei non si fermò. Avevo la
schiena tutta sudata, e quei peperoncini bruciavano da morire”.
I segni della guerra
Il pubblico più scatenato che io abbia mai visto a un incontro di Cassandro è
stato quello dell’arena Kalaka, a Ciudad Juárez, nel marzo del 2014. Ma è stata
un’esaltazione adorante. La serata era cominciata male. Gli organizzatori
l’avevano annunciata come lucha extrema, la
versione più violenta del wrestling messicano, vietando l’ingresso ai minori di
dodici anni. I lottatori – con più coraggio che tecnica – si erano battuti
usando sedie d’acciaio, tavole chiodate, tubi luminosi fluorescenti di diverse
lunghezze, una chitarra avvolta nel filo spinato e perfino un trapano a
batterie. Alla fine è venuto fuori che il trapano era finto e che i buchi sulla
nuca dei lottatori finiti al tappeto erano solo una messinscena. Ma dopo cinque
o sei incontri c’erano i vetri dei tubi dappertutto, e il sangue che schizzava
dai corpi dei lottatori era vero. Era difficile non vedere nell’euforia del
pubblico una specie di esorcismo di massa, se si pensa a quello che gli
abitanti di Ciudad Juárez hanno dovuto affrontare negli ultimi anni: una
spietata guerra di strada tra i cartelli della droga, che ha provocato più di
novemila morti in quattro anni. Nel 2011 il tasso di omicidi della città, che
era il più alto del mondo, ha cominciato a diminuire. Ma i traumi hanno
lasciato segni profondi, e il quartiere diroccato intorno all’arena Kalaka – un
vecchio magazzino fatiscente – faceva pensare ai resti di un campo di battaglia
abbandonato.
Nella confusione dei primi incontri della serata ero riuscito a stento a
distinguere i buoni dai cattivi. I técnicos dovrebbero rispettare le regole, i
rudos trasgredirle e poi l’arbitro dovrebbe ristabilire l’ordine. Ma i técnicos
avevano attaccato i loro avversari alle spalle sulla rampa di accesso al ring,
mentre gli arbitri sistemavano il filo spinato sul tappeto per massimizzare i
danni negli atterramenti. I circa duecento spettatori sembravano felici.
Ragazzine liceali e vecchietti che avrebbero potuto essere i loro nonni
ripetevano all’unisono “Culero” (stronzo) a un lottatore chiamato Aereo. Con il
volto coperto da una maschera color oro e viola, Aereo aveva forse perso il
favore del pubblico. Quando si fermò a riprendere fiato durante un lungo e duro
pestaggio, qualcuno gli urlò: “Invitalo a cena”. Evidentemente Aereo era troppo
tenero per quel pubblico così poco impressionato dalla violenza della lucha
extrema. Quando è arrivato il momento dell’incontro tra Cassandro e Magno – un
rudo grande e grosso – i presenti hanno tirato un sospiro di sollievo: era
arrivata la vera lucha libre.
In linea di massima il wrestling messicano è più spettacolare e acrobatico
di quello statunitense: dà importanza alle manovre aeree e alla fluidità degli
scambi più che alle dimensioni e alla muscolatura dei lottatori. I puristi si
lamentano perché sostengono che dagli anni novanta, quando è stato rimosso il
divieto di trasmettere gli incontri in tv, il wrestling messicano ha perso un
po’ della sua eleganza tecnica e della sua originalità. Da allora la lucha è
diventata più monotona e scenografica: sembra fatta più per le telecamere che
per il pubblico ai bordi del ring.
Toccare il fondo
Ma questo non è stato certo il caso del match tra Cassandro e Magno all’arena
Kalaka di Ciudad Juárez. Con i loro salti e le loro “catapulte”, sono volati
oltre le corde e in mezzo al pubblico, che prima si è sparpagliato e poi li ha
aiutati a risalire sul ring. Dopo avere sfiorato a più riprese lo schienamento,
Cassandro è riuscito per l’ennesima volta a scrollarsi di dosso il suo
gigantesco avversario poco prima che l’arbitro lo dichiarasse sconfitto. Ora la
folla era in piedi, urlante. Alla fine, con un salto dalla corda più alta,
Cassandro ha sferrato un dropkick al suo avversario, colpendolo al torace.
Entrambi sono ricaduti a terra con un tonfo sordo. Cassandro si è rialzato per
primo, è corso verso il bordo del ring e, aggrappandosi alla corda di mezzo, ha
calciato all’indietro e alla cieca, a gambe tese. Non so come, è riuscito a
colpire Magno che si era appena rialzato al centro del ring e l’ha bloccato in
un wheelbarrow, una presa delle gambe da dietro. Dopo una serie di manovre in
rapida sequenza, Magno si è ritrovato schiena a terra, con le gambe sollevate e
piegate contro una gamba di Cassandro e con tutto il peso dell’avversario sul
petto. Mentre si dibatteva, Magno scuoteva Cassandro come una bambola tra i
denti di un cane. Ma Cassandro non ha mollato la presa. Uno, due, tre:
vittoria.
Sul ring sono piovuti pesos, una tradizionale dimostrazione di
apprezzamento da parte del pubblico. Cassandro è rimasto lì a godersi lo
spettacolo, ansimante, madido di sudore e sorridente, con gli occhi che gli
brillavano. Aveva perso le ciglia finte. Qualcuno gli ha passato un microfono:
“Ésta es lucha libre” (questa è lotta libera), ha dichiarato. Poi ha girato lo
sguardo verso i resti dell’incontro precedente: filo spinato, pezzi di legno,
tubi luminosi piegati e vetri rotti. “Non quelle stronzate”.
Il successo di Cassandro è stato rapido: dopo essersi trasferito a Città
del Messico, entrò subito in una delle grandi federazioni. In quel periodo
Armendáriz ostentava una sicurezza che in realtà non aveva. Nel 1991, poco
prima del suo ventunesimo compleanno, gli fu assegnato un match contro Hijo del
Santo, il lottatore più popolare del Messico. Era impensabile che Cassandro
potesse vincere. Oltre a essere un campione dei pesi welter, Hijo del Santo era
il figlio di un altro lottatore leggendario, El Santo: la maschera d’argento
con cui si esibiva era quella del padre. La reazione dei fan fu di rabbia e
indignazione. “Dicevano che ero solo un piccolo omosessuale. ‘Come puoi pensare
di contendere il titolo a Hijo del Santo?’, chiedevano. Ce li avevo tutti
contro. Una pressione insostenibile”. Una settimana prima dell’incontro
Cassandro aveva provato a uccidersi tagliandosi le vene dei polsi con un rasoio.
Pimpinela Escarlata era arrivato in tempo e gli aveva salvato la vita.
Cassandro mi mostra le ferite. Nonostante tutto, tenne fede all’impegno e si
batté con Hijo del Santo. Perse l’incontro, ma con onore, e continuò a
praticare il wrestling ai massimi livelli. Nel 1992 vinse un campionato dei
pesi leggeri: era il primo exótico a conquistare un titolo mondiale.
Per non perdere la fiducia in se stesso e continuare a combattere,
Cassandro cominciò a fare uso di droghe e alcol. Il mondo della lucha libre attirava
i federales – gli alti funzionari della polizia – e
i loro cugini della malavita, che assicuravano ai lottatori un rifornimento
illimitato di sostanze stupefacenti. Per Cassandro la baldoria durò più di
dieci anni. “Alcol e droga mi aiutavano a fare carriera. Credevo in me stesso.
Ero famoso, guadagnavo un sacco di soldi. Mi sentivo Wonder Woman”. Nel 1997,
nel bel mezzo della baldoria, Armendáriz perse la madre. “Mi drogavo ancora
quando mia madre è morta”, mi dice. “In qualche modo, era lei che alimentava il
mio vizio. Mi amava troppo. L’ho truccata io, all’obitorio. Ero strafatto, quel
giorno. È stato terribile. Ma la cosa peggiore è che se lei non fosse morta
sarei finito in prigione o sarei morto io. Anche se mi sento in colpa e mi
vergogno di dirlo”. Ci vollero anni prima che Armendáriz toccasse il fondo. La
dipendenza da alcol e droga stava danneggiando anche la sua carriera:
combatteva sempre meno e viveva nel giardino di un amico.
La data del ritorno alla sobrietà – 4 giugno 2003 – se l’è tatuata sulla
schiena. La forza per uscirne l’ha trovata in un miscuglio di sincerità estrema
(la sua personale versione del misticismo cattolico) e pratiche spirituali dei
maya e degli indiani d’America, che lo hanno riavvicinato ai suoi antenati
nahuatl. “Dicono che la religione sia per chi ha paura di andare all’inferno”,
mi spiega. “Invece la spiritualità è per chi all’inferno c’è stato. Come me”.
Poco dopo ha firmato un contratto con una nuova federazione e ha cominciato a
combattere con uno spirito nuovo. “Sai chi è il mio avversario, sul ring?
Cassandro. L’uomo che ha bisogno di essere famoso. Il tuo ego non è tuo amigo. È Saúl contro Cassandro, lassù. Ho dovuto
imparare a essere umile”.
A differenza di tanti altri sport, il wrestling professionistico non dà
importanza ai numeri. Nessuno snocciola record delle vittorie e delle
sconfitte. Nella lucha libre gli incontri veramente importanti, quelli che
segnano una carriera, non sono i campionati mondiali, ma i match máscara contra máscara (maschera contro maschera) o cabellera contra cabellera (capelli contro capelli), in cui i
lottatori mettono in palio le loro maschere o i loro capelli. La posta più alta
è la maschera. Quando un lottatore è sconfitto e gli viene strappata la
maschera, il pubblico lo vede in faccia per la prima volta. Il suo nome e la
sua data di nascita sono pubblicati sui giornali. La maschera, che simboleggia
il suo onore, gli viene ritirata e non potrà più essere usata. Chi perde un
incontro “capelli contro capelli” viene rasato e umiliato pubblicamente, ma può
continuare a combattere. I capelli ricrescono. Cassandro, che ha una splendida
capigliatura – è biondo cenere e porta una pettinatura alla Farrah Fawcett
(“Vado pazzo per gli anni settanta”) – ha combattuto e vinto numerosi incontri
di questo tipo. Qualcuno l’ha anche perso, come quello del 2007 contro Hijo del
Santo, alla Los Angeles sports arena. I video in cui appare durante il taglio
di capelli in pubblico sono strazianti. Piange disperato, e con i capelli corti
sembra un bambino piccolo e infelice. Com’era prevedibile, strappare la
maschera a Hijo del Santo era fuori questione. Ma Cassandro si è consolato con
i 25mila dollari intascati per perdere l’incontro.
I ricordi di Baby Sharon
Il ragazzaccio di un tempo è diventato un uomo rispettabile. Oggi Armendáriz
tiene conferenze sulle discriminazioni all’ambasciata statunitense di Città del
Messico e all’Università nazionale autonoma del Messico (Unam). La lucha libre
sembra avere catturato l’immaginazione di tanti europei. Cassandro è stato
invitato a parlare nel Regno Unito e in Francia. Le femministe del collettivo
russo delle Pussy riot sostengono di essersi ispirate alla lucha libre per
creare le maschere che indossano durante i loro concerti. Nel 2009 Cassandro e
Hijo del Santo si sono esibiti per due sere di seguito al Louvre di Parigi.
Cassandro ha vinto il titolo mondiale dei pesi welter in un incontro a Londra,
nel 2011, ed è stato ospite del programma televisivo Bbc Breakfast. Il suo unico appunto agli inglesi è che
insistono a definirlo una “travestita”: lui è una drag queen.
L’ombra della World wrestling entertainment (Wwe), la federazione di
wrestling statunitense che domina il mercato e trasmette i suoi eventi in tutto
il pianeta, si allunga a vari livelli anche sul mondo della lucha libre. La
sigla Wwe significa soldi, e alcuni lottatori messicani hanno scelto di
esibirsi sotto la fredda luce dei suoi riflettori. Le offese razziste contro i
messicani fanno parte del pacchetto – capita che i luchadores siano costretti a
salire sul ring in sella a un tagliaerba – e le trame degli incontri sono
tortuose e rigidamente determinate. In realtà sono scritte da sceneggiatori
professionisti. Una delle costanti narrative è la complessità dei feud, situazioni create a tavolino per poter mettere in
scena una rivalità tra due o più wrestler. Un’altra caratteristica sono le
interviste rabbiose, le minacce e le spacconate che precedono e accompagnano
gli incontri, e che gli appassionati di lucha libre considerano indecorose. “La
Wwe ti offre venti minuti di turpiloquio e due di combattimento”, dice
Cassandro storcendo la bocca. Eppure, è felice quando i suoi pupilli vanno al
nord e cominciano ad arricchirsi con la Wwe.
Cassandro ha combattuto in tutti gli Stati Uniti. Il problema con i
lottatori gringo, dice, è che molti non hanno
mai imparato le prese. “In un evento payperview registrato
a Charlotte ho fatto un topetón – un
salto fuori dal ring – durante un match con un tipo della Ring of honour
(un’altra federazione statunitense), che è rimasto lì impalato, senza sapere
cosa fare. Sono volato oltre le sue braccia e atterrando mi sono fratturato una
gamba. Frattura del piatto tibiale”. È successo nel 2010. Cassandro è rimasto
fermo per mesi. “Ma ora so che mi sono fratturato la gamba perché mio padre
potesse finalmente prendersi cura di me. E l’ha fatto. Mi ha portato una
pentola di pollo cucinato da lui. Non avrei mai immaginato che ne fosse
capace”.
Cassandro vive in una casa che si affaccia sul confine. Se lanci un sasso
al di là del filo spinato finisce nel Rio Grande, il fiume che in quel punto
divide il Messico dagli Stati Uniti. Il suv di una pattuglia della polizia di
frontiera è parcheggiato all’angolo. Il quartiere, pochi chilometri a est dal
centro di El Paso, è modesto, con poca ombra e molti lotti non edificati. La
casa di Armendáriz è piccola, beige, con il tetto a terrazza. Ci abita da solo.
Dentro l’abitazione è pulita, silenziosa, in penombra, sembra un ashram. Ma basta aprire un armadio nella sala dei
massaggi (Armendáriz ha assunto un massaggiatore diplomato) e ti ritrovi nel
mondo folle e colorato di Cassandro. L’armadio è pieno di costumi da wres-tling
fatti su misura, ricoperti di lustrini e paillette.
Un giorno lo trovo che rovista dentro alcune scatole di plastica piene di
ricordi. Cerca qualche frammento della carriera di Baby Sharon, morto nel 2008.
“Lo abbiamo sepolto a Ciudad Juárez”, mi dice Armendáriz. “Abbiamo chiamato la
famiglia a Guadalajara, ma sua figlia non ha avvisato nessuno dei parenti. Si
vergognavano di lui. Baby Sharon aveva dichiarato pubblicamente la sua
omosessualità negli anni settanta, era molto difficile per i gay a quei tempi.
Tutti gli exóticos, agli inizi della loro carriera, avevano dovuto battersi con
lui. Era uno tosto, ma bravissimo con la macchina da cucire. Quando è morto gli
hanno messo una tuta da ginnastica rossa. Era orrenda! Così siamo andati a
comprare un completo gessato, lo abbiamo tirato fuori dalla bara e lo abbiamo
cambiato. Io ero pulito solo da quattro anni, e Baby Sharon era la prima
persona che perdevo da quando ero sobrio. Ero sicuro che dopo il funerale sarei
andato a sbronzarmi. E invece no. Eravamo molto legati. Mi chiamava mi hija, figlia mia”.
In una delle scatole Armendáriz trova una fotografia in cui appare seduto
per terra, fuori dal ring, con un’espressione incredula e la faccia e il petto
coperti di sangue. “Era stato lui”, dice. “Mi aveva colpito con una bottiglia”.
Il suo amato mentore l’aveva colpito con una bottiglia? Armendáriz scrolla le
spalle. “È stato un onore combattere con lui”.
So di toccare un tasto dolente quando gli chiedo della lucha extrema. In
realtà Cassandro non la disprezza. Tutt’altro. Due anni fa ha anche partecipato
a un incontro di quel tipo. “Non mi spavento mai, quando sono sul ring”, mi
confida. “Ma quel giorno ho avuto paura. Muñeco Infernal ha versato un
sacchetto di puntine sul ring, e poi mi ha scaraventato sul tappeto a faccia in
giù. Passi per i tubi luminosi, il filo spinato, la scala, il coperchio del
secchio della spazzatura, ma le puntine mi terrorizzano. Avevo puntine in tutto
il corpo. Una volta mi hanno anche dato fuoco ai capelli”. Sospira. “Ma è stata
una bella scarica di adrenalina. Potrei anche rifarlo”. Vedendomi sbalordito,
spiega: “Non ho intenzione di passare la vita a prendermela con la Wwe e la
lucha extrema che uccidono la nostra adorata lucha libre. È un atteggiamento
che non mi piace”. Ma c’è un limite alla tolleranza verso gli attacchi alla
tradizione. “Una volta c’era più rigore”, ammette. “Dovevi arrivare all’arena
ben vestito, con una bella valigia. Oggi i luchadores si presentano agli
incontri in sandali e pantaloncini. Ieri sera, alla Kalaka, ho visto un tizio
che portava la sua roba in un sacchetto del supermercato”.
Ci sono tanti tipi di sofferenza: estetica, emotiva, morale, fisica. Come
tutti i lottatori, Cassandro si guadagna da vivere soffrendo in pubblico,
fisicamente. La gente paga per vedere il male che lui e altre persone possono
infliggere e sopportare. Dicono che pianga dopo ogni incontro, quando non può
più contare né sulla maschera dell’eroe invincibile né sul conforto delle
droghe. Vive intensamente i suoi sentimenti, sia quelli positivi sia quelli
negativi. Evidentemente è molto attratto dal dolore fisico. A luglio del
2014 ha partecipato alla Danza del sole, un rituale praticato dai sioux
lakota. “Per quattro giorni non abbiamo mangiato né bevuto”, dice. “Abbiamo
danzato sotto il sole con i sacerdoti lakota in capanne di purificazione
all’aperto. Abbiamo messo 404 preghiere dentro l’albero della vita e poi lo
abbiamo abbattuto a mani nude. È stata un’esperienza molto intensa, soprattutto
la sete. Come il funerale di un genitore: padre Sole”.
“Muñeco Infernal ha rovesciato un sacchetto di puntine sul ring, poi mi ha
scaraventato sul tappeto. Quel giorno ho avuto paura”
Rovistando dentro un’altra scatola tira fuori una bustina di plastica piena
di capelli: una cabellera che ha vinto a Monterrey. Poi trova la fotografia di
Baby Sharon che cercava. Mostra un uomo alto dai lineamenti marcati, con una
chioma biondo platino lunga fino alle spalle, un paio di sopracciglia scure,
un’ombra di barba e braccia pelose che sbucano da un abito di pizzo. Baby
Sharon tiene un mazzo di fiori tra le braccia, sembra quasi cullarlo come se
fosse un neonato. “Alla fine era diventato un cocainomane”, dice Armendáriz
guardando la fotografia. “È morto in una stanzetta a Ciudad Juárez, da solo. Ma
era stato un insegnante adorato dai suoi allievi e un creatore di costumi di
grande talento. Aveva guadagnato un sacco di soldi, ma li aveva anche
sperperati tutti. La vita di un exótico è molto triste. Moriamo tutti soli”.
Mette via la foto di Baby Sharon. “Abbiamo fatto tanta strada. Ma oggi so che
tutti i miei problemi, le mie dipendenze, i rifiuti a cui sono andato incontro
sono dipesi dal mio orientamento sessuale. Perché sono solo, secondo te?”.
A me non sembra un uomo solo. È l’idolo di tutti. Non ha un compagno? “Sono
stato per dodici anni con un uomo etero e sposato”, racconta. “Dai 18 ai
trent’anni. È stata un’esperienza dolorosa. C’erano cinque, dieci, quindici
minuti di paradiso a letto, e il resto del tempo mi trattava malissimo. Era un
luchador. Siamo andati tutt’e due a Città del Messico. Ma solo la mia carriera
è decollata. Lui è rimasto con la moglie a Ciudad Juárez.” Mi guarda con
un’espressione quasi assente, senza emozione. “Sul ring sento tutto l’amore
della gente”, dice. “Lì sono io, il campione del mondo, Cassandro”.
“La mia vita è un libro aperto”, continua Armendáriz riponendo i ricordi
nella scatola. “Non ho niente da nascondere. Cerco di essere gentile con me
stesso, di volermi bene. Faccio lunghi bagni con lavanda e sali di epsom,
candele, musica da meditazione. So di essere fortunato”. Ci spostiamo in
cucina, dove Armendáriz prepara un caffè. “Sugli omosessuali pesano ancora
tanti pregiudizi”, afferma. “Ci considerano prostitute, drogati, seduttori. Ma
non siamo tutti uguali. Oggi alcuni di noi sono visti come modelli positivi.
Tempo fa un eterosessuale mi ha ringraziato perché lo avevo aiutato ad
accettare i gay”.
A un passo dal confine
Quando smetterà di combattere, mi confida, potrebbe anche decidere di avere dei
figli. Adora i bambini ed è in sintonia con loro. A un certo punto compare suo
padre, Sabas Galindo, con in mano delle enchiladas. Si è risposato e vive lì
vicino. È un uomo tarchiato, con il viso paonazzo, occhi umidi e un tono di
voce cordiale. Mangiamo, poi faccio due chiacchiere con Galindo in salotto mentre
Armendáriz lavora al computer. Sì, è molto orgoglioso del figlio: il primo
campionato vinto, i viaggi in Giappone e in Europa. No, lui non è mai stato un
appassionato di lucha libre. Gli piacciono il baseball e il pugilato. È vero,
lui e Saúl non si sono frequentati per molto tempo. Galindo arrossisce. “È
stato difficile per me accettare il fatto che fosse gay”, dice. “Il machismo,
sa. È per questo che non ci parlavamo. Ma ora lo accetto, grazie a dio. E
parliamo sempre”. Galindo è cresciuto a Ciudad Juárez, ma ora va in Messico
solo per le emergenze. È troppo pericoloso. Tutti i suoi cinque figli vivono da
questa parte del confine. Dalla finestra possiamo vedere Ciudad Juárez. Quando
Galindo si alza per andarsene, lui e il figlio si abbracciano.
La scelta della famiglia Armendáriz dice molto su quale sia la situazione
al confine. Nel 2010 a Ciudad Juárez ci sono stati più di tremila omicidi, a El
Paso solo cinque. Gli amministratori texani definiscono El Paso la più sicura
delle grandi città americane. Secondo alcune stime, centinaia di migliaia di
abitanti di Ciudad Juárez – su una popolazione di un milione e mezzo di persone
– hanno lasciato la città a causa della violenza. Molti di loro, soprattutto
appartenenti al ceto medio e alto, si sono trasferiti a El Paso. Sfruttando le
sue conoscenze all’ambasciata statunitense e tra i promoter americani,
Armendáriz aiuta i lottatori messicani a ottenere il visto per gli Stati Uniti.
Finora ha dato una mano a più di cento luchadores.
Nella lucha libre gli arbitri hanno
ruoli complessi. Sono un po’ come il governo messicano, solo più divertenti
Tempo fa mi è capitato di attraversare la frontiera con uno di loro, un
rudo chiamato Akantus. Venivamo da Ciudad Juárez. Mi ha detto che a volte le
guardie di frontiera gli chiedono di dimostrare che è un vero lottatore – come
c’è scritto sui documenti – e per questo lui porta sempre con sé la sua
maschera. In un’altra occasione un agente statunitense mi ha chiesto cosa fossi
andato a fare in Messico. Quando gli ho risposto che stavo facendo un servizio
sulla lucha libre, mi ha chiesto di fargli il nome di un luchador. Gli ho
parlato di Cassandro. Lui mi ha lanciato un’occhiataccia: “Perché proprio
lui?”. Avrei voluto chiedergli: “E perché no?”. Ma mettermi a discutere con un poliziotto
non mi sembrava una buona idea.
A Ciudad Juárez mi ritrovo all’arena Kalaka a studiare i vecchi poster
appesi alle pareti. Ci sono nove personaggi mascherati in fila, uno più
invasato, feroce e muscoloso dell’altro. E poi, alla fine, il piccolo Cassandro,
sorridente e con la testa all’indietro. I suoi denti, tutti finti, risplendono
di una brillantezza innaturale. Evidentemente all’arena Kalaka non combattono
molti exóticos, o almeno non sono così sorridenti. Chiedo ad Alejandra Carreón,
assidua frequentatrice della Kalaka e fan dei rudos, cos’abbiano di così
speciale quei cattivi. Alejandra è un’informatica di 28 anni che vive ancora
con i genitori. Mi racconta che da bambina andava nell’arena tutte le
domeniche, di solito con il fratello minore. I rudos sono divertenti – mi dice
– e rispondono alle urla del pubblico. Lei adora urlare, anche se trova il
coraggio di farlo solo quando c’è suo fratello. Cassandro è un caso speciale.
“La gente qui lo rispetta molto”, mi spiega. “Non ho mai sentito nessuno
insultarlo”. Noto che all’interno dei polsi Alejandra ha tatuate le parole
inglesi Angels e Heroes. Quello che
le piace di più della Kalaka, dice, è l’impressione di “entrare dentro una
piccola città nella grande città”.
So che cosa intende quando parla di “una piccola città”. C’è un
chioschetto, appoggiato contro una parete sudicia, in cui due ragazze vendono
bibite e patatine. La loro specialità si chiama preparada: un sacchetto di
patatine Tostitos, aperto da un lato e riempito di avocado, cipolla, pomodoro,
formaggio e una bella spruzzata di salsa agrodolce. In cima c’è infilato un
cucchiaio di plastica.
In equilibrio sulla corda
Il camerino di Los Angeles si sta riempiendo di lottatori. Cassandro li
abbraccia uno per uno. “Adoro abbracciare”, ammette. El Bombero, El Jimador,
Niebla Roja, due nani dall’aria truce (Los Minis), un arbitro brizzolato di
nome Platanito. Si tolgono gli abiti di tutti i giorni, si spalmano un unguento
su collo, spalle e polpacci, e scivolano nei loro costumi attillati. È
emozionante vederli mentre indossano le maschere. In un attimo il giovane
Sergio di Città del Messico – un ragazzo simpatico e cordiale – si trasforma
nel feroce lottatore senza occhi Niebla Roja, nebbia rossa. Niebla Roja è tornato
da poco dal Giappone. Lì la lucha libre è molto popolare. Cassandro c’è andato
diverse volte in tournée. “Picchiano duro”, spiega Niebla Roja, accarezzandosi
gli enormi bicipiti. “Hanno i gomiti pesanti. Ma ti mettono a disposizione una
massaggiatrice ogni volta che vuoi”. Si toglie la maschera. Sta cercando di
decidere quale delle tre versioni usare questa sera. Il suo match con Cassandro
è l’evento più importante della serata. Dividono la stanza d’albergo nel
quartiere di Little Tokyo – per l’appunto – a Los Angeles.
Prima, nel pomeriggio, li vedo ispezionare insieme il ring. “Troppo
piccolo”, dice Sergio. “E la disposizione del pubblico è strana”. Armendáriz
concorda. Ma questo non sarà un normale incontro di lucha libre, con il
pubblico seduto intorno ai quattro lati del ring. Il ring è posizionato sul
palco di un vecchio teatro, il Mayan: una grande sala da 1.400 posti, tutti
esauriti per le due serate di wrestling. Lo show si chiama Lucha VaVoom e
prevede anche un numero di burlesque e l’esibizione di un gruppo rock tra un
incontro e l’altro. Il pubblico è composto per lo più da hipster di Los
Angeles, non da veri appassionati. Niebla Roja non ha mai partecipato a una
VaVoom. Cassandro invece sì, molte volte.
Il ring ha anche altri problemi. Armendáriz salta sulla corda superiore.
Mentre cammina lungo la corda, Sergio gli tiene la mano. “È troppo morbida”,
dice, rimbalzando. “Va bene”, urla un tecnico che sta lavorando sotto la pedana
del ring. “Ti piacciono i miei stivaletti da donna?”, mi chiede Armendáriz.
Porta un paio di stivali neri con il tacco alto, jeans attillati, una cintura
tempestata di strass e una camicia aderente con bottoncini argentati e motivi
che ricordano schizzi di lava, abbastanza aperta da mostrare un crocifisso
d’argento sul petto abbronzato. È incredibile come riesce a stare in equilibrio
su quella corda. “I rudos da quella parte, i técnicos qui”, dice a Sergio, che
annuisce. “Oddio, guarda questo paletto”. Un’ispezione sotto al quadrato del
ring ha rivelato la rottura del gancio di un cavo fondamentale: “il tenditore”,
lo chiama Armendáriz.
Più tardi, prima di entrare in scena, Cassandro avvisa i lottatori di
testare le corde appena saliti sul ring e di non fidarsi dei tenditori
nell’angolo sospetto. L’atmosfera nei camerini sta diventando frenetica. I
lottatori provano insieme mosse e manovre. “Allora, io salto, tu mi colpisci
qui, bam, bam, plancha, suplex, giro”. In quegli spazi angusti i tag team (coppie di wrestler che combattono in
coppia) mimano lunghe sequenze di manovre. È la coreografia preincontro.
L’elemento centrale è la sicurezza. Chiedo a Niebla Roja se vincerà lui o
Cassandro. Lui scrolla le spalle. “Forse Cassandro lo sa. Io combatterò e
basta”.
Comincia il primo match. Domando a una donna tra il pubblico perché sia lì.
“Era nella mia lista di cose da fare a Los Angeles”, mi risponde. Si chiama
Dhyandra e lavora al museo d’arte della contea. “Ne parlano tutti”. Ha 27 anni
e non sa cosa aspettarsi. “Sono qui, come dire, per una serata kitsch”. Due
giovani ingegneri,
Brooks e Margarita, le fanno eco. “Mi aspetto di farmi quattro risate”,
dice Margarita. Brooks ha appena comprato una maschera azzurra di lucha libre
nell’atrio. Pensa di indossarla ad Halloween. Solo pochi, tra gli spettatori,
si sono messi una maschera. Due ragazzi, i classici figli di papà, hanno un
costume da lucha libre, con tanto di mantello.
I primi match servono a riscaldare il pubblico. Un personaggio chiamato
Dirty Sánchez lancia il contenuto del suo pannolone fuori dal ring, provocando
il panico tra il pubblico urlante. I Minis sono spudoratamente esilaranti
mentre corrono impettiti da una parte all’altra del ring, facendo inciampare i
loro ben più imponenti avversari. Il personaggio che mi colpisce di più è
Platanito, l’arbitro: è diabolico. All’inizio sembra che voglia imporre
l’ordine e tenere a bada i rudos, ma poi, al momento buono, fallisce nel suo
intento, mostrando tutta la sua debolezza e la sua disonestà. Nella lucha libre
gli arbitri hanno ruoli complessi, legati solo in parte alla direzione
dell’incontro. Sono un po’ come il governo messicano, solo più divertenti.
Cassandro fa la sua prima apparizione su un grande schermo, mentre sale con
passo lento e solenne le scale che dal seminterrato portano in sala. Indossa
una giacca da torero, con un incredibile e lunghissimo strascico di broccato,
sopra un costume da bagno femminile aderentissimo e scollato fino alla cintola.
Ai piedi porta un paio di stivali bianchi con grandi farfalle di strass ai
lati. Mentre gli altoparlanti sparano No te metas con mi cucu (Lascia
stare il mio sedere) – una cumbia del gruppo colombiano la Sonora Dinamita –
attraversa la platea a passo di danza, andando verso il ring, dove lo aspetta
Niebla Roja. Ma dopo essersi tolto giacca e strascico, si ferma nello spazio
subito fuori del quadrato, dove si esibisce in alcuni passi dei Menudo,
infiammando una platea già piuttosto entusiasta.
Senza smettere di piangere
In realtà l’incontro è un match di coppia, ma i partner di Cassandro e Niebla,
forse volutamente, non possono competere con le loro mosse e contromosse così
veloci, acrobatiche e rischiose. L’unica cosa da ricordare del partner di
Niebla, un flaccido peso massimo che si fa chiamare Dr. Maldad Pepieux, è che
Cassandro se lo porta per un po’ in giro sulle spalle – con i suoi 115 chili –
solo per mettere in mostra la sua forza. Alla fine Platanito perde il controllo
dell’incontro, che scivola prima fuori dal ring e poi fuori dal palco, per
proseguire in platea, seguito dai riflettori, mentre il pubblico si sparpaglia
e Niebla Roja e Dr. Maldad si abbattono sullo sfortunato partner di Cassandro.
Ma dov’è Cassandro? All’improvviso i riflettori lo inquadrano, in cima a
una galleria, che cammina in punta di piedi sul bordo di una ringhiera. Sta
pensando di calarsi da lassù, per correre in soccorso del partner? No, sta
pensando di tuffarsi. E si tuffa da circa quattro metri e mezzo di altezza.
Cassandro piomba sulla mischia alla velocità di Superman, poi scompare di
nuovo. Accanto a me, un tizio calvo con una bottiglia di birra a collo lungo si
mette a urlare: “Quello è pazzo! Ha più di sessant’anni, e stavolta ha mancato
il bersaglio. Di solito si rialza subito in piedi, ma è a terra! Ha mancato il
bersaglio!”.
Su una cosa il tizio calvo ha ragione: Cassandro ha mancato il bersaglio. O
meglio: a mancare il bersaglio è stato lo staff della sicurezza che avrebbe
dovuto attutire la caduta. Uno di loro si è ritrovato sulla traiettoria del
volo, e Cassandro si è rotto una costola. Ma quel tuffo era così pericoloso che
non poteva certo aspettarsi di cavarsela senza conseguenze.
Più tardi mi dirà solo questo: “Sentivo di dover fare qualcosa di speciale,
avevo l’impressione di avere deluso il pubblico. Quel paletto del ring era
messo così male che non avevo potuto fare nessuno dei miei soliti salti dalla
terza corda, nessuna delle manovre più spettacolari”. A me, in realtà, è
sembrato che lui e Niebla Roja abbiano fatto dei voli incredibili.
Alla fine Cassandro si rialza in piedi e, tenendosi un fianco, si dirige
barcollando verso il palco, incitato dalla folla. Lui e Niebla salgono sul ring
e riprendono lo spettacolo. La squadra di Cassandro vince, e viene giù il
teatro. Poi comincia la festa nei camerini. Cassandro non partecipa. Seduto nel
suo angolo, respira a fatica: senza smettere di piangere si strucca e si sfila
dolorante il costume. Non vuole che chiamino un’ambulanza né del ghiaccio.
Certamente non vuole una tequila. Niebla Roja ha un labbro spaccato, sotto
l’impacco di ghiaccio. Sta preparando la borsa. “Stessa cosa domani,
Cassandro?”, chiede.
Cassandro annuisce in modo distratto, sofferente. Bè, magari senza il
tuffo. E poi vuole anche portare Sergio a fare shopping prima dello spettacolo
del giorno dopo. C’è un quartiere di negozi persiani di abbigliamento, con una
fantastica scelta di tessuti luccicanti ed elasticizzati, perfetti per i
costumi della lucha libre. E c’è un quartiere dove si vendono profumi
all’ingrosso, a prezzi molto più bassi di qualsiasi altro posto in Messico o a
El Paso.
(Traduzione di Diana Corsini)
Questo articolo è stato pubblicato il 29 maggio 2015
nel numero 1104 di
Internazionale.
https://www.internazionale.it/notizie/william-finnegan/2023/10/04/cassandro-ha-gettato-la-maschera-2
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