sabato 7 ottobre 2023

Cassandro ha gettato la maschera - William Finnegan

 

Questo articolo è stato pubblicato il 29 maggio 2015 nel numero 1104 di Internazionale.

Saúl Armendáriz è cresciuto a ridosso di una delle frontiere più strane del mondo: El Paso, Texas, e Ciudad Juárez, Messico. È nato a El Paso ma ha sempre vissuto su entrambi i lati del confine. “Andavo a scuola negli Stati Uniti, ma il venerdì io e le mie sorelle attraversavamo di corsa il ponte che porta a Juárez”, racconta. I divertimenti e i parenti erano quasi tutti in Messico. In cima alla lista dei divertimenti, per Saúl, c’era la lucha libre, la popolare e colorita versione messicana del wrestling professionistico. Ogni quartiere aveva una piccola arena dove tutte le domeniche i buoni (técnicos) e i cattivi (rudos) lottavano mascherati, roteando avvinghiati e scaraventandosi da una parte all’altra del ring. Saúl adorava i loro costumi sgargianti. Amava la folla rumorosa e appassionata. Idolatrava i luchadores, personaggi eccessivi e carismatici. Non aveva una corporatura imponente, ma era un ragazzino agile e atletico e alla disperata ricerca di un alter ego.

“Essere gay è un dono di dio”, mi ha detto qualche tempo fa. Ma a giudicare dalla sua infanzia non si direbbe. Armendáriz racconta che da bambino veniva punito duramente perché gli piaceva giocare a battimani, un gioco da femmine, con un compagno di scuola che era come lui. I suo genitori – soprattutto suo padre – si sentivano umiliati dalla sua effeminatezza. “Mio padre era un machista”, dice. “Non voleva un figlio gay”. Era un camionista che beveva e picchiava la moglie. I genitori di Saúl divorziarono quando lui aveva tredici anni. Anche gli altri bambini lo trattavano in modo crudele e violento. “I ragazzi del quartiere, compresi alcuni parenti, mi usavano come giocattolo sessuale”.

Oggi Armendáriz ha 45 anni. Mi parla di questi orrori mentre stende sulle palpebre un ombretto verde glitterato, in piedi davanti allo specchio di un camerino di Los Angeles. Quando ricorda la sua infanzia non sembra né troppo turbato né troppo distaccato, una via di mezzo. “Non sono una vittima”, ci tiene a precisare. Poi si lascia sfuggire un sospiro e si mette il rossetto, di un colore rosso acceso. “Ma sono rimasto molto segnato”. Poi si applica un paio di ciglia finte. Sta trasformando Saúl nel personaggio che interpreta nella lucha libre: il favoloso campione mondiale dei pesi welter Cassandro.

Talento e sensibilità
A quindici anni Armendáriz lasciò la scuola e si affidò a un allenatore di Ciudad Juárez, e due anni dopo fece il suo esordio da professionista con il nome di Mister Romano. Quel personaggio era ispirato a Rey Misterio, un famoso lottatore messicano con cui Armendáriz si era allenato all’inizio della sua carriera. Mister Romano era un rudo, un cattivo, costruito sul modello dei gladiatori. Portava una maschera e un costume bianco e nero. Il suo dropkick, il calcio volante sferrato all’avversario con entrambi i piedi, era implacabile. Armendáriz si esibì interpretando quel personaggio per meno di un anno, vincendo un incontro dopo l’altro nelle arene lungo tutto il confine. “Fu Baby Sharon a convincermi ad abbandonare Mister Romano”, racconta. Baby Sharon era un exótico, un lottatore che combatteva travestito da donna. Gli exóticos esistevano fin dagli anni quaranta del novecento. All’inizio erano dei dandy. Assumevano pose sofisticate e teatrali e lanciavano fiori al pubblico. A poco a poco diventarono sempre più leziosi e ammiccanti, finché non cominciarono a vestirsi da donna e a somigliare sempre di più a una macchietta del gay effeminato. Il pubblico, che si divertiva tantissimo a odiarli, gli urlava “Maricón!” e “Joto!” (finocchio). Gli exóticos facevano da contrasto ai bruti supervirili contro cui combattevano. I più famosi dicevano che interpretavano quel personaggio sul ring ma in realtà erano eterosessuali. Secondo Armendáriz, Baby Sharon fu tra i primi a dichiarare pubblicamente che lui non faceva finta. Era davvero omosessuale.

Al suo esordio come exótico, Armendáriz non portava una maschera. “Sono salito sul ring indossando una camicetta a fiori di mia madre e lo strascico del vestito rosa da debuttante di mia sorella. Poi, per combattere, ho messo un costume da bagno da donna”. In cartellone era annunciato come Rosa Salvaje, ma l’incontro si teneva a Juárez, dove tutti lo conoscevano. Fu una serata da incubo. “Credevo che nessuno sapesse che ero gay, e quindi ero convinto che quello sarebbe stato il mio coming out. Invece lo sapevano tutti, ero l’unico a non rendermene conto”. Il pubblico continuava a incitare il suo avversario: “Ammazzalo, quel finocchio”.
Rosa Salvaje, come Mister Romano, era un lottatore potente e veloce. Niente mossette o gridolini: solo un balletto celebrativo ogni volta che scaraventava un avversario fuori dal ring, o un bacio a sorpresa sulla bocca di qualche maschione inchiodato a terra in una presa di sottomissione. Il pubblico adorava questo genere di trovate. Ma alcuni lottatori più anziani non volevano battersi con Rosa. Era il 1989, in piena isteria da aids. La madre di Armendáriz, María, cominciò ad andare agli incontri. E quando qualcuno, tra il pubblico, gli rivolgeva insulti omofobici, lei protestava: “Quello è mio figlio!”. Non c’è niente di meglio in Messico per zittire un provocatore.

Rosa Salvaje combatteva spesso insieme a un altro exótico di talento, Pimpinela Escarlata. Giravano le arene dello stato di Chihuahua pestando omaccioni eterosessuali. Erano vittorie legittime? No, almeno a livello sportivo. C’è una ragione se il Nevada gaming control board, l’agenzia governativa statunitense che regola il gioco d’azzardo, non ha mai permesso le scommesse sul wrestling professionistico: i risultati sono stabiliti in anticipo. Ma lo spettacolo – nella lucha libre come nel wrestling – prevede sempre una trama e i vincitori devono essere atleti convincenti. Rosa e Pimpi lo erano senz’altro.

Sul ring sono piovuti pesos, una dimostrazione di apprezzamento da parte del pubblico. Cassandro è rimasto lì a godersi lo spettacolo

L’evoluzione della trama non è determinata solo dai promoter, gli organizzatori degli incontri. Quando Armendáriz decise di cambiare il suo nome di scena, partecipò a una lucha de apuesta (un incontro associato a una scommessa) contro un exótico che si chiamava Johnny Vannessa: lo sconfitto avrebbe rinunciato al suo nome. Rosa perse l’incontro, e da allora Armendáriz ha sempre combattuto come Cassandro. Il nome viene dalla direttrice di un bordello di Tijuana che Saúl ammirava molto. Cassandra era famosa per la sua generosità verso i poveri: con i profitti del suo fiorente commercio aiutava i ragazzi di strada, come aveva sempre fatto, fin da quando era una giovane prostituta di alto bordo. Il suo strano miscuglio di talento e sensibilità era sempre stato fonte di ispirazione per Armendáriz. Dopo tutto, forse era possibile essere un personaggio trasgressivo, sexy e di successo e allo stesso tempo una brava persona.

Una volta, a Guadalajara, una donna anziana accoltellò Cassandro durante un incontro, dopo che l’azione si era spostata – come succede spesso nella lucha libre – nella zona riservata al pubblico. Perché lo fece? Cassandro scrolla le spalle. “Stavo picchiando uno dei suoi idoli. Mi colpì proprio qui, sotto la gabbia toracica”. A Juárez un’altra anziana una volta gli rovesciò una scodella di peperoncini verdi sulla schiena. “Le dissi di calmarsi”, racconta. “Era fuori di sé. Le dissi che rischiava un infarto, ma lei non si fermò. Avevo la schiena tutta sudata, e quei peperoncini bruciavano da morire”.

I segni della guerra
Il pubblico più scatenato che io abbia mai visto a un incontro di Cassandro è stato quello dell’arena Kalaka, a Ciudad Juárez, nel marzo del 2014. Ma è stata un’esaltazione adorante. La serata era cominciata male. Gli organizzatori l’avevano annunciata come lucha extrema, la versione più violenta del wrestling messicano, vietando l’ingresso ai minori di dodici anni. I lottatori – con più coraggio che tecnica – si erano battuti usando sedie d’acciaio, tavole chiodate, tubi luminosi fluorescenti di diverse lunghezze, una chitarra avvolta nel filo spinato e perfino un trapano a batterie. Alla fine è venuto fuori che il trapano era finto e che i buchi sulla nuca dei lottatori finiti al tappeto erano solo una messinscena. Ma dopo cinque o sei incontri c’erano i vetri dei tubi dappertutto, e il sangue che schizzava dai corpi dei lottatori era vero. Era difficile non vedere nell’euforia del pubblico una specie di esorcismo di massa, se si pensa a quello che gli abitanti di Ciudad Juárez hanno dovuto affrontare negli ultimi anni: una spietata guerra di strada tra i cartelli della droga, che ha provocato più di novemila morti in quattro anni. Nel 2011 il tasso di omicidi della città, che era il più alto del mondo, ha cominciato a diminuire. Ma i traumi hanno lasciato segni profondi, e il quartiere diroccato intorno all’arena Kalaka – un vecchio magazzino fatiscente – faceva pensare ai resti di un campo di battaglia abbandonato.

Nella confusione dei primi incontri della serata ero riuscito a stento a distinguere i buoni dai cattivi. I técnicos dovrebbero rispettare le regole, i rudos trasgredirle e poi l’arbitro dovrebbe ristabilire l’ordine. Ma i técnicos avevano attaccato i loro avversari alle spalle sulla rampa di accesso al ring, mentre gli arbitri sistemavano il filo spinato sul tappeto per massimizzare i danni negli atterramenti. I circa duecento spettatori sembravano felici. Ragazzine liceali e vecchietti che avrebbero potuto essere i loro nonni ripetevano all’unisono “Culero” (stronzo) a un lottatore chiamato Aereo. Con il volto coperto da una maschera color oro e viola, Aereo aveva forse perso il favore del pubblico. Quando si fermò a riprendere fiato durante un lungo e duro pestaggio, qualcuno gli urlò: “Invitalo a cena”. Evidentemente Aereo era troppo tenero per quel pubblico così poco impressionato dalla violenza della lucha extrema. Quando è arrivato il momento dell’incontro tra Cassandro e Magno – un rudo grande e grosso – i presenti hanno tirato un sospiro di sollievo: era arrivata la vera lucha libre.

In linea di massima il wrestling messicano è più spettacolare e acrobatico di quello statunitense: dà importanza alle manovre aeree e alla fluidità degli scambi più che alle dimensioni e alla muscolatura dei lottatori. I puristi si lamentano perché sostengono che dagli anni novanta, quando è stato rimosso il divieto di trasmettere gli incontri in tv, il wrestling messicano ha perso un po’ della sua eleganza tecnica e della sua originalità. Da allora la lucha è diventata più monotona e scenografica: sembra fatta più per le telecamere che per il pubblico ai bordi del ring.

Toccare il fondo
Ma questo non è stato certo il caso del match tra Cassandro e Magno all’arena Kalaka di Ciudad Juárez. Con i loro salti e le loro “catapulte”, sono volati oltre le corde e in mezzo al pubblico, che prima si è sparpagliato e poi li ha aiutati a risalire sul ring. Dopo avere sfiorato a più riprese lo schienamento, Cassandro è riuscito per l’ennesima volta a scrollarsi di dosso il suo gigantesco avversario poco prima che l’arbitro lo dichiarasse sconfitto. Ora la folla era in piedi, urlante. Alla fine, con un salto dalla corda più alta, Cassandro ha sferrato un dropkick al suo avversario, colpendolo al torace. Entrambi sono ricaduti a terra con un tonfo sordo. Cassandro si è rialzato per primo, è corso verso il bordo del ring e, aggrappandosi alla corda di mezzo, ha calciato all’indietro e alla cieca, a gambe tese. Non so come, è riuscito a colpire Magno che si era appena rialzato al centro del ring e l’ha bloccato in un wheelbarrow, una presa delle gambe da dietro. Dopo una serie di manovre in rapida sequenza, Magno si è ritrovato schiena a terra, con le gambe sollevate e piegate contro una gamba di Cassandro e con tutto il peso dell’avversario sul petto. Mentre si dibatteva, Magno scuoteva Cassandro come una bambola tra i denti di un cane. Ma Cassandro non ha mollato la presa. Uno, due, tre: vittoria.

Sul ring sono piovuti pesos, una tradizionale dimostrazione di apprezzamento da parte del pubblico. Cassandro è rimasto lì a godersi lo spettacolo, ansimante, madido di sudore e sorridente, con gli occhi che gli brillavano. Aveva perso le ciglia finte. Qualcuno gli ha passato un microfono: “Ésta es lucha libre” (questa è lotta libera), ha dichiarato. Poi ha girato lo sguardo verso i resti dell’incontro precedente: filo spinato, pezzi di legno, tubi luminosi piegati e vetri rotti. “Non quelle stronzate”.

Il successo di Cassandro è stato rapido: dopo essersi trasferito a Città del Messico, entrò subito in una delle grandi federazioni. In quel periodo Armendáriz ostentava una sicurezza che in realtà non aveva. Nel 1991, poco prima del suo ventunesimo compleanno, gli fu assegnato un match contro Hijo del Santo, il lottatore più popolare del Messico. Era impensabile che Cassandro potesse vincere. Oltre a essere un campione dei pesi welter, Hijo del Santo era il figlio di un altro lottatore leggendario, El Santo: la maschera d’argento con cui si esibiva era quella del padre. La reazione dei fan fu di rabbia e indignazione. “Dicevano che ero solo un piccolo omosessuale. ‘Come puoi pensare di contendere il titolo a Hijo del Santo?’, chiedevano. Ce li avevo tutti contro. Una pressione insostenibile”. Una settimana prima dell’incontro Cassandro aveva provato a uccidersi tagliandosi le vene dei polsi con un rasoio. Pimpinela Escarlata era arrivato in tempo e gli aveva salvato la vita. Cassandro mi mostra le ferite. Nonostante tutto, tenne fede all’impegno e si batté con Hijo del Santo. Perse l’incontro, ma con onore, e continuò a praticare il wrestling ai massimi livelli. Nel 1992 vinse un campionato dei pesi leggeri: era il primo exótico a conquistare un titolo mondiale.

Per non perdere la fiducia in se stesso e continuare a combattere, Cassandro cominciò a fare uso di droghe e alcol. Il mondo della lucha libre attirava i federales – gli alti funzionari della polizia – e i loro cugini della malavita, che assicuravano ai lottatori un rifornimento illimitato di sostanze stupefacenti. Per Cassandro la baldoria durò più di dieci anni. “Alcol e droga mi aiutavano a fare carriera. Credevo in me stesso. Ero famoso, guadagnavo un sacco di soldi. Mi sentivo Wonder Woman”. Nel 1997, nel bel mezzo della baldoria, Armendáriz perse la madre. “Mi drogavo ancora quando mia madre è morta”, mi dice. “In qualche modo, era lei che alimentava il mio vizio. Mi amava troppo. L’ho truccata io, all’obitorio. Ero strafatto, quel giorno. È stato terribile. Ma la cosa peggiore è che se lei non fosse morta sarei finito in prigione o sarei morto io. Anche se mi sento in colpa e mi vergogno di dirlo”. Ci vollero anni prima che Armendáriz toccasse il fondo. La dipendenza da alcol e droga stava danneggiando anche la sua carriera: combatteva sempre meno e viveva nel giardino di un amico.

La data del ritorno alla sobrietà – 4 giugno 2003 – se l’è tatuata sulla schiena. La forza per uscirne l’ha trovata in un miscuglio di sincerità estrema (la sua personale versione del misticismo cattolico) e pratiche spirituali dei maya e degli indiani d’America, che lo hanno riavvicinato ai suoi antenati nahuatl. “Dicono che la religione sia per chi ha paura di andare all’inferno”, mi spiega. “Invece la spiritualità è per chi all’inferno c’è stato. Come me”. Poco dopo ha firmato un contratto con una nuova federazione e ha cominciato a combattere con uno spirito nuovo. “Sai chi è il mio avversario, sul ring? Cassandro. L’uomo che ha bisogno di essere famoso. Il tuo ego non è tuo amigo. È Saúl contro Cassandro, lassù. Ho dovuto imparare a essere umile”.

A differenza di tanti altri sport, il wrestling professionistico non dà importanza ai numeri. Nessuno snocciola record delle vittorie e delle sconfitte. Nella lucha libre gli incontri veramente importanti, quelli che segnano una carriera, non sono i campionati mondiali, ma i match máscara contra máscara (maschera contro maschera) o cabellera contra cabellera (capelli contro capelli), in cui i lottatori mettono in palio le loro maschere o i loro capelli. La posta più alta è la maschera. Quando un lottatore è sconfitto e gli viene strappata la maschera, il pubblico lo vede in faccia per la prima volta. Il suo nome e la sua data di nascita sono pubblicati sui giornali. La maschera, che simboleggia il suo onore, gli viene ritirata e non potrà più essere usata. Chi perde un incontro “capelli contro capelli” viene rasato e umiliato pubblicamente, ma può continuare a combattere. I capelli ricrescono. Cassandro, che ha una splendida capigliatura – è biondo cenere e porta una pettinatura alla Farrah Fawcett (“Vado pazzo per gli anni settanta”) – ha combattuto e vinto numerosi incontri di questo tipo. Qualcuno l’ha anche perso, come quello del 2007 contro Hijo del Santo, alla Los Angeles sports arena. I video in cui appare durante il taglio di capelli in pubblico sono strazianti. Piange disperato, e con i capelli corti sembra un bambino piccolo e infelice. Com’era prevedibile, strappare la maschera a Hijo del Santo era fuori questione. Ma Cassandro si è consolato con i 25mila dollari intascati per perdere l’incontro.

I ricordi di Baby Sharon
Il ragazzaccio di un tempo è diventato un uomo rispettabile. Oggi Armendáriz tiene conferenze sulle discriminazioni all’ambasciata statunitense di Città del Messico e all’Università nazionale autonoma del Messico (Unam). La lucha libre sembra avere catturato l’immaginazione di tanti europei. Cassandro è stato invitato a parlare nel Regno Unito e in Francia. Le femministe del collettivo russo delle Pussy riot sostengono di essersi ispirate alla lucha libre per creare le maschere che indossano durante i loro concerti. Nel 2009 Cassandro e Hijo del Santo si sono esibiti per due sere di seguito al Louvre di Parigi. Cassandro ha vinto il titolo mondiale dei pesi welter in un incontro a Londra, nel 2011, ed è stato ospite del programma televisivo Bbc Breakfast. Il suo unico appunto agli inglesi è che insistono a definirlo una “travestita”: lui è una drag queen.

L’ombra della World wrestling entertainment (Wwe), la federazione di wrestling statunitense che domina il mercato e trasmette i suoi eventi in tutto il pianeta, si allunga a vari livelli anche sul mondo della lucha libre. La sigla Wwe significa soldi, e alcuni lottatori messicani hanno scelto di esibirsi sotto la fredda luce dei suoi riflettori. Le offese razziste contro i messicani fanno parte del pacchetto – capita che i luchadores siano costretti a salire sul ring in sella a un tagliaerba – e le trame degli incontri sono tortuose e rigidamente determinate. In realtà sono scritte da sceneggiatori professionisti. Una delle costanti narrative è la complessità dei feud, situazioni create a tavolino per poter mettere in scena una rivalità tra due o più wrestler. Un’altra caratteristica sono le interviste rabbiose, le minacce e le spacconate che precedono e accompagnano gli incontri, e che gli appassionati di lucha libre considerano indecorose. “La Wwe ti offre venti minuti di turpiloquio e due di combattimento”, dice Cassandro storcendo la bocca. Eppure, è felice quando i suoi pupilli vanno al nord e cominciano ad arricchirsi con la Wwe.

Cassandro ha combattuto in tutti gli Stati Uniti. Il problema con i lottatori gringo, dice, è che molti non hanno mai imparato le prese. “In un evento payperview registrato a Charlotte ho fatto un topetón – un salto fuori dal ring – durante un match con un tipo della Ring of honour (un’altra federazione statunitense), che è rimasto lì impalato, senza sapere cosa fare. Sono volato oltre le sue braccia e atterrando mi sono fratturato una gamba. Frattura del piatto tibiale”. È successo nel 2010. Cassandro è rimasto fermo per mesi. “Ma ora so che mi sono fratturato la gamba perché mio padre potesse finalmente prendersi cura di me. E l’ha fatto. Mi ha portato una pentola di pollo cucinato da lui. Non avrei mai immaginato che ne fosse capace”.

Cassandro vive in una casa che si affaccia sul confine. Se lanci un sasso al di là del filo spinato finisce nel Rio Grande, il fiume che in quel punto divide il Messico dagli Stati Uniti. Il suv di una pattuglia della polizia di frontiera è parcheggiato all’angolo. Il quartiere, pochi chilometri a est dal centro di El Paso, è modesto, con poca ombra e molti lotti non edificati. La casa di Armendáriz è piccola, beige, con il tetto a terrazza. Ci abita da solo. Dentro l’abitazione è pulita, silenziosa, in penombra, sembra un ashram. Ma basta aprire un armadio nella sala dei massaggi (Armendáriz ha assunto un massaggiatore diplomato) e ti ritrovi nel mondo folle e colorato di Cassandro. L’armadio è pieno di costumi da wres-tling fatti su misura, ricoperti di lustrini e paillette.

Un giorno lo trovo che rovista dentro alcune scatole di plastica piene di ricordi. Cerca qualche frammento della carriera di Baby Sharon, morto nel 2008. “Lo abbiamo sepolto a Ciudad Juárez”, mi dice Armendáriz. “Abbiamo chiamato la famiglia a Guadalajara, ma sua figlia non ha avvisato nessuno dei parenti. Si vergognavano di lui. Baby Sharon aveva dichiarato pubblicamente la sua omosessualità negli anni settanta, era molto difficile per i gay a quei tempi. Tutti gli exóticos, agli inizi della loro carriera, avevano dovuto battersi con lui. Era uno tosto, ma bravissimo con la macchina da cucire. Quando è morto gli hanno messo una tuta da ginnastica rossa. Era orrenda! Così siamo andati a comprare un completo gessato, lo abbiamo tirato fuori dalla bara e lo abbiamo cambiato. Io ero pulito solo da quattro anni, e Baby Sharon era la prima persona che perdevo da quando ero sobrio. Ero sicuro che dopo il funerale sarei andato a sbronzarmi. E invece no. Eravamo molto legati. Mi chiamava mi hija, figlia mia”.

In una delle scatole Armendáriz trova una fotografia in cui appare seduto per terra, fuori dal ring, con un’espressione incredula e la faccia e il petto coperti di sangue. “Era stato lui”, dice. “Mi aveva colpito con una bottiglia”. Il suo amato mentore l’aveva colpito con una bottiglia? Armendáriz scrolla le spalle. “È stato un onore combattere con lui”.

So di toccare un tasto dolente quando gli chiedo della lucha extrema. In realtà Cassandro non la disprezza. Tutt’altro. Due anni fa ha anche partecipato a un incontro di quel tipo. “Non mi spavento mai, quando sono sul ring”, mi confida. “Ma quel giorno ho avuto paura. Muñeco Infernal ha versato un sacchetto di puntine sul ring, e poi mi ha scaraventato sul tappeto a faccia in giù. Passi per i tubi luminosi, il filo spinato, la scala, il coperchio del secchio della spazzatura, ma le puntine mi terrorizzano. Avevo puntine in tutto il corpo. Una volta mi hanno anche dato fuoco ai capelli”. Sospira. “Ma è stata una bella scarica di adrenalina. Potrei anche rifarlo”. Vedendomi sbalordito, spiega: “Non ho intenzione di passare la vita a prendermela con la Wwe e la lucha extrema che uccidono la nostra adorata lucha libre. È un atteggiamento che non mi piace”. Ma c’è un limite alla tolleranza verso gli attacchi alla tradizione. “Una volta c’era più rigore”, ammette. “Dovevi arrivare all’arena ben vestito, con una bella valigia. Oggi i luchadores si presentano agli incontri in sandali e pantaloncini. Ieri sera, alla Kalaka, ho visto un tizio che portava la sua roba in un sacchetto del supermercato”.

Ci sono tanti tipi di sofferenza: estetica, emotiva, morale, fisica. Come tutti i lottatori, Cassandro si guadagna da vivere soffrendo in pubblico, fisicamente. La gente paga per vedere il male che lui e altre persone possono infliggere e sopportare. Dicono che pianga dopo ogni incontro, quando non può più contare né sulla maschera dell’eroe invincibile né sul conforto delle droghe. Vive intensamente i suoi sentimenti, sia quelli positivi sia quelli negativi. Evidentemente è molto attratto dal dolore fisico. A luglio del 2014 ha partecipato alla Danza del sole, un rituale praticato dai sioux lakota. “Per quattro giorni non abbiamo mangiato né bevuto”, dice. “Abbiamo danzato sotto il sole con i sacerdoti lakota in capanne di purificazione all’aperto. Abbiamo messo 404 preghiere dentro l’albero della vita e poi lo abbiamo abbattuto a mani nude. È stata un’esperienza molto intensa, soprattutto la sete. Come il funerale di un genitore: padre Sole”.

“Muñeco Infernal ha rovesciato un sacchetto di puntine sul ring, poi mi ha scaraventato sul tappeto. Quel giorno ho avuto paura”

Rovistando dentro un’altra scatola tira fuori una bustina di plastica piena di capelli: una cabellera che ha vinto a Monterrey. Poi trova la fotografia di Baby Sharon che cercava. Mostra un uomo alto dai lineamenti marcati, con una chioma biondo platino lunga fino alle spalle, un paio di sopracciglia scure, un’ombra di barba e braccia pelose che sbucano da un abito di pizzo. Baby Sharon tiene un mazzo di fiori tra le braccia, sembra quasi cullarlo come se fosse un neonato. “Alla fine era diventato un cocainomane”, dice Armendáriz guardando la fotografia. “È morto in una stanzetta a Ciudad Juárez, da solo. Ma era stato un insegnante adorato dai suoi allievi e un creatore di costumi di grande talento. Aveva guadagnato un sacco di soldi, ma li aveva anche sperperati tutti. La vita di un exótico è molto triste. Moriamo tutti soli”. Mette via la foto di Baby Sharon. “Abbiamo fatto tanta strada. Ma oggi so che tutti i miei problemi, le mie dipendenze, i rifiuti a cui sono andato incontro sono dipesi dal mio orientamento sessuale. Perché sono solo, secondo te?”.

A me non sembra un uomo solo. È l’idolo di tutti. Non ha un compagno? “Sono stato per dodici anni con un uomo etero e sposato”, racconta. “Dai 18 ai trent’anni. È stata un’esperienza dolorosa. C’erano cinque, dieci, quindici minuti di paradiso a letto, e il resto del tempo mi trattava malissimo. Era un luchador. Siamo andati tutt’e due a Città del Messico. Ma solo la mia carriera è decollata. Lui è rimasto con la moglie a Ciudad Juárez.” Mi guarda con un’espressione quasi assente, senza emozione. “Sul ring sento tutto l’amore della gente”, dice. “Lì sono io, il campione del mondo, Cassandro”.

“La mia vita è un libro aperto”, continua Armendáriz riponendo i ricordi nella scatola. “Non ho niente da nascondere. Cerco di essere gentile con me stesso, di volermi bene. Faccio lunghi bagni con lavanda e sali di epsom, candele, musica da meditazione. So di essere fortunato”. Ci spostiamo in cucina, dove Armendáriz prepara un caffè. “Sugli omosessuali pesano ancora tanti pregiudizi”, afferma. “Ci considerano prostitute, drogati, seduttori. Ma non siamo tutti uguali. Oggi alcuni di noi sono visti come modelli positivi. Tempo fa un eterosessuale mi ha ringraziato perché lo avevo aiutato ad accettare i gay”.

A un passo dal confine
Quando smetterà di combattere, mi confida, potrebbe anche decidere di avere dei figli. Adora i bambini ed è in sintonia con loro. A un certo punto compare suo padre, Sabas Galindo, con in mano delle enchiladas. Si è risposato e vive lì vicino. È un uomo tarchiato, con il viso paonazzo, occhi umidi e un tono di voce cordiale. Mangiamo, poi faccio due chiacchiere con Galindo in salotto mentre Armendáriz lavora al computer. Sì, è molto orgoglioso del figlio: il primo campionato vinto, i viaggi in Giappone e in Europa. No, lui non è mai stato un appassionato di lucha libre. Gli piacciono il baseball e il pugilato. È vero, lui e Saúl non si sono frequentati per molto tempo. Galindo arrossisce. “È stato difficile per me accettare il fatto che fosse gay”, dice. “Il machismo, sa. È per questo che non ci parlavamo. Ma ora lo accetto, grazie a dio. E parliamo sempre”. Galindo è cresciuto a Ciudad Juárez, ma ora va in Messico solo per le emergenze. È troppo pericoloso. Tutti i suoi cinque figli vivono da questa parte del confine. Dalla finestra possiamo vedere Ciudad Juárez. Quando Galindo si alza per andarsene, lui e il figlio si abbracciano.

La scelta della famiglia Armendáriz dice molto su quale sia la situazione al confine. Nel 2010 a Ciudad Juárez ci sono stati più di tremila omicidi, a El Paso solo cinque. Gli amministratori texani definiscono El Paso la più sicura delle grandi città americane. Secondo alcune stime, centinaia di migliaia di abitanti di Ciudad Juárez – su una popolazione di un milione e mezzo di persone – hanno lasciato la città a causa della violenza. Molti di loro, soprattutto appartenenti al ceto medio e alto, si sono trasferiti a El Paso. Sfruttando le sue conoscenze all’ambasciata statunitense e tra i promoter americani, Armendáriz aiuta i lottatori messicani a ottenere il visto per gli Stati Uniti. Finora ha dato una mano a più di cento luchadores.

Nella lucha libre gli arbitri hanno ruoli complessi. Sono un po’ come il governo messicano, solo più divertenti

Tempo fa mi è capitato di attraversare la frontiera con uno di loro, un rudo chiamato Akantus. Venivamo da Ciudad Juárez. Mi ha detto che a volte le guardie di frontiera gli chiedono di dimostrare che è un vero lottatore – come c’è scritto sui documenti – e per questo lui porta sempre con sé la sua maschera. In un’altra occasione un agente statunitense mi ha chiesto cosa fossi andato a fare in Messico. Quando gli ho risposto che stavo facendo un servizio sulla lucha libre, mi ha chiesto di fargli il nome di un luchador. Gli ho parlato di Cassandro. Lui mi ha lanciato un’occhiataccia: “Perché proprio lui?”. Avrei voluto chiedergli: “E perché no?”. Ma mettermi a discutere con un poliziotto non mi sembrava una buona idea.

A Ciudad Juárez mi ritrovo all’arena Kalaka a studiare i vecchi poster appesi alle pareti. Ci sono nove personaggi mascherati in fila, uno più invasato, feroce e muscoloso dell’altro. E poi, alla fine, il piccolo Cassandro, sorridente e con la testa all’indietro. I suoi denti, tutti finti, risplendono di una brillantezza innaturale. Evidentemente all’arena Kalaka non combattono molti exóticos, o almeno non sono così sorridenti. Chiedo ad Alejandra Carreón, assidua frequentatrice della Kalaka e fan dei rudos, cos’abbiano di così speciale quei cattivi. Alejandra è un’informatica di 28 anni che vive ancora con i genitori. Mi racconta che da bambina andava nell’arena tutte le domeniche, di solito con il fratello minore. I rudos sono divertenti – mi dice – e rispondono alle urla del pubblico. Lei adora urlare, anche se trova il coraggio di farlo solo quando c’è suo fratello. Cassandro è un caso speciale. “La gente qui lo rispetta molto”, mi spiega. “Non ho mai sentito nessuno insultarlo”. Noto che all’interno dei polsi Alejandra ha tatuate le parole inglesi Angels e Heroes. Quello che le piace di più della Kalaka, dice, è l’impressione di “entrare dentro una piccola città nella grande città”.

So che cosa intende quando parla di “una piccola città”. C’è un chioschetto, appoggiato contro una parete sudicia, in cui due ragazze vendono bibite e patatine. La loro specialità si chiama preparada: un sacchetto di patatine Tostitos, aperto da un lato e riempito di avocado, cipolla, pomodoro, formaggio e una bella spruzzata di salsa agrodolce. In cima c’è infilato un cucchiaio di plastica.

In equilibrio sulla corda
Il camerino di Los Angeles si sta riempiendo di lottatori. Cassandro li abbraccia uno per uno. “Adoro abbracciare”, ammette. El Bombero, El Jimador, Niebla Roja, due nani dall’aria truce (Los Minis), un arbitro brizzolato di nome Platanito. Si tolgono gli abiti di tutti i giorni, si spalmano un unguento su collo, spalle e polpacci, e scivolano nei loro costumi attillati. È emozionante vederli mentre indossano le maschere. In un attimo il giovane Sergio di Città del Messico – un ragazzo simpatico e cordiale – si trasforma nel feroce lottatore senza occhi Niebla Roja, nebbia rossa. Niebla Roja è tornato da poco dal Giappone. Lì la lucha libre è molto popolare. Cassandro c’è andato diverse volte in tournée. “Picchiano duro”, spiega Niebla Roja, accarezzandosi gli enormi bicipiti. “Hanno i gomiti pesanti. Ma ti mettono a disposizione una massaggiatrice ogni volta che vuoi”. Si toglie la maschera. Sta cercando di decidere quale delle tre versioni usare questa sera. Il suo match con Cassandro è l’evento più importante della serata. Dividono la stanza d’albergo nel quartiere di Little Tokyo – per l’appunto – a Los Angeles.

Prima, nel pomeriggio, li vedo ispezionare insieme il ring. “Troppo piccolo”, dice Sergio. “E la disposizione del pubblico è strana”. Armendáriz concorda. Ma questo non sarà un normale incontro di lucha libre, con il pubblico seduto intorno ai quattro lati del ring. Il ring è posizionato sul palco di un vecchio teatro, il Mayan: una grande sala da 1.400 posti, tutti esauriti per le due serate di wrestling. Lo show si chiama Lucha VaVoom e prevede anche un numero di burlesque e l’esibizione di un gruppo rock tra un incontro e l’altro. Il pubblico è composto per lo più da hipster di Los Angeles, non da veri appassionati. Niebla Roja non ha mai partecipato a una VaVoom. Cassandro invece sì, molte volte.

Il ring ha anche altri problemi. Armendáriz salta sulla corda superiore. Mentre cammina lungo la corda, Sergio gli tiene la mano. “È troppo morbida”, dice, rimbalzando. “Va bene”, urla un tecnico che sta lavorando sotto la pedana del ring. “Ti piacciono i miei stivaletti da donna?”, mi chiede Armendáriz. Porta un paio di stivali neri con il tacco alto, jeans attillati, una cintura tempestata di strass e una camicia aderente con bottoncini argentati e motivi che ricordano schizzi di lava, abbastanza aperta da mostrare un crocifisso d’argento sul petto abbronzato. È incredibile come riesce a stare in equilibrio su quella corda. “I rudos da quella parte, i técnicos qui”, dice a Sergio, che annuisce. “Oddio, guarda questo paletto”. Un’ispezione sotto al quadrato del ring ha rivelato la rottura del gancio di un cavo fondamentale: “il tenditore”, lo chiama Armendáriz.

Più tardi, prima di entrare in scena, Cassandro avvisa i lottatori di testare le corde appena saliti sul ring e di non fidarsi dei tenditori nell’angolo sospetto. L’atmosfera nei camerini sta diventando frenetica. I lottatori provano insieme mosse e manovre. “Allora, io salto, tu mi colpisci qui, bam, bam, planchasuplex, giro”. In quegli spazi angusti i tag team (coppie di wrestler che combattono in coppia) mimano lunghe sequenze di manovre. È la coreografia preincontro. L’elemento centrale è la sicurezza. Chiedo a Niebla Roja se vincerà lui o Cassandro. Lui scrolla le spalle. “Forse Cassandro lo sa. Io combatterò e basta”.

Comincia il primo match. Domando a una donna tra il pubblico perché sia lì. “Era nella mia lista di cose da fare a Los Angeles”, mi risponde. Si chiama Dhyandra e lavora al museo d’arte della contea. “Ne parlano tutti”. Ha 27 anni e non sa cosa aspettarsi. “Sono qui, come dire, per una serata kitsch”. Due giovani ingegneri,

Brooks e Margarita, le fanno eco. “Mi aspetto di farmi quattro risate”, dice Margarita. Brooks ha appena comprato una maschera azzurra di lucha libre nell’atrio. Pensa di indossarla ad Halloween. Solo pochi, tra gli spettatori, si sono messi una maschera. Due ragazzi, i classici figli di papà, hanno un costume da lucha libre, con tanto di mantello.

I primi match servono a riscaldare il pubblico. Un personaggio chiamato Dirty Sánchez lancia il contenuto del suo pannolone fuori dal ring, provocando il panico tra il pubblico urlante. I Minis sono spudoratamente esilaranti mentre corrono impettiti da una parte all’altra del ring, facendo inciampare i loro ben più imponenti avversari. Il personaggio che mi colpisce di più è Platanito, l’arbitro: è diabolico. All’inizio sembra che voglia imporre l’ordine e tenere a bada i rudos, ma poi, al momento buono, fallisce nel suo intento, mostrando tutta la sua debolezza e la sua disonestà. Nella lucha libre gli arbitri hanno ruoli complessi, legati solo in parte alla direzione dell’incontro. Sono un po’ come il governo messicano, solo più divertenti.

Cassandro fa la sua prima apparizione su un grande schermo, mentre sale con passo lento e solenne le scale che dal seminterrato portano in sala. Indossa una giacca da torero, con un incredibile e lunghissimo strascico di broccato, sopra un costume da bagno femminile aderentissimo e scollato fino alla cintola. Ai piedi porta un paio di stivali bianchi con grandi farfalle di strass ai lati. Mentre gli altoparlanti sparano No te metas con mi cucu (Lascia stare il mio sedere) – una cumbia del gruppo colombiano la Sonora Dinamita – attraversa la platea a passo di danza, andando verso il ring, dove lo aspetta Niebla Roja. Ma dopo essersi tolto giacca e strascico, si ferma nello spazio subito fuori del quadrato, dove si esibisce in alcuni passi dei Menudo, infiammando una platea già piuttosto entusiasta.

Senza smettere di piangere
In realtà l’incontro è un match di coppia, ma i partner di Cassandro e Niebla, forse volutamente, non possono competere con le loro mosse e contromosse così veloci, acrobatiche e rischiose. L’unica cosa da ricordare del partner di Niebla, un flaccido peso massimo che si fa chiamare Dr. Maldad Pepieux, è che Cassandro se lo porta per un po’ in giro sulle spalle – con i suoi 115 chili – solo per mettere in mostra la sua forza. Alla fine Platanito perde il controllo dell’incontro, che scivola prima fuori dal ring e poi fuori dal palco, per proseguire in platea, seguito dai riflettori, mentre il pubblico si sparpaglia e Niebla Roja e Dr. Maldad si abbattono sullo sfortunato partner di Cassandro.

Ma dov’è Cassandro? All’improvviso i riflettori lo inquadrano, in cima a una galleria, che cammina in punta di piedi sul bordo di una ringhiera. Sta pensando di calarsi da lassù, per correre in soccorso del partner? No, sta pensando di tuffarsi. E si tuffa da circa quattro metri e mezzo di altezza. Cassandro piomba sulla mischia alla velocità di Superman, poi scompare di nuovo. Accanto a me, un tizio calvo con una bottiglia di birra a collo lungo si mette a urlare: “Quello è pazzo! Ha più di sessant’anni, e stavolta ha mancato il bersaglio. Di solito si rialza subito in piedi, ma è a terra! Ha mancato il bersaglio!”.

Su una cosa il tizio calvo ha ragione: Cassandro ha mancato il bersaglio. O meglio: a mancare il bersaglio è stato lo staff della sicurezza che avrebbe dovuto attutire la caduta. Uno di loro si è ritrovato sulla traiettoria del volo, e Cassandro si è rotto una costola. Ma quel tuffo era così pericoloso che non poteva certo aspettarsi di cavarsela senza conseguenze.

Più tardi mi dirà solo questo: “Sentivo di dover fare qualcosa di speciale, avevo l’impressione di avere deluso il pubblico. Quel paletto del ring era messo così male che non avevo potuto fare nessuno dei miei soliti salti dalla terza corda, nessuna delle manovre più spettacolari”. A me, in realtà, è sembrato che lui e Niebla Roja abbiano fatto dei voli incredibili.

Alla fine Cassandro si rialza in piedi e, tenendosi un fianco, si dirige barcollando verso il palco, incitato dalla folla. Lui e Niebla salgono sul ring e riprendono lo spettacolo. La squadra di Cassandro vince, e viene giù il teatro. Poi comincia la festa nei camerini. Cassandro non partecipa. Seduto nel suo angolo, respira a fatica: senza smettere di piangere si strucca e si sfila dolorante il costume. Non vuole che chiamino un’ambulanza né del ghiaccio. Certamente non vuole una tequila. Niebla Roja ha un labbro spaccato, sotto l’impacco di ghiaccio. Sta preparando la borsa. “Stessa cosa domani, Cassandro?”, chiede.

Cassandro annuisce in modo distratto, sofferente. Bè, magari senza il tuffo. E poi vuole anche portare Sergio a fare shopping prima dello spettacolo del giorno dopo. C’è un quartiere di negozi persiani di abbigliamento, con una fantastica scelta di tessuti luccicanti ed elasticizzati, perfetti per i costumi della lucha libre. E c’è un quartiere dove si vendono profumi all’ingrosso, a prezzi molto più bassi di qualsiasi altro posto in Messico o a El Paso.

(Traduzione di Diana Corsini)

Questo articolo è stato pubblicato il 29 maggio 2015 nel numero 1104 di Internazionale.

https://www.internazionale.it/notizie/william-finnegan/2023/10/04/cassandro-ha-gettato-la-maschera-2

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