venerdì 27 ottobre 2023

“Racconti insoliti” - David Albahari

La neve

Sta nevicando. È aprile, e nevica. I fiocchi di neve sono grandi e si sciolgono con un fremito, come se fossero vivi. Qualcuno sostiene che la bellezza del tempo risieda nella sua imprevedibilità. Intende, naturalmente aggiungendo, il tempo meteorologico, perché l’altro è prevedibile e non potrebbe esserlo di più. Segue una marea di proteste, una discussione alla quale tutti partecipano. Gli occhi si allargano, le guance si gonfiano, le labbra a volte si ricoprono di bolle di saliva. Le sedie scricchiolano, le suole sfregano contro il pavimento, le mani svolazzano nell’aria, le fronti si accigliano. E poi, quando l’orologio da parete suona sei volte, tutti tacciono. La neve sta ancora cadendo.

Il lettore

Il lettore che si perde in un punto del libro e si ritrova in un altro, ma completamente cambiato. Si guarda a lungo nello specchietto, si tocca i baffi che prima non aveva, si accarezza i capelli lunghi fino alle spalle. Va bene, sta bene così, fuori dal libro. Il libro è sul tavolo, è aperto. Un uomo si avvicina e lo chiude. Quando si guarda di nuovo allo specchio, il lettore in esso non vede niente.

Un gatto

Un uomo è sceso in cortile a gettare la spazzatura e vicino all’ultimo gradino vede un gatto morto. È sdraiato su un fianco, le gambe rigide e gli occhi spalancati. L’uomo posa il  secchio e rientra nell’appartamento a prendere un vecchio giornale. Quando torna con il giornale in mano, il gatto non c’è più. L’uomo getta uno sguardo all’indietro, strizza gli occhi, si accovaccia e si alza di nuovo. Poi vede il titolo “Cinquantatreesimo giorno di bombardamenti”, si agita e inizia a leggere.

Il monte

Da dove ci troviamo, in cima, possiamo vedere un uomo a piè del monte, sul sentiero. Ci abbiamo messo due ore per salire in vetta perché a Nela la gamba fa un po’ male e Vesna è sempre stanca, ma quell’uomo certamente non ha bisogno di così tanto tempo. Stendiamo una tovaglia di plastica sull’erba, tiriamo fuori panini e mele dagli zaini. Beviamo succo di mirtillo. Quando appare, l’uomo è più vecchio di quanto immaginassimo. Ma non ha il fiato corto.

La nave

L’estate passa in fretta. Non ci siamo nemmeno abbronzati ed è già tempo di jeans e magliette con le maniche lunghe. Sono seduto sulla roccia, porto un filo d’erba alla bocca e lo addento. L’amarezza mi pizzica la bocca. Il mare è calmo, silenzioso. Quando chiudo gli occhi, vedo una nave.

Walser

Robert Walser pensa che parlare sia faticoso, dico. Nessuna conversazione mi ha mai stancato, dice mia moglie, e ripete: mai. Il valore delle parole, leggo, la determinazione del loro effetto, sarà dimenticato da chi parla piuttosto che da chi è taciturno. Mia moglie si raddrizza all’improvviso,: stai dicendo che, quando parlo, spreco solo parole? Non è la mia opinione, rispondo, ma quella di Walser, non ho detto niente. Quando parli, continua mia moglie, poi le tue parole sono mielate come quel silenzio, e quando parlo io è un battito di ali nel vuoto, ecco cosa viene fuori, no? Meravigliosa è la libertà spirituale del solitario, dico, è di nuovo di Walser. Bene, ribatte mia moglie, allora che Walser ti prepari una cena solitaria. Più tardi, in cucina, mangiando pane spalmato con un sottile strato di margarina, comincio a capire il peso della tentazione solitaria.

Il cielo

Quando Jakov Baruh morì, il cielo si mosse. Era notte, e a un certo punto la disposizione delle costellazioni cambiò, come se il cielo sopra di noi fosse un’enorme proiezione che qualcuno, chissà come, avesse sostituito con un’altra. Anche il sarto ha detto di averlo visto, e che poi, nella vetrina del suo negozio, una candela decorativa si sia accesa da sola. Subito dopo, quando il cielo si mosse, il fabbro sentì suonare la sua incudine anche se non c’era nessuno nell’officina. Il postino si svegliò improvvisamente dal suo sogno e vide che le sue dita erano macchiate di ceralacca. Al capezzale, perché solo allora era andato a riposare, il poeta trovò un foglio con una poesia scritta da una mano sconosciuta. Soltanto Matilda, la vedova di Jakov, non si era accorta di nulla. Si svegliò solo quando i raggi del sole penetrarono dalla finestra, sentì il freddo della mano di Jakov e seppe, ancor prima di vedere la sua bocca aperta, che Jakov era morto. Le bastava. Lei comunque non sapeva niente del paradiso.

Una storia non scritta

Di tutte le storie che non ho scritto, ricordo quella in cui un ragazzo e una ragazza sono seduti su una panchina del parco, si tengono per mano e tacciono. Nient’altro è successo in quella storia; tutto era in perfetto silenzio. Il mio sforzo di scrittore avrebbe dovuto concentrarsi sulla descrizione di quella perfezione, anzi, sulla perfetta descrizione della perfezione, perché nessun’altra ne sarebbe degna. Il silenzio conteneva tutto, sia il loro passato che il loro futuro, i giorni trascorsi nella penuria, i giorni di abbondanza, il calore del cuscino condiviso, il parto difficile, la separazione e l’incontro, e il lento allontanarsi, e la casa al margine della città, dove il buio era più fitto, e i fiori nell’aiuola sotto la finestra, e la corda con cui il giovane si impiccò quando scoppiò la guerra, e il pianto di lei, le unghie con cui si grattava il viso, e le parole, incerte e scivolose, con le quali cercava di spiegare al bambino quello che non riusciva a spiegare nemmeno a se stessa: il silenzio che è il germe di tutto ciò che ci circonda. Il bambino la guarda e tace.

L’esploratore

Ogni bianchezza è fredda, pensa l’esploratore, indipendentemente dal fatto che davanti a me ci sia sabbia o neve.

Il cerchio

Zdravko e Vera si sono conosciuti al concerto dei Bijelo Dugme. Si trovarono, del tutto per caso, se qualcosa al mondo avviene per caso, uno accanto all’altra in una folla che si accalcava in tutte le direzioni, e i loro occhi si incrociarono all’istante quando entrambi cantarono: “Sei così, piccola mia, quando ti bacia un bosniaco”. Zdravko sorrise e tese la mano, che Vera accettò, e poi Zdravko si chinò e le baciò le labbra leggermente arricciate. Non ci separeremo mai, disse Vera più tardi quella sera, cioè quella notte, perché era mezzanotte passata e loro erano sdraiati nel letto di Zdravko, e così fu per i successivi dieci anni, fino allo scoppio della guerra. Decisero di lasciare Sarajevo, non senza dolore nel cuore e con ferme promesse a Sead e Jasmina, i loro testimoni di nozze, che sarebbero sicuramente tornati non appena questa “stupidaggine” fosse finita. Vissero prima per un anno a Ruma, con il fratello di Zdravko, poi andarono a Zrenjanin, dalla sorella di Vera, dove nacque il loro primo figlio. Si trasferirono a Belgrado, affittarono un appartamento a Karaburma. Zdravko vendeva sigarette e cambiava marchi tedeschi per strada, e Vera lavorava tutti i pomeriggi in una delle boutique vicino a Zeleni Venac. Lasciava il bambino alla zia di Zdravko, una zitella che condivideva un appartamento di due stanze a Nuova Belgrado con tre gatti grassottelli. Passarono altri due anni, la “follia” di Sarajevo finì, anche se non si era fermata in alcun modo; “la ragione si perde facilmente e difficilmente si ritrova”, scrisse Zdravko in una lettera a Sead; e così, visto che nacque il loro secondo figlio, decisero di cercare un posto più tranquillo (ed economico). “La vita è diventata troppo preziosa per noi per sprecarla così”, scrisse Zdravko nella stessa lettera, “dobbiamo ricominciare da zero”. Trascorsero un anno a Niš, dove viveva lo zio di Vera, ma non riuscirono a sentirsi a loro agio in una città che sembrava loro ricostruita innumerevoli volte e mai terminata, fatta di parti che minacciavano continuamente di sgretolarsi. Si trasferirono a Kruševac, dove la sorella di Vera si unì a loro, e dopo un anno passato sentendosi come se stessero sprofondando costantemente in un’oscurità fluida, si diressero a Ćuprija, su invito della migliore amica di Vera dai tempi della scuola. Lì scoprirono da soli la luce e lì nacque il loro terzo figlio. Il giorno prima che cadessero le prime bombe su Ćuprija, nella primavera del 1999.

Un’ombra

Il ragazzo, sul ponte, vede un’altra ombra accanto alla sua. Quando si guarda indietro, vede che è solo. Molti anni dopo, sullo stesso ponte, si accorgerà che la sua ombra non c’è più, ma allora rimarrà indifferente.

Cartoline

Mio padre viaggiava spesso. Ci inviava cartoline da ogni posto in cui era stato. Scriveva lo stesso testo su ognuna – cinque frasi e una firma ornata – e lo leggevamo ogni volta come se ci fosse completamente sconosciuto. D’altronde la seconda frase, “Questa è una bella città”, ad esempio, aveva significati diversi sulle cartoline di Vienna e Madrid, mentre la quinta frase, “Non vedo l’ora di vedervi”, suonava vera sulla cartolina di Mosca ed estremamente poco plausibile sulle cartoline di Venezia. Lo stesso si può dire per la prima frase “Sono seduto in una stanza d’albergo”, che sicuramente, scritta ogni volta in una stanza diversa, non potrà mai essere la stessa, né potrebbe la passeggiata accennata nella terza frase, “Farò una passeggiata prima che arrivi il buio”, che portava sempre a nuove strade. Tuttavia, la quarta frase, “Nel silenzio, le parole si appesantiscono, il cuore arde come una pigna secca”, ci lasciava nel dubbio; nessuna immagine poteva cambiarla. Non sapevamo, cioè, se il silenzio cambia di luogo in luogo e se ogni fuoco è lo stesso, non importa dove brucia, ma nostro padre, quando glielo chiedemmo, non volle dirci nulla.


David Albahari (1948 — 2023) è stato uno scrittore, traduttore e accademico serbo di origine ebraica che ha scritto principalmente romanzi e racconti, spesso di carattere autobiografico. È mancato, dopo una lunga malattia, il 30 luglio 2023. Viene giustamente considerato uno dei Nobel mancati e ricordato da molti intellettuali come un grande scrittore.

Traduzione di Božidar Stanišić, revisione di Claudia Bettiol


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