La parte «giusta del mondo» non ha fatto nulla per aiutarli e ora non gli resta che sparire. Lottiamo contro lo zar russo «fino a quando sarà necessario» ma perdoniamo subito Aliyev
Non
dissimuliamo solo noi stessi e ci rendiamo diafani come fantasmi. Dissimuliamo
pure l’esistenza degli altri. Non nel senso che commettiamo azioni deliberate e
violente (questo solo in alcune circostanze estreme). Li dissimuliamo in modo
più definitivo e radicale: li trasformiamo in Nessuno. Il nulla diventa
individuo, si fa corpo e persona. L’esempio più recente, in triste fila subito
dopo i siriani, i sudanesi, i tigrini, i saharawi, i migranti eccetera, sono
gli armeni del Nargorno Karabakh. Da quando “l’operazione speciale” degli azeri
ha completato, con fulminante successo, il programma di pulizia etnica (una
volta la chiamavamo così… ) degli armeni dell’Artsakh che la Storia ha
rinchiuso nello Stato azero, con determinazione e prontezza l’Occidente,
parolaio e implacabile nel difendere i Diritti, ha dissimulato la loro esistenza.
Agisce come se non esistessero. Li nullifica, li annulla, verrebbe da coniare
una verbo audace: li nessunizza.
Novantatremila
son già fuggiti in Armenia portandosi dietro un calvario di miseria
disperazione tragici racconti di violenze stupri ladrocini, umiliazione:
l’Artsakh, chiamavano così la loro disgraziata enclave vittima di una Storia
contorta, non esiste più. Smacchiata dalle carte geografiche, hanno annunciato
gli azeri vincitori. L’alternativa concessa agli armeni: la valigia, ma in qualche
caso non è concessa neppure quella, o vivere da minoranza, che vuol dire
sparire più lentamente. A loro si aggiungeranno forse gli abitanti della
regione armena di Suynik: Baku dice che fu un errore di Stalin, un corridoio
perfetto per riunirsi ai fratelli turchi.
Così gli
armeni del Nagorno sono diventati l’assenza dei nostri sguardi, la pausa nei
nostri impegnati discorsi da parte giusta del mondo, la omertà, questa si
davvero mafiosa, del nostro silenzio. Gli armeni di questo frammento
insanguinato e derelitto del Caucaso sono la nostra omissione. Che spesso è
peccato più grave dell’azione, dell’atto. Non abbiamo fatto nulla per salvarli
o alleviare in parte il loro destino. A meno di non considerare qualcosa i
cento dollari che l’Unione europea ha regalato a ogni profugo. Una elemosina
vergognosa per far che? Qualche pasto, trovare un albergo di fortuna,
ubriacarsi e dimenticare? Bruxelles e la sua Commissione: una volta di più un
tempio in mano a una congrega di mercanti, capaci di ragionare solo su quanto
occorre pagare per scansare i guai e sorreggere la ipocrisia di essere quello
che diciamo di essere e non siamo. Per ottusità viltà interesse.
«È tutta
colpa di Putin, era lui che doveva difenderli’»: così abbiamo giustificato la
nostra voluta impotenza. Traendone anche soddisfatte e sconclusionate conferme
del fatto che il presidente russo è indebolito perfino nel suo cortile di casa.
Attendete
ancora qualche giorno e questi armeni saranno uno dei tanti nomi che
dimenticheremo, quasi ci fosse uno strano destino che ci regala opportune
smemoratezze. Saranno gli eterni assenti al nostro comodo banchetto dei diritti
umani, gli invitati che non invitiamo, il vuoto che non riempiamo. In cui si
installerà invece tronfio e gaudente l’ennesimo lestofante, l’emiro azero, che
ci serve, che ci dà una mano energetica e petrolifera. Che custodiamo nelle
foto di famiglia con il suo sguardo da baffuto Caliostro negli album dei
presidenziali uffici di Bruxelles, di Roma o di Washington: autocrate ma
collaborativo, aggressore ma disponibile a ben pagati rifornimenti di
emergenza…
Il cerchio
si chiude. Chiese e cimiteri si copriranno di erbacce, spariranno sotto il peso
dell’incuria, i centoventimila armeni del Nagorno diventeranno rapidamente
profughi, rifugiati e poi migranti e clandestini da qualche parte, niente paura
sono già milioni, in qualche modo ai “flussi secondari” si provvederà. La loro
ombra cala su di noi, non sugli azeri soddisfatti e gesticolanti nel tripudio,
ci ricoprirà tutti e poi tornerà a regnare il silenzio più forte delle
dichiarazioni, dei disappunti, dei discorsi laici e delle preghiere della
domenica, delle religioni e delle rivoluzioni. Lo riempiremo a poco a poco con
il nostro presente intatto, a tutto tondo, ben rifinito di danza e di baldoria.
E di gravi preoccupazioni, il rialzo delle temperatura, l’inflazione che erode…
Dovremmo parlarne agli armeni di tutto questo: tra cinquanta anni saremo tutti
morti di clima, altro che il Nagorno e le vostre beghe di un mondo che non
sembra cambiato dalla Genesi e che solo il mito può avvicinare, l’esilio, le
bombe… Ne trarranno, essendo cristiani, amplissima consolazione nel loro
sciagurato presente.
Gli armeni
ci sono abituati ad attraversare la vita come scorticati. Dai tempi del
criminale triunvirato Talal, Enver e Cemal autori del primo genocidio del
Novecento, la loro storia di popolo è piena di punti di sospensione, nei loro
silenzi ci sono pieghe tragiche, sfumature orrende, nuvoloni, minacce
decifrabili e rari arcobaleni. Per questo sanno rendersi invisibili, farsi
passare inavvertiti senza rinunciare mai al loro essere. Ci sono popoli interi
nel mondo dominato degli Alyiev, dei Putin, degli Erdogan, ma ahimè! Anche dei
Biden e dei Borrell che sono obbligati a contrarsi, a diventare ombre e fantasmi,
flebili eco. Non marciano sgusciano, non urlano piangono a bassa voce per non
far rumore. Per questo, a furia di soffrire, uomini e donne armeni sono
diventati invulnerabili e stoici. E forse è per invidia che non li sopportiamo,
per la loro capacità di resistere alla sofferenza. Che noi non abbiamo più.
Siamo egoisti anche nel dolore.
Dollari,
milioni di dollari miliardi sepolti nelle steppe desolate, nascosti sotto le
sabbie sporche di nafta del Caspio che il petrolio uccide lentamente da secoli.
In attesa paziente nelle sacche turgide di gas. È con questo tesoro che Aliyev,
un satrapo figlio illegittimo del bolscevismo, ho potuto regolare i conti con
la fastidiosa spina armena ereditata dalla Storia. Tra i mercanti russi
dell’inizio del Novecento circolava questo proverbio: «Chi ha vissuto un anno
tra i proprietari di petrolio di Baku non può ridiventare una persona per
bene».
Ilham Aliyev
ha ereditato dal padre Haydar, che si era fatto le ossa alla Lubianka ai tempi
di Andropov, il potere e il gusto per l’intrigo, la abilità nello sfuggire alle
congiure, la pazienza per le vendette implacabili e silenziose.
Mettiamo a
confronto due personaggi: Putin e Aliyev. Le somiglianze sconcertano:
autocrati, discendenti diretti o indiretti del Kgb, strateghi di “operazioni
speciali” per smontare popoli molesti, ucraini e armeni, protetti da complici
potenti, la Cina e la Turchia, ricchi di gas e petrolio. E poi: Suynik fu un
“errore” staliniano, la Crimea ucraina un “errore” di Kruscev…
Perché
allora lottiamo contro Putin «fino a quando sarà necessario» e perdoniamo le
aggressioni di Aliyev?
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