O Mario Draghi ha
perso i suoi superpoteri oppure non li aveva mai avuti, ma l’avevano disegnato
così…
A leggere la tremenda tranvata riservatagli da Milano Finanza non
c’è atto, svolta, “successo”, “invenzione” di SuperMario che non abbia prodotto
disastri. E da un punto di vista esclusivamente capitalistico, sia ben chiaro.
A scrivere è ancora una volta Guido Salerno Aletta, che citiamo spesso
perché non è un “analista da centro studi”, ma l’ex vicesegretario generale di
Palazzo Chigi e tante altre cose; ossia persona che ha visto (e cogestito)
incontri e scontri internazionali, trattative, misurando interessi nazionali
e/o aziendali differenti o addirittura contrapposti. Un “uomo del fare”,
insomma, sul versante istituzionale.
La critica esplicita a Mario Draghi, dopo la sua recente sortita sull’Economist di cui abbiamo già parlato, è insomma la
traduzione quasi “divulgativa” di una insofferenza ormai generale verso un
certo tipo di governance che ha prodotto la situazione
attuale.
È anche, in modo indiretto, un ripudio della stagione neoliberista, della
svalutazione del ruolo dello Stato a totale vantaggio delle imprese (e delle
multinazionali, in specie finanziarie), del “mercantilismo” che ha dominato per
quasi 40 anni in Europa e che ha sagomato – squilibrandoli oltre ogni limite –
i rapporti di forza tra i vari paesi.
Di fatto, dunque, una demolizione del mito “positivo” della stessa Unione
Europea, che di quella stagione è stata l’infrastruttura semi-statuale.
Più che una critica di Draghi, insomma, il certificato di morte per un
ciclo giunto vicino al termine ormai quasi quattro anni fa (con la pandemia a
fare da obbligatorio richiamo in vita della “centralità degli Stati e
dell’interesse pubblico”), ma definitivamente seppellito con l’inizio della
guerra in Ucraina e la prevalenza “istituzionale” assoluta degli interessi
statunitensi su quelli “europei”.
Stati Uniti e Ue, infatti, non si somigliano affatto, al contrario di
quanto dipinge la “narrazione” ultratrentennale che ancora una volta Draghi
ripropone, nel classico schema per cui ad ogni “crisi” dell’Unione si può
rispondere con una maggiore sviluppo-accentramento dei poteri e delle
“sovranità”.
E non si somigliano per ragioni storiche, istituzionali, linguistiche. Gli
“stati” d’oltreoceano hanno competenze limitate, fin dalla fondazione sono
subordinati alla Federazione (per capirlo in modo “popolare” basta guardarsi un
film in cui i poliziotti locali debbono confrontarsi con l’arrivo dei
“federali”).
Sono insomma “regioni”, senza alcuna proiezione “nazionalistica”, se non
nel tifo sportivo o nelle chiacchiere da bar.
In Europa è un’altra storia. I rapporti tra interessi consolidati –
produttivi, di classe, finanziari, ecc – mantengono una loro dimensione
“nazional-statuale” anche quando mascherata da anni di omaggi alla “costruzione
europea”.
Non è un segreto per nessuno, ad esempio, che certe “regole” sono state
adottate soltanto quando disegnate in modo da proteggere e corrispondere ai
prevalenti interessi di Germania e Francia. Anche a costo – o allo scopo – di
invalidare gli interessi di altri paesi membri.
Ma la rottura dell’equilibrio chiamato “globalizzazione” e l’irrompere
della guerra hanno messo in moto forze prima dormienti o imbavagliate a forza.
E dunque…
“Sono appaiate, ancora una volta, Germania e Francia. Se la guerra in
Ucraina ha abbattuto il potenziale strategico della prima, i colpi di Stato
nelle ex-colonie francesi stanno demolendo quello della seconda: il gas russo a
basso costo ha mandato avanti l’economia tedesca come l’uranio nigerino ha
trainato quella francese.
Ma è assai improbabile che, in queste condizioni di comune difficoltà,
Berlino e Parigi deleghino a Bruxelles anche un briciolo di
potere in più: in un’epoca in cui la guerra si è riaffacciata violenta sul
suolo europeo, l’idea kantiana della pace universale raggiungibile mediante
sempre più strette reti di accordi tra Stati torna utopica.
L’Unione serve loro come sede di negoziazione, per combinare i rispettivi
obiettivi: ora, per ottenere quante più deroghe possibili per gli aiuti alle
imprese da una parte, in cambio di concessioni sempre più generose e a lungo
termine a favore dell’energia nucleare dall’altra.
Un’intesa la troveranno anche stavolta, Francia e Germania: hanno entrambe
bisogno di autonomia, di nuove strategie, di spazio. Non hanno alcun interesse
a portarsi dietro il baraccone burocratico di Bruxelles, né le sue millanta
defatiganti trattative: ognun per sé.”
Le alternative, per riprendere il vecchio cammino interrotto
dell’integrazione/centralizzazione nelle istituzioni di Bruxelles, sono al
momento quasi fantascientifiche:
a) fine immediata della guerra, riapertura-ricostruzione dei gasdotti con
Mosca, ripresa del controllo francese-europeo sul Sahel e le sue risorse,
sganciamento forte dall’egemonia finanziario-militare Usa, intensificazione dei
rapporti con la Cina, ecc.
b) vittoria rapida dell’Ucraina e dissoluzione della Russia.
Tante condizioni, insomma, ognuna delle quali è potenzialmente fonte di
conflitti ancora più allargati.
SuperMario, insomma, è stato dipinto come un genio, ma era solo l’uomo giusto
al posto giusto di una certa fase, il “volto pubblico” di interessi più
“riservati” (fin dall’operazione di svendita del patrimonio pubblico italiano imbastita
sul Britannia).
Anche basta, insomma…
* * * *
Draghi sbaglia: Francia e Germania
faranno a meno della Ue
di Guido Salerno Aletta – Milano
Finanza
Forse che sì, forse che no. Nel suo recente intervento pubblicato
sull’Economist online, Mario Draghi ha constatato che le nuove
sfide che l’Europa si trova ad affrontare, per via degli ingenti investimenti
che sono necessari in tempi brevi nei settori della difesa, della transizione
energetica e della digitalizzazione, trovano un duplice limite.
Per un verso, l’Europa non dispone di una strategia federale per
finanziarli; per l’altro, le politiche nazionali non possono essere attivate in
quanto le norme europee in materia di bilancio e di aiuti di Stato limitano
la capacità dei Paesi di agire in modo indipendente.
Ma, invece di concludere che è finalmente arrivato il momento di rimuovere
questi vincoli, dimostratisi non solo assolutamente inutili ma soprattutto
distorsivi e patogeni in quanto hanno colpevolizzato gli Stati focalizzando
l’attenzione sui loro bilanci mentre hanno lasciato sbracare i conti
internazionali, commerciali e finanziari, Draghi si è lasciato andare alla
consueta narrazione: servono nuove regole e più sovranità condivisa.
Potenziare l’Ue
L’Unione europea deve avere maggiori poteri: il richiamo alla recente
legislazione federale statunitense, al Chips Act e all’Inflation
Reduction Act, sarebbe la prova provata della necessità di procedere a
interventi massicci, di respiro continentale: i singoli Stati americani, così
come quelli europei, non hanno né le dimensioni, né le capacità di affrontare
queste sfide.
Invertendo il rapporto tra strumenti e fini, si ripropone il paradigma
secondo cui in Europa le crisi sarebbero benefiche in quanto possono essere
superate solo attraverso un ampliamento dei poteri della Unione europea: ex
malo bonum.
Gli esempi non mancherebbero: nello scorso decennio, la crisi finanziaria
che a partire dal 2010 ne ha colpito i Paesi periferici, Irlanda, Grecia,
Portogallo, Spagna e Italia, avrebbe avuto come positive conseguenze il pieno
controllo sui bilanci pubblici da parte di Bruxelles attraverso il Fiscal
Compact che imponeva il pareggio strutturale e la riduzione al ritmo di 1/20
l’anno del debito eccedente il rapporto del 60% tra debito e pil;
l’accentramento presso la Bce dei poteri di vigilanza
precauzionale sulle banche di rilevanza sistemica; il rafforzamento dei poteri
di coordinamento dell’Eba in materie che venivano prima concordate
a livello internazionale direttamente tra le Banche centrali nazionali, a
Basilea, presso la Bri.
Peccato che una così dura politica fiscale e bancaria, adottata senza
distinzioni di sorta in tutto il Continente, abbia avuto conseguenze
catastrofiche: non solo l’abbattimento della crescita, ma la tendenza alla
deflazione dei prezzi, un pericolo tremendo per le imprese e i debitori, contro
cui dalla presidenza del Board della Bce lo stesso Draghi ha dovuto lottare
strenuamente e senza molto successo, pur portando i tassi dei rifinanziamenti
bancari a zero e addirittura fissandoli a un livello negativo per le detenzioni
eccedenti la riserva obbligatoria, erogando prestiti a lungo termine senza
limiti predeterminati al sistema bancario (Ltro) e attivando per la
prima volta un Qe in euro senza concedersi soste.
I tassi nominali negativi sui titoli pubblici che ne sono conseguiti hanno
devastato i conti di investitori e banche.
Il ruolo dell’Europa
L’abbattimento della domanda aggregata in Europa ha comportato la necessità
di rivolgersi ai mercati esteri: è da allora che la Germania ha puntato sulla
Cina, divenuta il suo primo partner commerciale e industriale.
E a chi altri avrebbero dovuto vendere le imprese italiane, se non
all’estero, dopo la spaventosa recessione determinata dalla ennesima batosta
fiscale decisa dal governo Monti nel 2012, che insieme tagliava strutturalmente
la domanda di importazioni e il costo del lavoro?
Un intero Continente, quello europeo, era stato minato per anni dagli
squilibri dei conti bancari e finanziari verso l’estero, da quelli dell’Irlanda
a quelli della Grecia, a quelli della Spagna, fino all’Italia che ha invece
subìto le conseguenze del ritiro immotivato e spaventoso del credito
internazionale, motivato dalla necessità di coprire le perdite determinate dai
default di altri.
Dopo il biennio di emergenza sanitaria, che è servito a riquotare gli
Stati, per attribuire loro un ruolo pastorale e addirittura oblativo verso il
popolo, la narrazione corrente individua modelli di crescita sostenibili per il
Pianeta deificato, proclamando la necessità della transizione energetica verso
fonti rinnovabili e la sostituzione anche del lavoro intellettuale dell’uomo
con quello delle macchine informatiche: il post-umanesimo e il trans-umanesimo
finalmente convergono.
Ma, pur avendo fatto dell’Europa la terra promessa del sottoproletariato
globale, con salari sempre più miseri e le imprese che non hanno alcun motivo
per investire, si scopre che neppure gli Stati possono sostenere questo
processo: arriverà dunque, salvifica, l’Europa.
L’asse Francia-Germania
Ma un sistema di spese derivate non è attuabile quando la leva della
finanza si è azzerata, vanificando gli strumenti di compensazione dei vantaggi
tra centro e periferia che erano stati elaborati in passato, come i sinking fund: il debito statunitense ha tassi
di interesse pressoché appaiati a quelli italiani, mentre i titoli emessi dalla
Unione europea servono solo a tenere in piedi l’Esm.
Assai più banalmente, si dovrebbe riconoscere che l’impianto europeo è nato
ed è cresciuto finora solo per il convergente interesse di Francia e Germania a
determinare un assetto di potere a loro più conveniente: da Maastricht
all’espansione a nord-est per incorporare i Paesi ex-comunisti fino alle
solitarie passeggiate di Nicolas Sarkozy e Angela
Merkel che a Deauville disegnavano i destini del Continente per
cercare di riparare i pasticci dell’euro.
Sono appaiate, ancora una volta, Germania e Francia. Se la guerra in
Ucraina ha abbattuto il potenziale strategico della prima, i colpi di Stato
nelle ex-colonie francesi stanno demolendo quello della seconda: il gas russo a
basso costo ha mandato avanti l’economia tedesca come l’uranio nigerino ha
trainato quella francese.
Ma è assai improbabile che, in queste condizioni di comune difficoltà,
Berlino e Parigi deleghino a Bruxelles anche un briciolo di
potere in più: in un’epoca in cui la guerra si è riaffacciata violenta sul
suolo europeo, l’idea kantiana della pace universale raggiungibile mediante
sempre più strette reti di accordi tra Stati torna utopica.
L’Unione serve loro come sede di negoziazione, per combinare i rispettivi
obiettivi: ora, per ottenere quante più deroghe possibili per gli aiuti alle
imprese da una parte, in cambio di concessioni sempre più generose e a lungo
termine a favore dell’energia nucleare dall’altra.
Un’intesa la troveranno anche stavolta, Francia e Germania: hanno entrambe
bisogno di autonomia, di nuove strategie, di spazio. Non hanno alcun interesse
a portarsi dietro il baraccone burocratico di Bruxelles, né le sue millanta
defatiganti trattative: ognun per sé.
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