La neve
Sta
nevicando. È aprile, e nevica. I fiocchi di neve sono grandi e si sciolgono con
un fremito, come se fossero vivi. Qualcuno sostiene che la bellezza del tempo
risieda nella sua imprevedibilità. Intende, naturalmente aggiungendo, il tempo
meteorologico, perché l’altro è prevedibile e non potrebbe esserlo di più.
Segue una marea di proteste, una discussione alla quale tutti partecipano. Gli
occhi si allargano, le guance si gonfiano, le labbra a volte si ricoprono di
bolle di saliva. Le sedie scricchiolano, le suole sfregano contro il pavimento,
le mani svolazzano nell’aria, le fronti si accigliano. E poi, quando l’orologio
da parete suona sei volte, tutti tacciono. La neve sta ancora cadendo.
Il lettore
Il lettore
che si perde in un punto del libro e si ritrova in un altro, ma completamente
cambiato. Si guarda a lungo nello specchietto, si tocca i baffi che prima non
aveva, si accarezza i capelli lunghi fino alle spalle. Va bene, sta bene così,
fuori dal libro. Il libro è sul tavolo, è aperto. Un uomo si avvicina e lo
chiude. Quando si guarda di nuovo allo specchio, il lettore in esso non vede
niente.
Un gatto
Un uomo è
sceso in cortile a gettare la spazzatura e vicino all’ultimo gradino vede un
gatto morto. È sdraiato su un fianco, le gambe rigide e gli occhi spalancati.
L’uomo posa il secchio e rientra nell’appartamento a prendere un vecchio
giornale. Quando torna con il giornale in mano, il gatto non c’è più. L’uomo
getta uno sguardo all’indietro, strizza gli occhi, si accovaccia e si alza di
nuovo. Poi vede il titolo “Cinquantatreesimo giorno di bombardamenti”, si
agita e inizia a leggere.
Il monte
Da dove ci
troviamo, in cima, possiamo vedere un uomo a piè del monte, sul sentiero. Ci
abbiamo messo due ore per salire in vetta perché a Nela la gamba fa un po’ male
e Vesna è sempre stanca, ma quell’uomo certamente non ha bisogno di così tanto
tempo. Stendiamo una tovaglia di plastica sull’erba, tiriamo fuori panini e
mele dagli zaini. Beviamo succo di mirtillo. Quando appare, l’uomo è più
vecchio di quanto immaginassimo. Ma non ha il fiato corto.
La nave
L’estate
passa in fretta. Non ci siamo nemmeno abbronzati ed è già tempo di jeans e
magliette con le maniche lunghe. Sono seduto sulla roccia, porto un filo d’erba
alla bocca e lo addento. L’amarezza mi pizzica la bocca. Il mare è calmo,
silenzioso. Quando chiudo gli occhi, vedo una nave.
Walser
Robert Walser pensa che parlare sia faticoso, dico. Nessuna conversazione mi ha mai
stancato, dice mia moglie, e ripete: mai. Il valore delle parole, leggo, la
determinazione del loro effetto, sarà dimenticato da chi parla piuttosto che da
chi è taciturno. Mia moglie si raddrizza all’improvviso,: stai dicendo che,
quando parlo, spreco solo parole? Non è la mia opinione, rispondo, ma quella di
Walser, non ho detto niente. Quando parli, continua mia moglie, poi le tue
parole sono mielate come quel silenzio, e quando parlo io è un battito di ali
nel vuoto, ecco cosa viene fuori, no? Meravigliosa è la libertà spirituale del
solitario, dico, è di nuovo di Walser. Bene, ribatte mia moglie, allora che
Walser ti prepari una cena solitaria. Più tardi, in cucina, mangiando pane spalmato
con un sottile strato di margarina, comincio a capire il peso della tentazione
solitaria.
Il cielo
Quando Jakov
Baruh morì, il cielo si mosse. Era notte, e a un certo punto la disposizione
delle costellazioni cambiò, come se il cielo sopra di noi fosse un’enorme
proiezione che qualcuno, chissà come, avesse sostituito con un’altra. Anche il
sarto ha detto di averlo visto, e che poi, nella vetrina del suo negozio, una
candela decorativa si sia accesa da sola. Subito dopo, quando il cielo si
mosse, il fabbro sentì suonare la sua incudine anche se non c’era nessuno
nell’officina. Il postino si svegliò improvvisamente dal suo sogno e vide che
le sue dita erano macchiate di ceralacca. Al capezzale, perché solo allora era
andato a riposare, il poeta trovò un foglio con una poesia scritta da una mano
sconosciuta. Soltanto Matilda, la vedova di Jakov, non si era accorta di nulla.
Si svegliò solo quando i raggi del sole penetrarono dalla finestra, sentì il
freddo della mano di Jakov e seppe, ancor prima di vedere la sua bocca aperta,
che Jakov era morto. Le bastava. Lei comunque non sapeva niente del paradiso.
Una storia non scritta
Di tutte le
storie che non ho scritto, ricordo quella in cui un ragazzo e una ragazza sono
seduti su una panchina del parco, si tengono per mano e tacciono. Nient’altro è
successo in quella storia; tutto era in perfetto silenzio. Il mio sforzo di
scrittore avrebbe dovuto concentrarsi sulla descrizione di quella perfezione,
anzi, sulla perfetta descrizione della perfezione, perché nessun’altra ne
sarebbe degna. Il silenzio conteneva tutto, sia il loro passato che il loro
futuro, i giorni trascorsi nella penuria, i giorni di abbondanza, il calore del
cuscino condiviso, il parto difficile, la separazione e l’incontro, e il lento
allontanarsi, e la casa al margine della città, dove il buio era più fitto, e i
fiori nell’aiuola sotto la finestra, e la corda con cui il giovane si impiccò
quando scoppiò la guerra, e il pianto di lei, le unghie con cui si grattava il
viso, e le parole, incerte e scivolose, con le quali cercava di spiegare al
bambino quello che non riusciva a spiegare nemmeno a se stessa: il silenzio che
è il germe di tutto ciò che ci circonda. Il bambino la guarda e tace.
L’esploratore
Ogni
bianchezza è fredda, pensa l’esploratore, indipendentemente dal fatto che
davanti a me ci sia sabbia o neve.
Il cerchio
Zdravko e
Vera si sono conosciuti al concerto dei Bijelo Dugme. Si trovarono, del tutto
per caso, se qualcosa al mondo avviene per caso, uno accanto all’altra in una
folla che si accalcava in tutte le direzioni, e i loro occhi si incrociarono
all’istante quando entrambi cantarono: “Sei così, piccola mia, quando ti bacia
un bosniaco”. Zdravko sorrise e tese la mano, che Vera accettò, e poi Zdravko
si chinò e le baciò le labbra leggermente arricciate. Non ci separeremo mai,
disse Vera più tardi quella sera, cioè quella notte, perché era mezzanotte
passata e loro erano sdraiati nel letto di Zdravko, e così fu per i successivi
dieci anni, fino allo scoppio della guerra. Decisero di lasciare Sarajevo, non
senza dolore nel cuore e con ferme promesse a Sead e Jasmina, i loro testimoni
di nozze, che sarebbero sicuramente tornati non appena questa “stupidaggine”
fosse finita. Vissero prima per un anno a Ruma, con il fratello di Zdravko, poi
andarono a Zrenjanin, dalla sorella di Vera, dove nacque il loro primo figlio.
Si trasferirono a Belgrado, affittarono un appartamento a Karaburma. Zdravko
vendeva sigarette e cambiava marchi tedeschi per strada, e Vera lavorava tutti
i pomeriggi in una delle boutique vicino a Zeleni Venac. Lasciava il bambino
alla zia di Zdravko, una zitella che condivideva un appartamento di due stanze
a Nuova Belgrado con tre gatti grassottelli. Passarono altri due anni, la
“follia” di Sarajevo finì, anche se non si era fermata in alcun modo; “la
ragione si perde facilmente e difficilmente si ritrova”, scrisse Zdravko in una
lettera a Sead; e così, visto che nacque il loro secondo figlio, decisero di
cercare un posto più tranquillo (ed economico). “La vita è diventata troppo
preziosa per noi per sprecarla così”, scrisse Zdravko nella stessa lettera,
“dobbiamo ricominciare da zero”. Trascorsero un anno a Niš, dove viveva lo zio
di Vera, ma non riuscirono a sentirsi a loro agio in una città che sembrava
loro ricostruita innumerevoli volte e mai terminata, fatta di parti che
minacciavano continuamente di sgretolarsi. Si trasferirono a Kruševac, dove la
sorella di Vera si unì a loro, e dopo un anno passato sentendosi come se
stessero sprofondando costantemente in un’oscurità fluida, si diressero a
Ćuprija, su invito della migliore amica di Vera dai tempi della scuola. Lì
scoprirono da soli la luce e lì nacque il loro terzo figlio. Il giorno prima
che cadessero le prime bombe su Ćuprija, nella primavera del 1999.
Un’ombra
Il ragazzo,
sul ponte, vede un’altra ombra accanto alla sua. Quando si guarda indietro,
vede che è solo. Molti anni dopo, sullo stesso ponte, si accorgerà che la sua
ombra non c’è più, ma allora rimarrà indifferente.
Cartoline
Mio padre
viaggiava spesso. Ci inviava cartoline da ogni posto in cui era stato. Scriveva
lo stesso testo su ognuna – cinque frasi e una firma ornata – e lo leggevamo
ogni volta come se ci fosse completamente sconosciuto. D’altronde la seconda
frase, “Questa è una bella città”, ad esempio, aveva significati diversi sulle
cartoline di Vienna e Madrid, mentre la quinta frase, “Non vedo l’ora di
vedervi”, suonava vera sulla cartolina di Mosca ed estremamente poco plausibile
sulle cartoline di Venezia. Lo stesso si può dire per la prima frase “Sono
seduto in una stanza d’albergo”, che sicuramente, scritta ogni volta in una
stanza diversa, non potrà mai essere la stessa, né potrebbe la passeggiata
accennata nella terza frase, “Farò una passeggiata prima che arrivi il buio”,
che portava sempre a nuove strade. Tuttavia, la quarta frase, “Nel silenzio, le
parole si appesantiscono, il cuore arde come una pigna secca”, ci lasciava nel
dubbio; nessuna immagine poteva cambiarla. Non sapevamo, cioè, se il silenzio
cambia di luogo in luogo e se ogni fuoco è lo stesso, non importa dove brucia,
ma nostro padre, quando glielo chiedemmo, non volle dirci nulla.
David Albahari (1948 — 2023) è stato uno scrittore, traduttore e accademico serbo di origine ebraica che ha scritto principalmente romanzi e racconti, spesso di carattere autobiografico. È mancato, dopo una lunga malattia, il 30 luglio 2023. Viene giustamente considerato uno dei Nobel mancati e ricordato da molti intellettuali come un grande scrittore.
Traduzione
di Božidar Stanišić, revisione di Claudia Bettiol
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