Kosovo attaccabrighe per arrivare a cosa? Tensioni alle stelle - Remocontro
L’esercito illegale del Kosovo travestito da ‘Polizia speciale’ ad
arrestate serbi nel nord dove si è isolata la popolazione di etnia serba che
non è fuggita. Ieri l’arresto di altri due serbi accusati di aver aggredito a
male parole giornalisti kosovari di etnia albanese. Azioni di forza che si
aggiungono ai tre serbi arrestati nei giorni scorsi con l’accusa di coinvolgimento
negli scontri e disordini del 29 maggio scorso a Zvecan, nel nord del Kosovo.
Il ministro
a provocare
Il ministro
dell’interno kosovaro Xhelal Svecla, a cui spetterebbe di garantire
ordine pubblico e convivenza, sulle orme del premier Albin Kurti ha
poi dichiarato, «La Repubblica del Kosovo non si tira indietro
davanti ai criminali fascisti della polizia serba». Chi sa se ancora
una volta le forze internazionali testimoni sul campo, tra Kfor Nato ed Eulex
Ue, faranno ancora una volta finta di non vedere e, soprattutto,
decideranno di ‘non fare’.
Belgrado e i
serbi del Kosovo
Gli ultimi
arresti di serbi sono stati duramente condannati dalla dirigenza di Belgrado e
dal partito Srpska Lista, la maggiore forza politica dei serbi del
Kosovo, accusano il governo di Pristina e il premier Albin
Kurti di voler esasperare la situazione con continue provocazioni, avendo
l’obiettivo finale di provocare un nuovo conflitto armato nella regione. Utile
ricordare che Balgrado ha spostato suoi reparti speciali sul confine a ridosso
dell’area delle tensioni.
Politica di
Pristina stile Kurti
Una
situazione di crescente tensione e contrapposizione che non è un buon
presupposto in vista del nuovo incontro al vertice fra il premier Kurti e
il presidente serbo Aleksandar Vucic, convocato per la prossima
settimana a Bruxelles dall’Alto rappresentante Ue Josep
Borrell. O forse proprio per quello da parte di chi deve affermate di
volere l’accordo per poi non impedirlo.
‘Forze
speciali’ nella zona serba al confine
L’esercito
kosovaro vietato travestito da forza speciale di polizia. Più marines che
sbirri. Un corpo che il governo definisce di ‘polizia speciale’ e ha
schierato nelle cittadine a maggioranza serba nel nord del Kosovo dove si sono
concentrate le tensioni delle ultime settimane, compresa la manifestazione dei
kosovari di etnia serba in cui sono stati feriti i soldati italiani del
contingente NATO in Kosovo.
La ‘strana
polizia’ denuncia Post
«La polizia
speciale è un corpo armato kosovaro albanese dalle caratteristiche piuttosto
peculiari: i suoi membri sono vestiti con equipaggiamento militare, cioè molto
più simile a soldati che a poliziotti, sono persone esclusivamente di etnia
albanese, che in Kosovo è maggioritaria, e alcuni hanno il sospetto che il
Kosovo li utilizzi soprattutto per intimorire e scoraggiare iniziative
pubbliche dei kosovari di etnia serba».
Presidio
albanese armato a Leposavić
La ‘polizia
speciale’ è attiva dal 2021 a Leposavić, uno dei paesi a
maggioranza serba in cui grazie al boicottaggio delle elezioni amministrative
da parte dei kosovari di etnia serba è stato eletto con poche decine di voti un
sindaco di etnia albanese, che il governo centrale ha fatto regolarmente
insediare. Dal 26 maggio la polizia speciale kosovara ha insediato il nuovo
sindaco, Lulzim Hetemi, albanese, aprendo a forza le porte
dell’edificio.
Da allora
Hetemi non ha più lasciato l’edificio, e con lui una scorta di truppe della
polizia speciale.
Serbi
discriminati e minacciati
Gli abitanti
serbi di Leposavić ritengono che la polizia speciale li discrimini
sistematicamente, con posti di blocco e atti di violenza: a gennaio e ad aprile
la polizia speciale ha aperto il fuoco contro kosovari serbi a un posto di
blocco, ferendo alcune persone. «Sta iniziando ad assomigliare a una
presenza permanente. La gente la considera un’occupazione», ha
denunciato a Politico Aleksandar Arsenijević, leader
di Piattaforma Civica.
Versioni
contrapposte
Il governo
centrale del Kosovo, ovviamente, racconta una ‘polizia speciale’ virtuosa
che lavora in contesti difficili, in cui le provocazioni e le violenze dei
kosovari serbi sarebbero frequentissime. Il governo centrale kosovaro per
esempio ritiene Piattaforma Civica un partito che compie anche
attività criminali e che «per anni ha terrorizzato i nostri
cittadini», secondo il ministro dell’Interno kosovaro, Xhelal
Svecla, della cui moderazioni abbia visto all’inizio.
Condanna
occidentale e persino Usa
La condotta
della polizia speciale è stata condannata anche dai paesi occidentali, molti
dei quali alleati del Kosovo (che fin dalla sua nascita ha avuto governi
filo-europeisti e filo-occidentali). Dopo che la polizia speciale aveva fatto
irruzione nei municipi delle cittadine a maggioranza serba per insediare i
sindaci di etnia albanese, il dipartimento di Stato americano aveva diffuso un
duro comunicato per condannare queste operazioni, «compiute contro
il consiglio degli Stati Uniti e degli alleati europei del Kosovo».
Il premier
provocatore
Finora il
primo ministro kosovaro Albin Kurti ha difeso l’operato della polizia speciale,
spiegando che la sua presenza è necessaria per contenere le «gang
criminali serbe che operano in quelle zone», e ha respinto gli inviti
degli alleati occidentali a ritirare la polizia speciale dai paesi a
maggioranza serba nel nord del Kosovo.
Forse il problema Kosovo, a sintesi estrema, si chiama Albin Kurti.
L’ipocrisia delle grandi potenze nel discorso all’ONU di Vucic - Chiara Nalli
“I principi non si
applicano solo ai forti, si applicano a tutti. Se non è così, allora non sono
più principi”.
Il primo estratto del discorso del presidente serbo Vucic davanti
all'Assemblea generale dell'ONU è apparso sulla stampa serba intorno alle 17.00
di giovedì 21 settembre. Il principale quotidiano del Paese ha titolato “Dov'era
il diritto internazionale quando avete attaccato la Serbia?”. E se il
resoconto dei giornali nazionali è stato capace di suscitare un immediato
entusiasmo, l’intero discorso, disponibile qui https://www.youtube.com/watch?v=PXt1bBtHxVI -
in inglese - può essere considerato, a pieno titolo, un intervento di portata
storica. Tanto che la frase citata nel titolo è stata interrotta dagli applausi
della sala.
In un consesso dominato dalle tematiche legate alla guerra in Ucraina, sgranellate
dalla stampa con la consueta superficialità, il presidente serbo è intervenuto
riportando al centro la vicenda del proprio Paese, sotto una duplice
prospettiva: ricordando, da un lato, come le attuali situazioni di conflitto
(con particolare riguardo all’Ucraina) siano in massima parte la conseguenza
della violazione del diritto internazionale da parte delle grandi potenze,
nell’ambito di un processo di espansione strategica avviato proprio con
l’attacco NATO alla Serbia; dall’altro - denunciando l’attuale stato delle
relazioni con il Kosovo, in cui le stesse superpotenze - USA e UE - coinvolte
come meditatori, applicano sistematicamente “doppi standard” - capaci di
portare alla cronicizzazione - o peggio l’inasprimento - del conflitto.
Vucic ha scelto di parlare del proprio Paese, con la consapevolezza della
dimensione universale, profondamente politica e attuale, insita nella sua
storia e nella sua posizione strategica: “Sono davanti a voi come
rappresentante di un Paese libero e indipendente, la Serbia, che si trova nel
percorso di adesione all'Unione europea ma che, al tempo stesso, non è pronto a
voltare le spalle alle sue tradizionali amicizie costruite da secoli (con
la Russia, NDR)”. Significativa in questo senso è anche la scelta dell’inglese,
al fine raggiungere una platea più ampia possibile senza l’intermediazione di
traduttori, come egli stesso ha chiarito nei successivi incontri con i
giornalisti, i quali hanno evidenziato, per l’appunto, come il suo intervento
sia andato oltre l'ambito regionale e non fosse diretto al solo pubblico
locale.
Ancor più in un momento storico in cui il rispetto dei principi del diritto
internazionale, dell’integrità territoriale e della sovranità degli stati viene
sbraitato con foga e tradotto, in pratica, nel sostegno illimitato a uno dei
due belligeranti - diventando la maschera per protrarre una guerra senza fini -
il presidente serbo ha sottolineato l'ipocrisia delle maggiori potenze mondiali
sull’argomento, ricordando l’appoggio - concesso da quasi tutti i paesi del
blocco euro-atlantico, alla dichiarazione unilaterale di indipendenza del
Kosovo, in aperta violazione della Risoluzione 1244 dell’ONU: “Voglio alzare
la voce a nome del mio Paese, ma anche a nome di tutti coloro che oggi, a 78
anni dalla fondazione delle Nazioni Unite, credono veramente che i principi
della Carta delle Nazioni Unite siano l’unica difesa essenziale della pace nel
mondo, del diritto alla libertà e all’indipendenza dei popoli e degli Stati. Ma
anche di più: sono la garanzia della sopravvivenza stessa della civiltà umana.
L'ondata globale di guerre e violenze che colpisce le fondamenta della
sicurezza internazionale è una conseguenza dolorosa dell'abbandono dei principi
delineati nella Carta delle Nazioni Unite […] Il tentativo di smembrare il mio
Paese, formalmente iniziato nel 2008 con la dichiarazione unilaterale di
indipendenza del Kosovo è ancora in corso. Per la precisione, la violazione
della Carta delle Nazioni Unite nel caso della Serbia è stato uno dei
precursori visibili di numerosi problemi che tutti dobbiamo affrontare oggi,
che vanno ben oltre i confini del mio Paese o il quadro della regione da cui
provengo. Più in generale, dall’ultima volta che ci siamo incontrati qui, il
mondo non è né un posto migliore né più sicuro. Al contrario, la pace e la
stabilità globale sono ancora minacciate. […] Onorevoli colleghi, anche se da
tre giorni da questo palco tutti giuriamo di rispettare i principi e le regole
della Carta delle Nazioni Unite, proprio la loro violazione è all'origine della
maggior parte dei problemi nelle relazioni internazionali - mentre
l’implementazione di doppi standard è un aperto invito per tutti quelli che
cercano di affermare i loro interessi con la guerra e la violenza, violando le
norme del diritto internazionale ma anche le fondamenta della moralità umana.”
A questo punto si potrebbe pensare che sul piano diplomatico, il presidente
serbo abbia detto più che abbastanza. E invece no, Vucic si è spinto fino a
nominare ciò che nella situazione attuale è, di fatto, diventato innominabile,
chiamando in causa i diretti responsabili: “Tutti i relatori finora, e credo
tutti dopo di me, hanno parlato della necessità di cambiamenti nel mondo,
menzionando il proprio Paese come esempio di moralità e rispetto della legge.
Oggi non parlerò molto del mio Paese […] Ma parlerò dei principi che sono stati
violati e che ci hanno portato alla situazione odierna, e non dai piccoli
paesi, che spesso sono bersaglio di tali attacchi, ma dai paesi più potenti del
mondo, soprattutto quelli che si sono arrogati il diritto di dare lezioni a
tutto il mondo, esclusivamente dal proprio punto di vista, su politica e
morale.”
E ancora “Qui in questa sala, appena due giorni fa, abbiamo potuto
sentire dal Presidente degli Stati Uniti che il principio più importante nelle
relazioni tra i paesi è il rispetto della loro integrità territoriale e
sovranità - e solo come terzo fattore più importante ha menzionato i diritti
umani. E mi è sembrato che tutti in questa stanza lo sostenessero. Io, come presidente
della Serbia, l'ho accolto con palese entusiasmo. […] Sarebbe tutto bello se
fosse vero. Quasi tutte le principali potenze occidentali hanno brutalmente
violato sia la Carta delle Nazioni Unite sia la Risoluzione ONU 1244, che era
stata adottata in questa Alta Camera, negando e calpestando tutti quei principi
che oggi difendono, e ciò è accaduto ventiquattro anni fa e ancora quindici
anni fa. Per la prima volta, senza precedenti nella storia del mondo, i
diciannove paesi più potenti hanno preso una decisione senza il coinvolgimento
del Consiglio di Sicurezza dell’ONU - lo ripeto, senza alcuna decisione del
Consiglio di Sicurezza dell’ONU – di attaccare brutalmente e punire un Paese
sovrano sul suolo europeo - come ebbero a dire - “per impedire il disastro
umanitario” […]. E quando ebbero finito con questo lavoro, dissero che la
situazione del Kosovo era un fatto di democrazia e che sarebbe stata risolta in
base alla Carta della Nazioni Unite e al diritto internazionale. E poi,
contraddicendo tutto questo e soprattutto contrariamente al diritto
internazionale, nel 2008 hanno deciso di supportare l’indipendenza del Kosovo.
La decisione illegale di secessione della provincia autonoma di Kosovo e
Metohija dalla Serbia è stata presa dieci anni dopo la fine della guerra, senza
un referendum o qualsiasi altra forma di consultazione democratica affinché i
cittadini in Serbia o almeno nel Kosovo stesso, potessero dichiarare le loro
intenzioni. Questa decisione è stata presa in un momento in cui la Serbia aveva
un governo impegnato nell’integrazione europea ed euroatlantica […]. Tutto
questo non ha impedito che la violenza politica e legale arrivasse proprio da
coloro che oggi sono in prima fila nell’impartirci lezioni […]. La cosa
peggiore è che tutti coloro che hanno contribuito all’aggressione contro la
Serbia oggi ci danno lezioni sull’integrità territoriale dell’Ucraina. Come se
non la supportassimo. Noi la supportiamo e continueremo a farlo perché noi non
cambiamo le nostre politiche e i nostri principi, non ostante la nostra
centenaria amicizia con la Federazione Russa. […] Sono il presidente della
Serbia, al mio secondo mandato; in innumerevoli occasioni ho subito pressioni
politiche, sono un veterano politico. Ciò che vi dico oggi è la cosa più
importante per me: i principi non cambiano in base alle circostanze. I principi
non si applicano solo ai forti, si applicano a tutti. Se non è così, non sono
più principi”. […] Un’altra cosa importante è che la pace è diventata una
parola proibita. Tutti loro (NDR, le grandi potenze) hanno i
loro preferiti e i loro colpevoli. I soli valori che rimangono alle grandi
potenze sono proprio i principi. Ma sono principi falsi: li invocheranno solo
fin quando gli staranno bene.”
Le parole di Vucic sono sassate…
Il Kosovo, frutto avvelenato Usa – Massimo Fini
Nei giorni scorsi una formazione di serbo-kosovari, definiti “criminali” dal Corriere, mentre sono degli indipendentisti come lo erano i russofoni del Donbass, ha teso un’imboscata ad agenti dell’esercito “regolare” del Kosovo.
Risultato:
un agente morto, sette assalitori uccisi nonostante si fossero rifugiati in una
chiesa ortodossa e quindi non rispettando nemmeno il secolare “diritto
d’asilo”.
La notizia è
passata quasi inosservata sulle pagine degli esteri dei nostri giornali, tutti
impegnati a esaltare l’Ucraina del buffone Zelensky ai danni della Russia
secondo diktat Usa. Non c’è articolo che cominci, o non dia
per presupposto, che “c’è un aggressore e un aggredito”, d’accordo ma c’era un
aggressore anche nel 1999 proprio nei confronti della Serbia (Nato, cioè
americani), c’era un aggressore, sempre Nato con i suoi satelliti, anche nel
2003 in l’Iraq, c’era un aggressore, anzi più aggressori, americani, francesi e
italiani, nel 2011 quando fu invasa la Libia e ucciso Muammar Gheddafi nel modo
barbaro che conosciamo, ma in questi casi non si è mai fatta la distinzione fra
“aggressore e aggredito” trovando per queste aggressioni motivazioni farsa e
nomignoli grotteschi come “operazione di peacekeeping”, “operazione
di polizia internazionale” (e per pietas nei confronti del
lettore lascio perdere tutta la vicenda afghano-talebana).
La questione
del Kosovo ha origine nelle guerre balcaniche fra croati, serbi e musulmani.
Queste guerre avevano a loro volta alle spalle la disgregazione della
Jugoslavia. Nel 1991 la Slovenia dichiarò la propria indipendenza dalla
Jugoslavia di Tito senza colpo ferire, sempre nel 1991 la Croazia, cattolica,
chiese e ottenne dall’Onu l’indipendenza con l’appoggio della Germania e del
Papa, il cosiddetto “santo padre”. Allora anche i serbi di Bosnia chiesero
quello che avevano ottenuto Slovenia e Croazia, l’indipendenza o la riunione
con la madrepatria serba. Ma gli venne negata. Quella guerra i serbi l’avevano
vinta, perché a sentire gli addetti ai lavori, sono i migliori combattenti sul
terreno. Ma intervennero gli americani che decisero di creare uno Stato
inesistente, la Bosnia, che nella Jugoslavia era solo una regione, e
trasformarono i vincitori in vinti. I serbi di Bosnia, oltre a quelle già
accennate, avevano delle buone ragioni dalla loro parte: è ovvio che una Bosnia
multietnica era concepibile solo all’interno di una Jugoslavia multietnica, una
Bosnia multietnica a guida musulmana, integralista, era proprio una cosa che
non si poteva vedere. L’accordo di Dayton del 1995, firmato da tutte le parti
in causa e in più dagli Stati Uniti e dalla Germania che non si capisce che
cazzo c’entrassero, mise fine alle guerre balcaniche. Fu firmato anche,
ovviamente, da Slobodan Milosevic che in seguito sarà mandato davanti al
cosiddetto Tribunale Internazionale dell’Aja per “crimini di guerra”, il solito
tribunale dei vincitori, e morirà in carcere per un infarto molto sospetto,
diciamo un infarto alla Putin.
Non contenti
di aver umiliato la Serbia in tutti i modi, gli americani l’aggredirono, contro
la volontà dell’Onu, nel 1999, col pretesto del Kosovo. In Kosovo, terra serba
da sempre, anzi “la culla della nazione serba”, i musulmani erano diventati
maggioranza e chiedevano l’indipendenza e come in tutte le guerre partigiane
facevano largo uso, legittimamente a mio vedere, del terrorismo, la Serbia
rispondeva con l’esercito e gruppi paramilitari, le famose “tigri di Arkan”.
Era una questione interna allo Stato serbo. Ma intervennero gli americani che
decisero che i serbi avevano torto. Nei primi mesi del 1999, a Rambouillet fu
proposto alla Serbia un trattato di pace assolutamente inaccettabile: la Serbia
avrebbe dovuto rinunciare non solo a ogni diritto sul Kosovo ma alla sua stessa
sovranità. E fu la guerra. Per 72 giorni gli americani bombardarono una grande
e colta (Kusturica, Bregovic) capitale europea come Belgrado (poi non ci si può
lamentare se in una situazione quasi speculare Putin bombarda Kiev). Risultato:
5.500 morti civili (l’esercito serbo, privo di contraerea, non aveva potuto
rispondere) fra cui 500 albanesi, proprio quelli che si pretendeva di
proteggere. E sotto questi bombardamenti ci furono gli eccidi che furono
addebitati all’esercito serbo. In realtà ce ne fu solo uno, a Racak (45 vittime
civili), ma la Cnn, seguita caninamente dalle tv italiane, lo ripresentava ogni
sera, ma visto da prospettive diverse per aumentarne l’impatto sull’opinione
pubblica.
L’indipendenza
del Kosovo è ratificata da 101 Stati su 193. La questione è quindi ancora aperta.
È bene ricordare che il diritto su un Paese non appartiene all’etnia che in
quel momento ha la maggioranza, appartiene a chi quel Paese ha contribuito a
formare, lavorandoci sopra, altrimenti il Piemonte, qualora vi si imponesse una
maggioranza di immigrati musulmani, dovrebbe essere tolto all’Italia e dato a
questi ultimi.
Nel
frattempo dei 300 mila serbi che abitavano in Kosovo ne sono rimasti 100 mila.
La più grande “pulizia etnica” dei Balcani, dopo quella dal premier croato
Tudjman che in un sol giorno cacciò 800 mila serbi dalle krajine. E
questa volta complice è la Kfor, cioè le forze Nato che presidiano il Kosovo e
nella Kfor sono presenti anche gli italiani con 850 soldati.
L’Europa
intera dimentica di avere un grande debito di riconoscenza con i serbi. Fu la
resistenza serba, durata tre settimane, a ritardare l’aggressione nazista alla
Russia, tre settimane che furono fatali a Hitler perché la Wehrmacht si
trovò impantanata, come le armate di Napoleone, nell’inverno russo.
Particolarmente
stolida è l’ostilità dell’Italia verso la Serbia. Noi italiani non abbiamo mai
avuto contenziosi con la Serbia, li abbiamo avuti con i croati che verso la
fine della Seconda guerra mondiale “infoibarono” i nostri militari e
soprattutto civili. Nei primi anni del Novecento in Serbia si guardava alla
monarchia italiana come a un esempio e si pubblicava un quotidiano
intitolato Piemonte.
Gli scontri
di cui abbiamo parlato all’inizio sono solo l’antipasto di ciò che verrà. Il
sentimento generale serbo è quello espresso dal tennista Nole Djokovic: “Il
Kosovo è serbo e sarà sempre serbo”. In attesa che si sveglino anche i serbi di
Bosnia.
Ps. Una cosa intollerabile fu la
scomunica della squadra jugoslava dagli Europei di Svezia del 1992. Quella
squadra era formata, fra gli altri, da Stojkovic, serbo, Savicevic,
montenegrino, Prosinecki, croato, Jugovic, serbo, Boban, croato, Mihajilovic,
serbo, e dal basilare Bazdarevic, bosniaco, regista che calmava i bollori di
una squadra dove tutti, anche i terzini, erano votati all’attacco. Quella
squadra aveva vinto tutte le partite delle qualificazioni, tranne una
pareggiata. I ragazzi erano già in Svezia e per imposizione della Fifa e
dell’Uefa furono cacciati a pedate. Un’ignominia calcistica che fa quasi paro
con quelle, non sportive, di cui abbiamo parlato.
Kosovo, il diritto a geometria variabile, e fu il disordine mondiale - Massimo
Nava
Il Kosovo, teatro in queste ore di violenze e rivalse, è il punto focale di
un dramma, cominciato negli anni Novanta, in cui diritti e aspirazioni di
popoli e minoranze hanno continuato a confliggere con la sovranità degli Stati
e con interessi geopolitici di Grandi Potenze e Potenze regionali, scrive il
Corriere della Sera.
Il diritto internazionale fatto a pezzi o invocato a geometria variabile. Un
quadro in cui l’Europa ha recitato più spesso la parte della spettatrice o
della vittima (in termini di prezzi economici e sociali pagati) che dell’attore
politico, il rimprovero di un severissimo Massimo Nava.
«Decisamente paradossale che un fazzoletto di terra, fino a pochi anni fa
ignoto a molti, sia all’origine di tanti conflitti e tensioni internazionali».
Causa-effetto
Naturalmente,
il rapporto di causa ed effetto è più complesso, ma è un fatto che il diritto
internazionale fatto a pezzi o invocato a geometria variabile abbia provocato,
negli ultimi decenni, instabilità, conflitti e situazioni sociali ed economiche
diametralmente opposte a quelle auspicate: lacerazione di confini, pulizia
etnica, ondate migratorie, scontri religiosi sono diventati i tragici titoli
della nostra storia recente. Le strategie che Europa e Stati Uniti hanno
portato avanti dal 1991 nella ex Jugoslavia dovevano segnare la nuova era dei
diritti dei popoli, prevalenti sui confini degli stati e sul dispotismo dei
dittatori.
Separatismi,
e bramosie sulla Jugoslavia
Il rapido
riconoscimento da parte dei Paesi europei (Germania in testa)
dell’indipendenza di Croazia e Bosnia, gli accordi
di Dayton per l’unità della Bosnia dopo i massacri e il bombardamento della Serbia per
sostenere le aspirazioni separatiste della minoranza albanese del Kosovo,
minacciata da Belgrado, avevano affermato nella coscienza internazionale alcune
regole non scritte e non universalmente riconosciute, compreso l’eliminazione
violenta dei dittatori (Gheddafi, Saddam Hussein) o la loro
incriminazione nei tribunali internazionali (ieri Milosevic, domani, forse
Putin).
Autodeterminazione
per tutti o a concessione. E di chi?
Ma la
nobiltà morale delle regole (in primis, il diritto dei popoli
all’autodeterminazione) non ha tenuto conto dei modi e dei prezzi che si
dovevano pagare per affermarle. Anziché una nuova era, si sono innescate
instabilità e rivalse. Anziché un nuovo quadro di principii, applicabile ad
altri focolai di conflitto nel mondo, dalla Cecenia al Medio Oriente,
dall’Ucraina a Taiwan, si è alimentato il disordine internazionale.
‘Geometrie variabili’
I Balcani,
in particolare, sono rimasti in balia di strategie contraddittorie e
intercambiabili. I musulmani alla mercé dei serbi a Sarajevo e armati contro i
serbi in Kosovo. Milosevic, la soluzione per la stabilità (con gli accordi di
Dayton) e poi il problema da eliminare. L’unità e l’integrità dello Stato,
rispettate per la Bosnia, non riconosciute alla Serbia, costretta
all’amputazione del Kosovo.
Balcani
sulla giostra Ue ad avallo Nato
A questi
sviluppi, si è sovrapposta la marcia a zig zag per l’adesione all’Europa, con
le porte aperte a Slovenia e Croazia e
l’anticamera per la Serbia, il cui calendario è oggi condizionato
dalle ambizioni di Ucraina e Moldavia. Migliaia di
soldati dell’Onu, miliardi di dollari e complicati artifici politici hanno
soltanto sopito l’odio etnico e religioso in cui è cresciuta un’intera
generazione. L’esito più perverso è la Serbia: l’unica nazione rimasta
multietnica, nonostante Milosevic, si scopre più nazionalista e ortodossa senza
Milosevic ed essa stessa vittima, in Kosovo, di pulizia etnica. Il meno che si
possa fare è però ripensare in fretta una strategia coerente per tutta la
regione, che affermi i diritti di tutti i popoli e la possibilità d’immaginarsi
europei, senza più pagelle di affidabilità e sostegni di convenienza.
Occidente
Usa-Ue, sleale e traditore
Uno
spiraglio si era aperto nei mesi scorsi durante il vertice europeo di Tirana,
in presenza di tutti i protagonisti, compresi i nemici di ieri e di oggi. Come
rilevava per l’occasione Le Monde, «dopo l’invasione russa
dell’Ucraina, l’Ue ha cambiato tono nei confronti di questa regione». Se
da un lato l’Ue è mobilitata per aiutare l’Ucraina, dall’altro è evidente il
desiderio di mantenere la stabilità in una regione su cui incombono ombre russe
e cinesi, in particolare a Belgrado. La Serbia continua a mantenere relazioni
commerciali con Mosca ed è anche un hub interessante per aggirare le sanzioni.
Il problema
Serbia-Kosovo
«I Balcani
si sono sentiti traditi, bloccati nell’anticamera del club europeo che ha
accettato la candidatura di Ucraina e Moldavia». In realtà sono state mobilitate
risorse europee per sostenere lo sviluppo di questi Paesi, ma miliardi di euro
non sembrano sufficienti a calmare gli animi. Negli ultimi due anni, il Montenegro,
l’Albania e la Macedonia settentrionale hanno
visto convalidato il loro status di candidati all’Ue e sono iniziati i primi
colloqui. A novembre, la Commissione ha proposto che anche la Bosnia-Erzegovina si
qualifichi per lo status di candidato. Ma il nodo cruciale resta la Serbia,
fino a quando non sarà raggiunto un definitivo accordo politico con il Kosovo,
peraltro non ancora riconosciuto da cinque Stati membri dell’Unione Europea,
fra i quali la Spagna, per evidenti ragioni di politica interna, date le
tensioni in Catalogna.
Vuoto
occidentale a perdere
Logico
che Russia e Cina, alleati della Serbia e
interessati al futuro dei Balcani, prendano spesso le difese di Belgrado. La
questione del Kosovo è così diventata anche l’alibi per la politica di Putin,
prima in Crimea e poi nel Donbass. Belgrado coltiva aspirazioni di integrazione
europea, ma non può abbandonare le minoranze serbe. L’adesione all’Ue
aiuterebbe a consolidare le istituzioni democratiche, a proteggere i diritti
fondamentali e a far progredire lo Stato di diritto in tutta la regione
balcanica. Ma la guerra in Ucraina ha sconvolto disegni e priorità. E Putin
soffia sul fuoco.
Le
coincidenze della storia
Per quanti
si appassionano a questa storia complicata, si noti una coincidenza in queste
ore di violenze: il processo cominciato all’Aja contro l’ex presidente e leader
della guerriglia kosovara, Hashim Thaçi. Eroe della resistenza
contro i serbi e dei diritti delle minoranze, sostenuto dagli Stati Uniti,
considerato a suo tempo il «George Washington dei Balcani»,
amico personale dell’ex ministro francese Bernard Kouchner, è ora
incriminato per crimini di guerra e crimini contro l’umanità perpetrati contro
le forze serbe.
Un caso emblematico, a dimostrazione che la storia nei Balcani è davvero
ciclica e talvolta diventa un tragico gioco dell’oca.
Cosa ci fanno i militari italiani in Kosovo 24 anni dopo le bombe Nato - Ennio
Remondino
Breve storia della ‘Kosovo Force’ Nato che fece il suo ingresso nel paese
come ‘forza militare di pace’ dopo averlo ‘liberato’ dalle truppe jugoslave di
casa sommerse di bombe, nel 1999. Con simpatie diversificate per etnia e
precedente bersaglio. ‘Kfor’ la sigla meno direttamente Nato alla conversione
in forza di pace, o meglio, di interposizione tra odi e tensione che 24 anni
dopo non sembrano affatto superati.
Odio etnico
e provocazioni
«Ieri alcuni
soldati italiani e ungheresi che fanno parte di un contingente NATO chiamato
KFOR sono stati feriti durante una manifestazione di protesta a Zvecan, in
Kosovo. L’operazione KFOR è attiva in Kosovo dal 12 giugno del 1999, iniziò
dopo la conclusione dell’azione militare della NATO contro la Repubblica
Federale di Jugoslavia di Slobodan Milošević», la sintesi asettica da agenzia che
riposta il Post. Per memoria meno ‘neutrale’, quei tre mesi di bombardamento
nel cuore dell’Europa, definiti anche ‘interferenza umanitaria’, furono la
prima vera e massiccia ‘guerra calda’ dopo decenni di ‘Guerra fredda’,
preceduta solo da alcune incursioni aeree Usa su Sarajevo nel 1995 per imporre
l’armistizio di Dayton.
Sempre nel
racconto semi scolastico
Il Kosovo si
trova tra Serbia, Montenegro, Albania e Macedonia ed è grande un po’ più
dell’Abruzzo. È il paese più giovane d’Europa e le sei stelle che si vedono
sulla sua bandiera rappresentano i sei gruppi etnici che lo abitano: gli albanesi, che
sono più del 90 per cento della popolazione, e poi i serbi, i turchi, i gorani, i rom e
i bosniaci musulmani. Gli scontri da allora a oggi, il reale
esercizio del comando tra la maggioranza albanese che ha il numero e la forza,
e la ex forza politica slava del vecchio potere jugoslavo, con le
ritorsioni nel quotidiano. Nel 1999 l’intervento militare della NATO in Kosovo
venne giustificato con rilevanti forzature informative, per porre fine alla
campagna di oppressione, pulizia etnica e violenze portata avanti dai serbi
contro la popolazione di origine albanese. 24 anni dopo la situazione risulta
semplicemente rovesciata senza sostanziali progressi verso il superamento del
passato. Ma anche senza sensibilizzazione stampa.
Da
terroristi a patrioti
A partire
dal 1996 il movimento armato militare di separatisti albanesi UçK (Ushtria
çlirimtare e Kosoves),sino ad allora per la Nato e gli Usa compreso tra le
‘organizzazioni terroristiche’, vienne riqualificato come movimento
patriottico e sostenuto in maniera più o meno aperta soprattutto da parte
statunitense, protagonista di una serie di azioni di guerriglia, arrivando anche
a controllare intere zone del territorio kosovaro. Il 28 febbraio del 1998
l’UçK uccise alcuni ufficiali della polizia serba causando la ritorsione della
polizia di Milošević, che lanciò un’offensiva con mezzi pesanti contro numerosi
villaggi della Drenica, al centro del paese. Altri scontri armati con decine di
vittime a Racak. Forzature e inganni delle parti in guerra con complicità
giornalistiche, hanno via via favorito la disponibilità dell’opinione pubblica
occidentale e italiana a condividere o a non opporsi quella che è stata la
prima vera guerra in casa europea dopo quella mondiale.
Il 24 marzo
1999 le bombe Nato sulla Jugoslavia
il 23 marzo
del 1999 il Segretario Generale della NATO Javier Solana diede inizio alle
operazioni militari contro la Serbia, senza alcun mandato del Consiglio di
Sicurezza dell’ONU. Le ragioni umanitarie dell’intervento furono più volte
ribadite sia dalla NATO che dai governi degli stati membri, e contestate da
molti altri. Di fatto, la notte del 24 su Belgrado suonarono nuovamente le
sirene di attacco aereo dopo quelle per le bombe dei nazisti nel 1944. L’allora
presidente del Consiglio italiano, Massimo D’Alema, alla Camera dei deputati:
«Il mio giudizio è che l’intervento militare si è reso necessario e
inevitabile», disse.
E diede
l’autorizzazione all’uso dello spazio aereo italiano per le missioni della NATO
mettendo a disposizione, per il conflitto, aerei militari e 19 basi che furono
usate per far decollare gli aerei, per la logistica, per la copertura radar
oppure per le informazioni meteorologiche. Gli aerei militari parteciparono
direttamente ai bombardamenti.
Nato a
comando Usa diventa d’attacco
Il ruolo
della NATO in un conflitto esterno ai confini dell’alleanza fu dibattuto allora
e dopo: chi lo ritenne fondamentale per difendere la popolazione kosovara e per
destituire Milošević, e chi lo giudicò una forzatura unilaterale e responsabile
di una escalation nelle violenze, oltre che causa di estese perdite civili tra
la popolazione serba. Molto discusso fu anche il ruolo del cosiddetto ‘fattore
CNN’, cioè il peso che ebbero i media nel giustificare e rendere legittimo
l’intervento militare (rinvio all’archivio di Remocontro sulla strage di
Racak e ai Lazzaro che camminano). Con l’intervento in Kosovo la NATO fondò
la sua nuova strategia che stiamo vivendo oggi nella crisi Ucraina:
trasformazione dell’alleanza da difensiva a organizzazione politica armata
operativa anche su territori esterni a quelli dei Paesi dell’organizzazione.
Quei tre
mesi di bombe
L’operazione Allied
Force della NATO cominciò la sera del 24 marzo: 80 aerei appartenenti
a Canada, Francia, Gran Bretagna, Paesi Bassi, Spagna, Germania, Stati
Uniti, Italia, e poi le navi da guerra statunitensi e britanniche
nell’Adriatico iniziarono i bombardamenti e i lanci di missili contro la
Serbia. In una prima fase vennero attaccati i radar e le installazioni per la
difesa aerea a nord di Pristina e intorno a Belgrado. La seconda fase del
conflitto iniziò il 27 marzo ed era diretta alla distruzione delle forze armate
serbe. Il 23 aprile gli alleati NATO riuniti a Washington decisero di
intensificare gli attacchi. Ebbe così inizio la terza e conclusiva fase della
guerra.
Le bombe nel
cuore del Paese
I
bombardamenti furono diretti anche verso obiettivi non strettamente militari
come centrali elettriche, ponti, acquedotti, depositi di carburante, radio e
televisioni (il missile mirato sulla Tv di Belgrado che uccise 16 tecnici ed
operai estranei a qualsiasi propaganda di regime). I ‘danni collaterali’ di
queste terza fase furono parecchi: l’8 maggio, ‘per un errore
nell’individuazione del bersaglio’, -ci viene raccontato-, venne colpita ad
esempio l’ambasciata cinese a Belgrado (ricostruzione diversa sempre su
Remocontro). Vi furono morti, feriti e forti polemiche nei confronti
dell’inadeguatezza del sistema di intelligence statunitense. Alla fine di
maggio ci furono quasi ottocento attacchi aerei. Di fronte all’aumento dei
bombardamenti e alla disponibilità offerta da tutti i paesi NATO di concedere
nuove basi all’esercito USA, Milosevic accettò la resa. Il 9 giugno venne
sottoscritto un accordo con le Nazioni Unite. Il segretario della NATO Solana
ordinò la sospensione degli attacchi e la conclusione ufficiale dell’operazione
Allied force.
Gli accordi
prevedevano il ritiro delle forze serbe dal Kosovo, l’inizio di una missione
dell’ONU per l’amministrazione provvisoria della provincia serba con il compito
di ristabilire ordine e pace, e l’ingresso a sostegno della missione di una
forza militare di pace guidata dalla NATO, la Kosovo Force (KFOR).
KFOR di
occupazione
Il
contingente iniziale di KFOR era formato da sei brigate di fanteria, due a
guida britannica, e una ciascuna da Stati Uniti, Francia, Germania e Italia. Il
paese venne diviso in cinque diverse zone, ognuna affidata a uno Stato.
Parallelamente all’istituzione di KFOR, il Kosovo nel 1999 passò sotto il
protettorato internazionale delle Nazioni Unite, che finalmente deliberarono (risoluzione
1244) a guerra fatta. Nel tempo le forze NATO presenti in Kosovo sono state
riorganizzate, sono stati costituiti nuovi gruppi e avviate nuove realtà
operative. Nel periodo di massima partecipazione, il numero delle truppe KFOR
ha raggiunto 50mila soldati provenienti da 39 paesi, mentre oggi in Kosovo sono
presenti 27 paesi con circa 3.800 militari.
Indipendenza
all’americana
Dopo essere
stato amministrato per quasi dieci anni da un protettorato internazionale delle
Nazioni Unite, nel 2008 il Kosovo ha dichiarato unilateralmente la propria
indipendenza. Nei mesi successivi i paesi della NATO decisero di proseguire la
missione, in accordo con le autorità del nuovo Stato e in collaborazione con le
Nazioni Unite. L’indipendenza del Kosovo non è però riconosciuta dalle
istituzioni serbe (da poco meno della metà dei Paesi Onu e non da tutti i
Paesi della Stessa Ue) e tra i due paesi continuano a esserci tensioni ed
episodi di violenza, come le proteste in cui sono stati feriti i militari della
NATO. Le zone più a rischio sono quelle del nord, a maggioranza serba e non
albanese.
Ora la Nato
a difendere i serbi
Oggi,
secondo il Netherlands Institute of International Relations Clingendael che
si occupa di relazioni internazionali, sulla presenza della NATO in Kosovo
fanno affidamento soprattutto i cittadini serbi: vedono infatti nel KFOR il
principale garante della loro protezione, in particolare dopo che nel 2018 il
parlamento del Kosovo, in aperta violazione degli accordi di pace e delle
disposizioni Onu, approvò una legge che conferiva un mandato militare alle
forze di sicurezza del Kosovo (KSF). Dalle armi leggere per operazioni di
polizia e protezione civile a un vero esercito con arruolamenti esclusivi da
parte albanese.
Nazionalismi marcati e contrapposti al culmine da un anno con la elezione a
premier di Albin Kurti, noto anche e livello internazionale per la sua
vocazione politica alla provocazione. Qualcuno di Remocontro, cercando in quel
lontano passato, potrebbe trovare ancora significative interviste dell’allora
giovane personaggio.
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