Nel nostro Paese, per liberarci definitivamente dal fascismo, sempre
ritornante sotto mentite spoglie, ci sono alcune fondamentali liberazioni
preliminari ancora da realizzare.
La prima è la liberazione dall’ignoranza. Regolarmente il nostro Paese viene
indicato dalle ricerche degli organismi internazionali come profondamente e
tecnicamente ignorante. L’ultima di queste è l’annuale classifica dell’Index of
ignorans a cura dell’organismo di ricerca internazionale Ipsos Mori che, a
proposito de “i pericoli della percezione” – ossia della distorsione percettiva
della realtà – indica negli italiani persistentemente i più ignoranti d’Europa
rispetto alla conoscenza dei dati reali della società nella quale viviamo, in
riferimento alle informazioni di base relative, per esempio, agli immigrati,
alla criminalità, agli attentati terroristici ecc. Del resto, come certifica
regolarmente l’ISTAT siamo ultimi in Europa per percentuale di popolazione
laureata e l’unico Paese in cui i laureati sono meno del 20% della popolazione.
Dati che si intrecciano a quelli, ormai classici e strutturali, dell’OCSE che
indicano l’Italia come penultima in Europa, dietro alla Turchia, per
analfabetismo funzionale e quart’ultima al mondo: ossia, almeno un italiano su
tre – pur essendo andato a scuola – non è in grado di decodificare e
comprendere un testo minimamente complesso. Come questo articolo, per esempio.
La seconda liberazione, strettamente collegata alla prima, è quella dalla
paura. Siamo in una fase storica in cui la paura dell’altro, chiunque esso
sia, sembra giungere al parossismo. “Sicurezza” è diventata la parola magica
per vincere le elezioni in un Paese impaurito, in nome di essa si inventano
leggi e decreti dai nomi improbabili – dal “decreto sicurezza e immigrazione”
alla “legittima difesa”, entrambi di sicura incostituzionalità – che, invece di
risolvere, aumentano e diffondono insicurezza e paura. Eppure, i dati forniti
anno dopo anno dal Ministero dell’Interno ci raccontano un Paese opposto a
quello che chi guida – indegnamente – quel ministero vuole far apparire: i
reati contro le persone sono costantemente in calo. Chi, come me, si ricorda le
stagioni del terrorismo e delle stragi di mafia, sa che fino ai primi anni ’90
i morti ammazzati in Italia erano migliaia all’anno, nel 2012 erano già calati
a 555, nel 2018 a 319. Nello stesso periodo le rapine sono calate del 35,8% e i
furti del 24,2% Dal punto di vista dei reati violenti l’Italia è uno dei Paesi
più sicuri d’Europa e del mondo, eppure la narrazione politica e mediatica
corrente racconta esattamente il contrario, facendo scaturire dalla paura
l’odio e la violenza. Alla ricerca continua di nuovi capri espiatori da
colpire.
La terza liberazione, collegata alle precedenti, è quella dalle armi. Il nostro Paese è
tra i primi dieci produttori al mondo di armi. Spende una parte consistente del
bilancio pubblico dello Stato – circa 25 miliardi di euro all’anno – in
armamenti e difesa militare, sottraendolo agli investimenti per l’istruzione e
la cultura (cioè, precisamente, alla liberazione dall’ignoranza e dalla paura)
ed esporta materiali bellici in tutto il mondo, anche ai Paesi in guerra.
Contravvenendo alla Costituzione ed alla legge. Le armi cosiddette “leggere”
sono l’export più fiorente della nostra economia i cui produttori vogliono oggi
dilagare anche sul mercato interno, portando almeno un’arma in ogni casa,
spingendo su questo il più compiacente dei governi. Che alimenta l’ignoranza e
la paura degli italiani inducendoli ad armarsi, fino a diffondere immagini del
ministro degli interni – ospite fisso ed acclamato di tutte le fiere delle armi
– con il mitra in mano. In piena propaganda eversiva di stile fascista.
Ed eccoci arrivati alla quarta liberazione, quella definitiva dal fascismo.
Ma se realizziamo davvero la liberazione dall’ignoranza, dalla paura e dalla
armi, quella dal fascismo – che è la somma di queste oppressioni – viene da se.
Questa è la nuova e necessaria resistenza. Che oggi si chiama nonviolenza.
Ho già
scritto questo post. E sempre ne scriverò uno, ogni volta che mi capiterà di
passare una notte intera al pronto soccorso.
Forse non lo avrei scritto, se dopo un paio d’ore d’attesa non mi si fosse
avvicinato uno sconosciuto per chiedermi se anche a me sembrava che medici e
infermieri fossero “da arrestare”, poiché da troppo tempo ai pazienti che
suonavano all’ingresso non rispondeva nessuno.
Neppure
io ho risposto al signore fuori di sé. Erano appena arrivate tre ambulanze e
avevano scaricato i feriti coinvolti in altrettanti incidenti stradali.
Ho provato a mettermi nei panni di medici e infermieri, ad interpretare i loro
dubbi professionali e di coscienza nello stabilire le priorità delle decine di
casi, assegnando magari la precedenza a chi era arrivato un minuto prima su una
barella, a discapito di chi invece aspettava il suo turno da tre ore.
Io stesso aspettavo da ore il mio turno, dopo essere stato disarcionato dalla
mia bicicletta ed essere ricaduto pesantemente sulla schiena. Avevo dolori
ovunque, ma ero stato visitato e sapevo che non ci avrei lasciato la pelle.
Medici e infermieri di un pronto soccorso sono eroi civili. Eppure subissati
ogni giorno di bestemmie, insulti, minacce e maledizioni, confusi con le
inefficienze di un sistema mai abbastanza preparato per fare fronte a tutte le
emergenze.
Alla grandezza di vigili del fuoco, carabinieri e poliziotti si dedicano inni.
Ai medici di un pronto soccorso esposti e denunce in Procura.
Sono arrivato
al pronto soccorso del nuovo ospedale di Olbia alle sette del pomeriggio di
martedì 21 maggio, ne sono uscito alle quattro del mattino seguente.
Sarei dovuto andarmene via schiumando rabbia e inveendo contro la malasanità, i
politici, il governo.
Invece me ne sono tornato a casa con, negli occhi e nelle orecchie, immagini e
parole registrate in quelle lunghe ore ad aspettare, in parte dentro una stanza
dove riposavano pazienti appena ricoverati ed altri in attesa degli esami, in
parte tra gli ambulatori al pianterreno e i corridoi.
L’essenza di ciò che è rimasto in me, dopo la notte, potrebbe risolversi nella
parola “gratitudine”.
Alle
dieci il medico di turno mi ha tastato la spalla e la schiena, dopo avermi
chiesto dettagli sull’incidente. Un infermiere mi ha porto una pillola: “La
tenga sotto la lingua per venti secondi, poi deglutisca”.
Sono stato accompagnato nella stanza accanto, in attesa dei raggi.
L’ho condivisa con:
immobile su una lettiga, un giovanotto con la barba da hipster vittima di un
tamponamento in un cantiere stradale della nuova strada per Sassari, il collo
stretto in un collare ortopedico, così stretto da sentirsene soffocato;
Un tassista, abbandonato su una sedia, l’ago della flebo conficcato nel
braccio, cui dopo qualche minuto una giovane infermiera con indispensabile
senso dell’umorismo ha annunciato: “Lei ha vinto un letto!”;
Un altro giovanotto, magro e pensieroso, allarmato da forti ed insistenti
dolori al petto;
Un novantaduenne arrivato da un paese della bassa Gallura, assistito da una
badante di Olbia;
Un signore di mezza età, addormentato su un fianco nel letto in fondo alla
stanza e che per tutto il tempo ha dormito profondamente.
Alla compagnia, nel cuore della notte, si è aggiunto un ragazzo vestito di
tutto punto, anch’egli irrigidito su una lettiga metallica, anch’egli provvisto
di collare ortopedico, anch’egli coinvolto in un incidente stradale avvenuto in
una vicina località turistica.
Mi era
più facile convivere con i miei dolori stando dritto in piedi, anziché seduto.
Allora mi sono alzato e ho iniziato a passeggiare per il corridoio.
In una nicchia ricavata lungo questa corsia, su tre letti affiancati, due
signori parlavano in inglese.
In mezzo a loro, infagottato nelle coperte, stava un vecchio rinsecchito, piccolo
come un bambino. Il volto, aggrinzito da rughe profonde come solchi, coperto
dal respiratore per l’ossigeno.
Gli teneva la mano un signore dai capelli bianchi, che mi sono convinto essere
il figlio.
Mi sono fermato proprio davanti a loro, accanto alla porta del medico.
Mi fissavano, cercando forse un cenno di conforto che io non sono stato capace
di regalare. Manco quando dagli occhi del figlio hanno iniziato a cadere
lacrime silenziose.
Gli altri due signori erano olandesi, ammaccati nell’incidente stradale
avvenuto nella località turistica assieme al ragazzo della stanza.
In tutto
questo tempo, medici e infermieri non si sono fermati per un solo momento.
Governare la disperazione di un pronto soccorso credo sia molto più difficile
che amministrare la speranza e la rassegnazione di un reparto.
Il signore novantenne aveva, nel tono e nei discorsi, il profilo di un
benestante abituato agli agi di una vita comoda. Ma era disorientato, perso in
un presente confuso.
Non voleva credere di essere in ospedale, non ricordava ce lo avessero portato.
E ad un certo punto si è ribellato, ordinando di essere riportato a casa.
Cercava di alzarsi e di strapparsi il catetere, nonostante le rassicurazioni
della badante. E così medici ed infermieri hanno dovuto dedicare parte del loro
tempo a tranquillizzarlo, ora con parole gentili ed altre volte con
avvertimenti severi.
Ma lui nulla, voleva andarsene.
Quando ha capito che non era aria, ha iniziato a raccontare la storia della sua
lunga e ricca vita, screziandola con nitidi dettagli sulla sua istruzione,
sulle sue tante attività di imprenditore e sulle auto che, a partire dagli anni
quaranta, aveva posseduto.
Il racconto durava un quarto d’ora. Poi ricominciava daccapo. E così per un
numero che non saprei dire di volte.
I due
signori olandesi avevano altre parenti ricoverati in reparto, così ho capito.
Ad un certo punto anche loro sono stati colti da un gran bisogno di parlare,
chiedere informazioni, chiacchierare.
Medici e infermieri hanno risposto in un inglese fluente, comunicando senza
impedimenti con loro.
Medici e infermieri, difficile distinguere gli uni dagli altri. Ricordo una
giovane dottoressa che faceva avanti e indietro spingendo per il corridoio i
pazienti stesi sui lettini con le rotelle, un lavoro che forse non le sarebbe
spettato. I ruoli si confondono e si mescolano, le gerarchie soccombono allo
stato di necessità.
All’una mi hanno portato a fare le lastre.
Dall’altra parte del vetro erano in due.
In piedi, spalle appoggiate al macchinario, braccio alzato, braccio piegato, di
fronte e di profilo come un detenuto pronto alla cella.
Mi è sembrato un lavoro scrupoloso, svolto con attenzione.
In quel mentre sono arrivati i carabinieri. Pensavo li avessero chiamati per
sedare un signore trasandato, in evidente stato di agitazione, che si aggirava
in sala d’attesa poco dopo il mio arrivo.
Invece i due militari cercavano dichiarazioni dalle persone coinvolte in uno
degli incidenti. Il personale ha dovuto collaborare anche al lavoro di
indagine, rispondendo a domande e richieste di documenti, in aggiunta al lavoro
della notte.
Quando sono tornato nella stanza, il vecchio aveva interrotto il racconto della
sua vita e ripreso a protestare, lui in ospedale non voleva assolutamente
restarci.
Una dottoressa e un infermiere hanno mollato tutto per calmarlo.
Improvvisamente si è addormentato.
La sua badante, conquistata la quiete, mi ha chiesto se sapessi nulla di un
incidente accaduto nei pressi di Arzachena, di cui aveva letto su Facebook. No,
non ne sapevo nulla. E lei: “Sa, non c’è sempre da fidarsi di quel che si legge
su Facebook”.
Il giovanotto irrigidito sulla barella di metallo, stretto nel suo collare
ortopedico, ha alzato un braccio: “C’è stato, l’incidente, c’è stato. Dentro
una delle macchine c’ero io”.
Verso le due il medico mi ha anticipato che mi ero fratturato tre costole,
rimandandomi ad un colloquio più approfondito qualche minuto più tardi.
Subito dopo, il giovanotto con i dolori al petto è stato sottoposto ad un nuovo
elettrocardiogramma e, infine, dimesso.
Ha salutato tutti col sorriso e l’ho visto scomparire in fondo al corridoio,
assieme alla sua signora.
Alle tre il medico mi ha ricevuto nel suo studio per le conclusioni: le
fratture alle costole erano quattro, proprio all’inserzione della colonna vertebrale.
Un mese di riposo, antibiotici e toradol, nuovo controllo tra venti giorni.
Ho
riletto il pezzo. Non sono riuscito a trasmettere fino in fondo la concitazione
della notte, il misto di speranza e angoscia, il moto perpetuo di quel gruppo
di donne e uomini in camice col compito di salvare vite in mezzo agli insulti e
alle brutture di questo mondo nevrotico e irriconoscente.
Nessuno tra loro si è mai fermato, in quella notte. Ognuno, da quanto ho visto,
ha speso tutte le sue energie. Nessuno ha detto una parola fuori posto per
rispondere alle provocazioni. Tutti hanno sempre avuto un sorriso per tutti.
Mentre mia moglie mi riportava a casa, all’alba, pensavo a quale grande
conquista sia la sanità pubblica e gratuita.
Certo, la paghiamo con le nostre tasse, ma c’è qualcosa di migliore per cui
valga la pena contribuire?
E poi ho pensato a quel signore che voleva far arrestare i medici del pronto
soccorso. Avrà certamente avuto i suoi motivi per essere esasperato.
Ma risolvere il problema arrestando i salvatori mi è sembrata, da subito, una
rappresentazione cosmica delle ingiustizie umane, come ne accadono da duemila
anni a questa parte
In un suo
recente lavoro Enzo Traverso metteva in guardia dall’effetto di confusione
insito nel ricorrere al termine «fascismo» per designare tendenze e
caratteristiche della politica contemporanea delle destre. Ritenendo più
pertinente impiegare piuttosto la definizione di «postfascismo».
Il crescente
protagonismo delle formazioni neofasciste (quelle che si richiamano
direttamente al Ventennio e quelle che si considerano come una sua variante
postmoderna) ha riportato al centro dell’attenzione il tema dell’antifascismo.
Converrà, però, seguendo il suggerimento di Traverso, discostarsi dalla
generica denuncia di un «ritorno del fascismo» per mettere a fuoco il punto
decisivo. E cioè il rapporto tra le forze della destra mainstream (comprese quelle
che si dichiarano antifasciste) e il neofascismo militante. Schematizzando, i
fascisti sono stati utilizzati dai poteri dominanti in tre diversi modi a
partire dalla fine del conflitto mondiale.
NELL’IMMEDIATO dopo guerra i processi di defascistizzazione in
Italia e di denazificazione in Germania sono stati interrotti per assecondare
le priorità politiche della guerra fredda. Negli anni Sessanta e Settanta la
folta galassia neofascista è stata messa al servizio della dottrina degli
“opposti estremismi” per imbrigliare la spinta dei movimenti. Più recentemente
il neofascismo è stato impiegato come elemento di disturbo e inquinamento delle
lotte sociali nonché come truppa di supporto alle politiche governative contro
l’immigrazione e le minoranze.
Nella società
contemporanea, afflitta da una condizione di crisi permanente e di crescente
disagio sociale, più che un richiamo al fascismo storico come sistema di
governo e organizzazione sociale, circola qualcosa di assai simile a quel tipo
antropologico che con il nome di «personalità autoritaria» fu messo a fuoco in
un celebre lavoro di ricerca condotto a Berkeley tra il 1944 e il 1949 da
Adorno, Frenkel-Brunswik, Levinson e Sanford.
COMPONENTI essenziali del quadro psicologico e ideologico
di questo genere di soggettività sono, come scriveva Giovanni Jervis
nell’introduzione all’edizione italiana dell’opera, «conservatorismo politico,
un rapporto di sottomissione verso l’autorità, autoritarismo verso chi ha minor
potere e, soprattutto, una ideologia etnocentrica, la quale a sua volta è
legata a una struttura autoritaria del carattere». Queste caratteristiche, alle
quali dovremmo aggiungere il revanscismo patriarcale, possono assumere forme e
linguaggi diversi: da quello del fondamentalismo religioso con la sua ostilità
verso i diritti civili e le libertà individuali a quello del suprematismo
bianco e machista made in Usa che, nei suoi tratti antistatali e
individualistici, ha una genealogia e una finalità del tutto diversa da quelle
del fascismo propriamente detto. Elementi di questa natura, assai più che un
qualche desiderio di regime, sono ben visibili negli episodi di violenza contro
i rom avvenuti in alcuni quartieri di Roma. In forme più vicine al Ku Klux Klan
che alle camicie nere.
Dalla
«personalità autoritaria» e dal suo uso politico, la legge Scelba contro la
ricostituzione del Partito fascista non è in grado di difenderci, così come
qualunque altra legge intesa a proteggere la democrazia da interpretazioni
sempre più restrittive e derive disciplinari. Esponenti politici di una visione
autoritaria della società, come lo stesso Scelba, il senatore Giovanardi o
Matteo Salvini non rientrano nel raggio di azione di un antifascismo, del tutto
disarmato nei confronti di quello che Traverso chiama «postfascismo» e Victor
Orbán ha battezzato «democrazia illiberale».
Tuttavia, in
Italia, il discorso autoritario non può che ricorrere a strumenti e linguaggi
che nella coscienza diffusa del paese evocano ancora il quadro ideologico e
politico del fascismo. E soprattutto non intende rinunciare al consenso e
all’attivismo propagandistico di quanti rimpiangono o mitizzano l’esperienza
del Ventennio. Ciò richiede un certo grado di revisionismo storico che, nella
sua forma più volgare, coincide con l’affermazione: «Mussolini ha fatto anche
delle cose buone». A partire da un simile giudizio si considera legittimo e
opportuno riproporre questo o quell’aspetto della politica fascista senza
doversi fare carico del contesto e dei nessi con l’architettura generale del
regime.
COMPITO del revisionismo storico non è tanto riabilitare
le dittature degli anni Venti e Trenta quanto rimuovere i freni inibitori che
la reazione a quelle esperienze aveva attivato nei confronti delle politiche
autoritarie. Ragione per la quale non possiamo rinunciare a combatterlo
vigorosamente. Dall’attenzione indirizzata alla «personalità autoritaria»
deriva anche una sostanziale indulgenza nei confronti dei gruppi neofascisti
dalle cui intemperanze la destra al potere si dissocia il minimo
indispensabile.
CIÒ COINCIDE con una ripresa di attività squadristica in
tutta Europa (i neonazisti tedeschi detengono un impressionante record
continentale delle aggressioni razziste e omofobe) dalla quale bisogna pur
trovare il modo di difendersi senza ricadere nella logorante guerriglia
molecolare che insanguinò gli anni Settanta. Soprattutto senza lasciare che lo
spettro di un ritorno del fascismo mascheri l’autorità liberticida che già
impugna le leve del governo. Avendo ben chiaro che non è la Lega che
fiancheggia i neofascisti, ma sono questi ultimi a fiancheggiare la Lega. Con
reciproca soddisfazione. Mai confondere il centro con la periferia.
(Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 19 maggio 2019)
Non è che nel mio paese mi sentissi più libero, anzi. Però, se libertà vuol
dire abitare in una casa di
cartone, alzarsi alle 4,30 della mattina, salire su un camion per stare
alle 5,30 sotto il cavalcavia di un’autostrada e, al freddo umido di quell’ora,
attendere e sperare che il “caporale” ti scelga per una giornata di lavoro
sottopagato e senza alcuna sicurezza; se libertà vuol dire spaccarsi schiena e mani per un
giorno intero rischiando la vita su un’impalcatura traballante e poi desiderare
solo di andare a riposarsi magari saltando la cena perché fra il sonno e la
fame vince il sonno; se libertà è tutto questo, allora c’è qualcosa che non va.
Ho temuto alcune volte, non conoscendo ancora bene la lingua italiana, di
aver frainteso il significato delle parole, che per esempio “libertà” significasse: “comprare o prestare un libro”.
D’altronde tanto errato non era questo mio pensiero, poiché il libro, in quanto
conoscenza, è lo strumento che ti avvicina di più alla libertà, però, come il
libro, se la “presti” puoi stare certo che non ti torna più indietro.
Ecco, io di libri ne ho letti molti, sperando di “liberarmi” dalla
schiavitù della miseria e dall’oppressione del regime militare che governa il
mio popolo, ma poi ho fatto il
fatidico errore del prestito; no, non dei libri, ma della mia libertà, e
l’ho messa in mano a persone poco raccomandabili che mi promettevano una vita
dignitosa in cambio di un periodo di lavoro “condizionato”: “Lavorerai un anno
per noi in cambio del trasporto in Italia, e poi, pagate le spese di viaggio,
sarai libero di andare dove vuoi”. “Andare dove vuoi”?
Vediamo: per abbandonare la mia “casa” di cartone dovrei affittarne una in
muratura, ma non avendo risparmi perché lavoro gratis, credo che rimarrò qui.
Però dopo, andrò alla ricerca di un nuovo lavoro più dignitoso e pagato, anche
se poco, ma pagato.
Non ho cittadinanza, né residenza, né casa, e a dire il vero neanche degli
abiti decenti per presentarmi da qualche parte. Allora resterò a fare il muratore clandestino e
a nascondermi quando arriva un controllo; però mi farò pagare. Sì, mi farò
pagare. Il padrone ha detto che non può pagarmi direttamente perché per lui non
esisto. Sono un clandestino e non vuole grane. Pertanto seguiterà a dare i
soldi al mio “protettore” e lui li darà a me…, se vuole, quanto vuole e quando
vuole.
Abdul mi ha proposto di dividere la stanza che
occupa con altri cinque connazionali per soli duecento euro. È
un’occasione perché a meno di quattrocento a persona non si trovano posti letto, ma io
non posso comunque permettermelo. Resterò nella mia baracca,, anche se devo
ricostruirla perché proprio questa notte una banda di ragazzi, armati di
spranghe, me l’hanno distrutta. Fortunatamente non ero ancora rientrato e così
almeno ho evitato il pestaggio o peggio. Ma ho perso ogni cosa. Ho perso anche
l’unica fotografia di me bambino con mio padre e i miei fratelli.
Sembra che sia stata una banda di “ragazzi di buona famiglia”, a detta
della stampa locale. Ma loro
chiamano “di buona famiglia” chiunque viva nell’agiatezza economica.
Quindi io automaticamente non lo sono. Certo che una famiglia che non ha saputo
dare ai figli i valori della solidarietà e dell’uguaglianza, proprio “buona”
non è stata. Ma sarà come per la parola “libertà”. Non conoscendo bene la
lingua forse ho travisato il
significato. L’italiano è proprio una lingua difficile: una stessa
parola può avere significati addirittura opposti. Ragazzo di “buona famiglia”
accoltella un migrante perché chiede insistentemente di comprargli un pacco di
fazzolettini. Ragazzi di”buona famiglia” danno fuoco ad un clochard.
Ragazzi di “buona famiglia” stuprano in cinque una studentessa canadese.
Ragazzi di “buona famiglia”, fanno morire di stenti e torture un pensionato con
problemi mentali. Un “malvivente tunisino” insulta un vigile che gli sequestra
la merce. Processo per direttissima.
E sì, credevo di trovare la democrazia vera in Italia, ma a conti fatti le
ingiustizie che ho trovato non sono poi così lontane da quelle che subivo nel
mio paese. Italiani “brava gente”!
Forse avrà lo stesso significato di “buona famiglia”. Sicuramente c’è la
brava gente, ma questa non appartiene per forza alla “buona famiglia”. Allora
saranno le persone semplici, quelle che lavorano tutta la vita per sostenere a
fatica i propri cari, a educare nell’onestà e nel rispetto del prossimo i
propri figli. Ma queste brave persone stanno dappertutto, in ogni angolo del
mondo. Ogni popolo invece è convinto di essere migliore degli altri soprattutto
se gli altri sono popoli più poveri di loro.
I portavoce della “buona
politica” poi, dicono che noi migranti togliamo lavoro agli
italiani, che siamo violenti e mettiamo a rischio l’incolumità delle loro
donne. Mi dispiace, questo non lo sapevo. Non sapevo che gli italiani
vendessero i fazzolettini davanti ai semafori e trattassero così bene le
proprie donne. Leggo in continuazione la cronaca di mariti o ex compagni che
uccidono di botte la moglie e qualche volta anche i figli.
Sono fuggito dal mio paese perché ora, con l’arrivo delle cosiddette
multinazionali, molte statunitensi ma altre italiane, olandesi, francesi, che
depredano le nostre risorse, c’è una massa talmente enorme di povertà che si
litiga e ci si accoltella anche per il predominio della spazzatura. Sono
fuggito perché nel mio paese non c’è libertà né di pensiero, né religiosa.
Rubano i nostri soldi e, per non farlo comparire un furto, fanno leggi che stabiliscono la spartizione
del bottino, in maniera “equa e solidale”. Ogni paio d’anni dividono le entrate
fra i gruppi industriali più grandi, nei quali gruppi siedono ai vertici
o gli stessi politici o i loro parenti e amici. La corruzione è talmente
dilagante che anche le associazioni più “umanitarie” diventano lobby di potere
e bacini di consensi.
È per questo che ci chiamate
“Terzo Mondo”? O perché non possedendo i vostri beni di consumo,
produciamo meno spazzatura? Perché qui in occidente, ho imparato che la
quantità di spazzatura prodotta è direttamente proporzionale al “benessere”.
Quando ero piccolo non c’erano ancora tanti militari in giro, poi con la
scusa della sicurezza, la polizia ed anche i vigili urbani sono stati armati e
per sopperire alla mancanza di personale si è iniziato ad usare l’esercito per
l’ordine pubblico fino ad arrivare alle cosiddette “ronde nere” per il basco
che indossavano. Le ronde erano formate da persone vicine al potere o che
volevano farsi ben volere dai capi locali. Dapprima le ronde giravano disarmate
poi furono armate anche loro e gli “incidenti”
di pallottole vaganti cominciarono a moltiplicarsi, ma cadevano
guarda caso, solo sui cosiddetti dissidenti.
Per fortuna tutto questo in Italia non c’è. Però nel mio caso non cambia
molto perché nel mio paese dovevo nascondermi e scappare ed in Italia
altrettanto. E pensare che sono sbarcato in questa nazione non solo per la
vicinanza ma anche per il fatto che a forza di stare in contatto con le
numerose ditte italiane che lavorano nel mio paese ho imparato abbastanza bene
la lingua. Le ditte italiane si sono ben integrate, soprattutto con il potere
politico. Loro non sembrano molto spaventati dal clima di repressione e corruzione,
pur provenendo da una nazione democratica, sembra quasi che ci siano abituati.
“Corruzione”. Ecco un’altra di quelle parole
strane che in Italia sembrano avere un valore diverso a seconda se vengono
usate in patria o all’estero. Così se un imprenditore corrompe un politico
italiano allora può scattare la denuncia, ma se l’imprenditore sta all’estero e
corrompe il potere locale magari per sfruttare risorse naturali e umane, allora
quell’azione diventa un “incentivo”,
un “investimento” e
magari il “costo” viene scaricato dalle tasse.
Che lingua strana l’italiano! I benpensanti per non offendere le persone
dal colore scuro della pelle evitano
di chiamarci “negri”, perché così venivano definiti gli schiavi
africani. Allora ci chiamano “neri”, con una punta di orgoglio, come per
sottolineare: “Vedi sto dalla tua parte, io ho un pensiero liberale e ti
considero una persona come me”. Ecco un altro doppio significato della lingua
italiana che ho difficoltà a comprendere. Se la parola “nero” viene riferita ad una persona dalla pelle scura è un
segno di rispetto, ma poi il lavoro che sono costretto a fare viene
chiamato:”lavoro nero”, in senso dispregiativo. È proprio vero che
la lingua si evolve. Quando anche in Italia c’era la dittatura non c’era il
lavoro nero, ma noi venivamo chiamati negri. Ora che c’è la democrazia veniamo
chiamati neri, ma dobbiamo fare il lavoro “negro”!
(Una versione abbreviata di questa intervista è stata pubblicata su «Il Manifesto» del 5 luglio 2018)
L’intervista è stata realizzata lunedì 2 luglio a Bologna, durante la Summer School «The Human in Question», organizzata dall’Academy of Global Humanities and Critical Theory, dove Rita Segato ha tenuto un corso intitolato Race Patriarchy in the Light of the Perspective of the Coloniality of Power e mercoledì 4 luglio, insieme a Paola Rudan, ha partecipato, presso la Biblioteca dell’Archiginnasio, a un Dialogue on Ni una Menos. Il 5 luglio, l’antropologa latinoamericana sarà presente – insieme a diverse attiviste provenienti da Argentina, Ecuador, Messico e Colombia, all’assemblea organizzata da Non una di meno Bologna e Ni una Menos Argentina suLa struttura della violenza patriarcale. Razzismo, precarietà e giustizia femminista.
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Vorrei partire dalle immagini di un milione di voci che esultano di fronte al Congresso Argentino il 14 giugno, quando è stata data la media aprobación alla legge sull’aborto. La mobilitazione per l’aborto libero, sicuro e gratuito è cominciata molti anni fa, ma solo ora ha conquistato la forza necessaria a conseguire questo risultato storico, benché ancora parziale. Da che cosa dipende secondo te questo salto in avanti, pensi che abbia un rapporto con la lotta contro la violenza patriarcale che in America Latina, come in tutto il mondo, le donne hanno portato avanti con crescente intensità negli ultimi anni?
La mobilitazione per l’aborto va avanti da molti anni, ha coinvolto donne ‒ come Martha Rosenberg e Nelly Minyersky ‒ a cui bisogna rendere onore per avere portato avanti questa lotta così a lungo. Ci sono le socorristas, un gruppo molto importante di donne che aiutano altre donne a praticare l’aborto, un gruppo molto ben organizzato. È importante ricordarle in questo contesto. Queste donne, le mujeres soccorristas, non condividono l’idea di un «diritto» all’aborto, perché la loro pratica è la disobbedienza, ed è più complicata. All’interno del movimento ci sono state delle rotture e dei conflitti, proprio perché alcune non volevano una «concessione» da parte dello Stato, affermavano semplicemente di praticare l’aborto e così facendo esprimevano il loro sospetto verso lo Stato. Questo lo comprendo. Ma nella situazione presente le donne colgono ogni occasione per unirsi. La battaglia per l’approvazione dell’aborto alla Camera – e la legge deve ancora passare dal Senato – è stata un modo per unirsi e mostrarsi insieme di fronte allo Stato e alla società. L’aborto è una pratica importante, la proibizione e la criminalizzazione dell’aborto sono uno stupro di Stato, perché tu hai nel tuo corpo un pezzo di carne che non è tuo e che non vuoi, questo è stupro. Obbligarti a tenerlo è uno stupro di Stato. Questo è un argomento cruciale. Ma nel femminismo c’è stata una divaricazione in relazione all’importanza dello Stato e alla possibilità di esercitare la tua libertà senza il permesso dello Stato. È una questione complicata, ma adesso le donne sono tornate insieme e ogni occasione che riguarda loro e il loro corpo è un’occasione per mostrarsi insieme, perché sono già organizzate e questo è fondamentale. Quello che non deve essere dimenticato è anche che in Argentina negli ultimi trent’anni c’è stato un costante incontro tra le donne. Quando il 3 giugno del 2015 c’è stata la prima grande manifestazione, e poi con lo sciopero dell’8 marzo, le manifestazioni sono diventate moltitudinarie, ma questo è stato anche dovuto anche all’importanza crescente che per trent’anni hanno avuto questi incontri, senza partiti, senza associazioni, senza un’egemonia. È un movimento senza egemonia e questa è la storia veramente importante che confluisce oggi nelle manifestazioni delle donne. Ora è davvero visibile, ma non è del tutto nuovo.
Il dibattito e la divaricazione di cui parli hanno avuto luogo anche in Italia negli anni ‘70 a proposito della legge sull’aborto che è stata approvata nel 1978. Alcune femministe sostenevano di non volere una legge che lo regolasse, ma solo una liberalizzazione e depenalizzazione, perché vedevano lo Stato come parte del problema patriarcale. E in effetti la legge sull’aborto dichiara per esempio che la maternità è un «valore sociale», non una possibilità tra le altre per le donne, e in questo modo definisce un loro specifico ruolo. Ma questo movimento di massa che tiene insieme milioni di donne e non solo donne sta anche aprendo una breccia in un ordine come quello neoliberale, di cui il governo di Macri è espressione, che semplicemente rifiuta di accettare qualsiasi istanza collettiva proveniente dalla società, da donne, precari, migranti. Il fatto che un movimento sociale ottenga qualcosa forse è già di per sé importante, un cambiamento rispetto alla percezione di una completa assenza di ogni possibilità di cambiamento.
La cosa importante è il processo che porta le donne a unirsi, a stare insieme, e in questo la legge sull’aborto è un’opportunità di diventare visibili a se stesse, di far crescere una pratica che stabilisce dei vincoli. C’è la produzione di una cultura che riguarda il modo di fare le cose, che nasce dalla pratica dello stare insieme nei luoghi pubblici. Il processo è la dimensione più importante di quello che sta succedendo, forse anche più importante del risultato. Si dà vita a un modo di stare insieme, un modo di costruire una vita insieme. In questo senso penso che il processo sia la cosa più importante. Le manifestazioni delle donne sono completamente diverse da quelle degli uomini, dei sindacati, dalle manifestazioni politiche intese in senso convenzionale. Non appaiono allo stesso modo, non sono sentite nello stesso modo, non funzionano nello stesso modo, c’è un diverso modo di apparire e di fare, una diversa atmosfera delle donne che marciano insieme. Il risultato è importante, ma bisogna focalizzarsi sul processo.
Ho ascoltato il dibattito parlamentare prima del voto sulla legge…
Vergognoso per molti versi…
Sì, davvero. Quello che ho notato è che ci sono stati anche rappresentanti dei partiti di sinistra che si opponevano all’aborto. Per esempio i peronisti che dicevano che siccome la povertà impedisce a molte donne di avere figli, bisogna opporsi all’aborto e rivendicare la maternità contro la povertà, e questa posizione è stata sostenuta anche da molti curas de villeros, ma allo stesso tempo persino i conservatori dovevano ammettere che quello che stava succedendo per strada, un milione di persone, Ni una menos, lo sciopero delle donne, tutto questo non poteva essere ignorato. La cosa che mi pare importante, per chiarire quanto dicevo prima, è la percezione che si sia accumulata una forza tale da poter pensare di cambiare le cose, una forza che non può essere ignorata in un’epoca in cui sembra che niente possa essere cambiato, che il proprio destino sia una sorta di condanna. Questa presa e manifestazione di forza mi pare fondamentale per sostenere il processo di cui parli.
Una delle cose che possiamo imparare è che se partiamo dalle questioni che le donne pongono, dalla posizione delle donne, noi possiamo vedere la storia in un modo radicalmente diverso. I peronisti alla fine hanno votato come dovevano, ma all’inizio il movimento justicialista aveva dichiarato che avrebbe votato contro. Qui si vede un modo di fare politica tradizionale che è stato spazzato via, che ha perso il suo significato. Ci ho pensato molto; questo dibattito mostra precisamente che un momento nuovo sta cominciando. Quando vedi che c’è un rimescolamento complessivo della scena politica, della politica tradizionale di destra e di sinistra a partire dalle istanze femministe. Ci sto ancora riflettendo, ma mi torna in mente il dibattito costituzionale brasiliano del 1998, quando una ONG femminista ha realizzato un’inchiesta con i membri del Parlamento a proposito del disegno di legge costituzionale. In questo disegno c’erano cose positive per le donne, come l’abolizione della patria potestà e anche aperture sull’aborto – queste però non si sono realizzate – e la grande sorpresa è stata che alcuni partiti comunisti, membri del parlamento, esponenti della sinistra, si sono opposti a queste misure, mentre alcuni della destra tradizionale le hanno sostenute. Era solo un’analisi delle dichiarazioni di voto, ma mi ha sorpresa moltissimo che parte della sinistra tradizionale fosse contro le donne e che la destra avesse improvvisamente posizioni illuminate. Questa è una storia ormai lontana, ma oggi sta avvenendo qualcosa di simile. E io credo che abbia anche a che fare con il fatto che i voti sono stati dichiarati a partire da posizioni di partito, che dovevano essere affermate come tali, senza nessuna autonomia. E d’altra parte questo è il problema della politica rappresentativa come tale. Quello che ha caratterizzato la politica tradizionale è stata l’idea di accumulare forza per prendere il potere statale e da lì cambiare le cose. Ma bisogna considerare questa storia come uno specchio per capire che questa politica è fallimentare. Il mio sogno è una politica senza egemonia. Il mio maestro, Anibal Quijano, che ha avuto su di me una grande influenza, mi ha sempre detto «non parliamo dei movimenti sociali, ma dei movimenti della società». Questa cosa per me è fondamentale, questa politica della società, questo rimescolamento della società. Ho una specie di fede storica che mi dice che nessuno cattura la storia, nessuno la controlla, che la storia procede. L’idea della sinistra tradizionale di accumulare forza per poi metterla in una specie di camicia di forza ha fallito troppe volte e dalla storia dobbiamo imparare. Dobbiamo nutrire tutti i movimenti che nella società producono incertezza, indefinizione, e la sinistra non è nella condizione di farlo, non sono in grado di cogliere l’incertezza come qualcosa di positivo. E questo è un modo femminile di guardare alla storia. Perché è un modo pragmatico, pratico, ha a che fare con la capacità di improvvisare per riuscire a difendere la vita, è qualcosa di topico e non utopico. È difficile per me esprimermi anche perché cerco, mentre penso, di creare le parole che permettano di vedere la storia in modo completamente differente. Io credo che l’utopia abbia un carattere autoritario e che l’unica utopia ancora viva sia l’utopia dell’incertezza, della struttura tragica della storia, e la sinistra non è in grado di vederlo. Le donne lo stanno facendo.
Penso però che sia possibile pensare l’egemonia in un modo che non ha a che fare con la tradizionale politica dei partiti. Le donne ci sono sempre state, hanno sempre portato avanti le loro pratiche, ma quello che sta succedendo ora non si radica semplicemente nelle pratiche quotidiane. Possiamo dire che sono state storicamente costrette a occupare una certa posizione e fare determinate cose e che ora stanno partendo da quella posizione per realizzare un cambiamento. Ma solo ora, proprio perché si stanno mobilitando in massa, perché si stanno organizzando come tu stessa hai detto, le cose stanno cambiando. E questo evidentemente mette radicalmente in questione le modalità note di organizzazione, non c’è un percorso già scritto…
A me pare che ci sia una sorta di politica gestionale che le donne stanno praticando, anche nel modo in cui comunicano globalmente, il che vuol dire non avere soluzioni ma domande, la certezza dell’incertezza, accettare l’idea dell’instabilità dell’adesso, dell’attualità radicale. La critica dell’utopia, che ci ha portati nella storia a troppi errori, mi pone il problema di come comportarmi qui e ora. L’utopia non permette di pensare il presente. Le donne hanno una storia. Che cosa significa essere una donna? Significa avere una storia differente, non ha a che fare con la biologia. Quelli che dicono di non parlare del «genere» non considerano che è il termine che abbiamo scoperto per affermare che il nostro corpo non ci identifica, mentre d’altra parte i corpi hanno una storia che è estremamente complicata perché non è sempre la stessa. Per le popolazioni indiane il corpo non significa la stessa cosa che in Occidente, per esempio. Per le popolazioni indiane il femminile non deve essere incarnato in un corpo di un certo tipo, è una posizione, un ruolo, riguarda la divisione sessuale del lavoro. Essere donna oggi significa recuperare una storia che nel transito alla modernità è stata censurata, si è cancellata la storia politica della posizione femminile. Queste mobilitazioni femministe in un certo senso stanno recuperando il senso di quella storia, stanno facendo esplodere il senso della politicità domestica che ci hanno obbligato a dimenticare. Lo stile della politica femminile che nel transito alla modernità abbiamo dimenticato. E questo modo di fare politica con uno stile femminile è qui e ora. Dobbiamo recuperare la topicità più che l’utopia. La modernità è un modo di essere futurista, perché il futuro dà valore al presente, ma questo non è parte della storia femminile per come io la concepisco.
Ho qualche difficoltà a trasformare la storia in uno «stile». Credo sia importante pensare il «femminile» come una posizione che deve essere storicizzata, ma nell’atto di politicizzare questa posizione si esprime un atto di liberazione dalla storia che ci ha oppresso, ed è un atto che apre il futuro come possibilità di essere libere. Non sappiamo come questo avverrà, ma forse possiamo dire che questa pratica di libertà non è individualistica. Questo movimento coinvolge gli individui imponendo una trasformazione soggettiva, ma quello che è nuovo è che non stiamo reclamando una libertà per noi come individui o come donne, ma una libertà contro l’oppressione, per noi e per gli altri che sono oppressi…
Sì c’è la pretesa che quello che noi cambieremo cambierà tutto. Non mi piace la parola nemico – anche se abbiamo dei nemici – ma ci sono antagonisti del nostro progetto storico che lo sanno e da qui viene il cascame fondamentalista, l’opposizione a quella che chiamano «ideologia del genere», perché riconoscono l’importanza di quello che noi stiamo facendo. E quindi reagiscono, reagiscono contro questo movimento, contro il movimento delle donne, LGBTQI, perché vedono che è una minaccia. Capisco la tua preoccupazione, ma dobbiamo trattenerci da questa preoccupazione. Siamo stati addestrati così a fare politica dall’Occidente ‒ e tutti abbiamo imparato a fare politica dall’Occidente, quella sindacale, quella rappresentativa, la rivoluzione comunista, il movimento nero o quello LGBTQ ‒ e questo impone un carattere coloniale ai movimenti sociali. Il problema è proprio che il modo Occidentale di fare politica riguarda il controllo. C’è qualcosa che queste donne mostrano nelle strade ed è il rifiuto del controllo, il rifiuto dell’egemonia, il fatto che le cose si giocano da sole e trovano il proprio posto da sole, la società deve cambiare e sta cambiando, ma se pretendi di controllare questo processo compi un gesto patriarcale.
A proposito di questo cambiamento, nei documenti dello sciopero femminista, in ogni paese, non ci sono solo rivendicazioni delle donne come donne, ma la libertà di movimento per donne e uomini migranti, la fine del debito, la lotta contro la precarietà, e tutto questo è messo in relazione con la violenza patriarcale. Questo è un modo di concepire questa lotta parziale come una lotta che ha valore generale. Allora mi chiedo come si stanno costruendo concretamente queste connessioni.
Queste rivendicazioni sono presenti in tutte le manifestazioni, che denunciano la fine di ogni oppressione, e io le condivido, ma sono poste in modi diversi, ogni cosa ha una forma diversa. Nei movimenti per l’uguaglianza degli anni ‘60 e ‘70, i movimenti della sinistra insorgente in America Latina da cui provengo io e le persone che mi sono vicine, c’erano rivendicazioni simili, ma oggi sono pronunciate in modo diverso. Perché l’oppressione delle donne è la prima scuola di tutte le altre oppressioni. A Buonaventura, nella Costa pacifica della Colombia, ci sono bande di sicari che uccidono le donne, e non solo le donne, in modo estremamente brutale per «ripulire» la terra e fare strada agli investimenti immobiliari, per costruire nuovi porti, hotel eccetera. Il porto di Buenaventura è un porto particolarmente importante per il commercio nel Pacifico, e quindi bisogna ripulire il territorio. Non puoi mettere fine a questa guerra contro le donne con un trattato tra le Farc e lo Stato, perché lo Stato è parte del gioco e lo sostiene anche se informalmente. E allora mi sono chiesta come si pone fine a questa situazione se non smantellando il «mandato di mascolinità», perché è questo che sta alla base del reclutamento degli uomini che ingaggiano questa guerra. Il mandato di mascolinità però fa male agli uomini come alle donne, se smantelli il mandato di mascolinità cambi il mondo, ne sono convinta. Gli uomini sono danneggiati, hanno una vita più breve in ogni parte del mondo, non solo dove c’è la guerra, perché sono obbligati a obbedire a quel mandato. Gli uomini devono combattere contro quel mandato per essere liberi e il movimento femminista è l’occasione per gli uomini di liberarsi dall’obbligo di dare prova della loro potenza. Se demolisci questo imperativo, che è la prima pedagogia della crudeltà e del potere, cambi il mondo, cambi la realtà. Per questo gli uomini devono venire fuori. Nella fase multiculturale, che è stata la fase tra la caduta del muro di Berlino e il presente, il cambiamento non c’è stato perché il multiculturalismo e le identità politiche non hanno toccato il tessuto del capitale, dell’accumulazione, della concentrazione che è invece cresciuta nel periodo multiculturale, come ho scritto in un mio libro (La nación y sus otros: raza, etnicidad y diversidad religiosa en tiempos de políticas de la identidad, 2007). L’impatto del movimento femminista sta anche nella possibilità che dà agli uomini di venirne fuori, perché realizzano la possibilità di aggredire il fondamento di ogni potere.
Un’altra domanda a proposito dello sciopero. Che cosa pensi del fatto che le donne abbiano scelto lo sciopero come pratica di lotta?
Io credo che sia stato uno sciopero esistenziale, uno sciopero per un diverso tipo di esistenza e di politica nel senso che ti ho detto, in un modo topico, umoristico, celebrativo, comunalistico, capace di produrre vincoli tra me e te, e questo è ciò che definisco esistenziale…rompe la burocrazia, l’espropriazione. Le donne nel presente sono sequestrate dalla burocrazia che è storicamente legata all’egemonia. Non sono un’anarchica perché credo nell’organizzazione in comune che è basata sui legami, potrebbe essere un anarchismo etnico il mio. Sono tornata in Argentina e ho scelto di vivere nella città dove ho passato l’adolescenza, tra La Paz e Buenos Aires. Quando la modernità è arrivata nella città, quando lo Stato è arrivato nella città, le donne hanno perso la sovranità sul proprio corpo eppure tuttora ci sono rituali solo per le donne, una vita comune nei quartieri, segni di riconoscimento, un modo di relazionarsi in modo diverso. E poi sono un’antropologa e so che la comunità esiste ancora in America Latina, anche se in piccoli pezzi.
La comunità però non è stata disintegrata solo dalla colonizzazione o dal capitale, ma anche dalle donne che si sono sottratte al ruolo che la comunità riservava loro…
Le donne del Chiapas hanno dato una risposta al problema. I creoli hanno imposto la logica per cui prima bisogna lottare per il popolo, poi per le donne. Le donne del Chiapas hanno detto no, quando il vento della politica soffia, soffia per il popolo e per tutte le sue parti. Non c’è un’opposizione, non si escludono.
Non intendevo questo. Nei tuoi lavori tu parli di un patriarcato a bassa intensità che agisce nelle comunità e penso che le donne abbiano rotto i vincoli comunitari anche per sottrarsi al patriarcato, qualunque sia la sua intensità. Le migrazioni delle donne oggi rispondono anche a questa pretesa di libertà contro i vincoli patriarcali della comunità.
Io penso che dobbiamo capire questo nei momenti di transizione dalla comunità alla società, dalla vita comune alla cittadinanza, perché sono stati questi i momenti in cui in America Latina come in Spagna si è intensificata la violenza contro le donne. La maggior parte delle comunità oggi sono in questo momento di transizione. Anche se la cittadinanza astratta nei nostri paesi – non so in Europa – non si è mai realizzata, negli spazi coloniali c’è una storia diversa della storia del rapporto tra Stato e società, la società è stata costituita dallo Stato dall’esterno, come una copia dello Stato coloniale, ci sono metropoli coloniali che si sono trasformate in territori che hanno continuato l’amministrazione coloniale. E questo processo ha creato la società, le Repubbliche nei nostri paesi sono finzioni.
Credo però che questo sia vero anche in Europa, benché in modo diverso. L’omogeneità del popolo è sempre stata una finzione…
Io credo comunque che questo si possa decifrare proprio grazie alla storia della violenza sulle donne e dall’incapacità dello Stato di dare una risposta. Nei momenti di transizione la posizione degli uomini è una posizione che sta in mezzo, l’espansione della colonia è una forma di castrazione che impone loro di restaurare la loro potenza attraverso la violenza. La violenza è una restaurazione della mascolinità contro la castrazione ed è questo che porta le donne ad andarsene. Ma nei luoghi in cui questo processo non si è dato, le donne rimangono nelle comunità e sono alla guida dei movimenti comunalisti, come Berta Cáceres in Honduras.
Questo però è un movimento globale. Tu parli del tuo immaginario politico topico, che parte dall’esperienza della comunità, ma quest’esperienza non è generalizzabile. Allora che cosa significa pensare la trasformazione femminista di cui hai parlato da una prospettiva transnazionale?
Per l’8 marzo alcune donne latinoamericane che vivono in Francia mi hanno chiesto di fare una dichiarazione per lo sciopero e io ho detto che la posta in gioco è la pluralità. Non possiamo unificarlo né possiamo pensare ora di essere tutte allo stesso modo. Ci sono rivendicazioni comuni, ma cercare un’unificazione sarebbe un errore. Si può unificare qualcosa su cui si ha presa, ma nessuno può avere presa su quello che sta succedendo. Il patriarcato pretende di avere presa su tutto e da questo dipende la sua vita, dal controllo. Noi non possiamo farlo, dobbiamo lasciar essere. Il rischio di aspirare all’unità è troppo grande. È come una bambina appena nata. Si può dire: devi essere bella, disciplinata, educata, devi studiare. Noi dobbiamo avere una bambina ribelle. da qui
Las virtudes de la desobediencia - Rita Segato
Elizabeth Costello me salva siempre cuando me veo en una situación como ésta. Ya lo ha hecho otras veces eso de venir en mi auxilio, desde el cielo de la literatura donde seguramente se encuentra. La profesora Costello, de mi misma edad, es el Ángel de la Guarda femenino que protege a quienes, como yo, no se sienten felices con las formalidades y circunstancias a que debe curvarse quien sobrevive a costas de una profesión letrada. Lo que a mi me gusta y donde me amparo en el célebre personaje que circula por las novelas de Coetzee no es el tema del cual habla, sino el hecho de que habla de algo a lo cual no ha sido convidada a hablar, es decir, su indisciplina, su fineza indómita, su distracción con relación al protocolo académico que, al parecer, la habría llevado hasta el podio que hoy ocupa. Puede haber sido invitada a hablar, por ejemplo, de la literatura inglesa del siglo XVII, y discurre, ante el desconcierto y decepción del público y la reprobación de su hijo varón, sobre la Vida de los Animales. Lo de Costello conmigo es prácticamente un estado alternativo de consciencia, una posesión: me baja un santo, como se dice en el lenguaje del Candomblé, y ese santo es Costello, a la hora de tener que hablar en circunstancias como ésta. Su política, a mi ver, no es precisamente lo que dice, sino su permanente acto de desobedecer, su distracción de la norma. Esa es mi lectura del divino personaje. Y esa es mi lectura de lo más humano de lo humano: examinar los chips que nos programan, y elegir cuál apagamos, a cuál le damos baja, qué mandato extirpamos de nuestra matrix. A mis estudiantes de Antropología les he preguntado muchas y muchas veces, a lo largo de muchos años, ¿por qué estudiamos cómo la cultura nos hace ser de determinada manera, nos formatea, en lugar de estudiar cómo, a pesar de la cultura a la cual supuestamente “pertenecemos”, cada uno de nosotros puede ser único, irrepetible, diferente. La estrella guía de la humanidad es, precisamente, su capacidad de desvío, capacidad a la cual le debemos nada menos que la historia.
Primera desobediencia:
Es por eso que ando diciendo, entre otras cosas, que una politicidad femenina, por una serie de razones, no puede ser principista, sino pragmática y capaz de improvisar, dirigida a la vida aquí y ahora, a su continuidad y a su esplendor, a pesar de todo o, como decimos, contra viento y marea. Por lo tanto, y para esto, siempre alimentada por lo que he llamado una “ética de la insatisfacción”, bastidor de toda buena política, pulsión opuesta a la de una ética de la conformidad. Una ética para la cual es más importante ser bueno que actuar bien. Se torna necesario, en ese camino, ser pluralista antes de ser feminista; tener un mundo radicalmente plural como meta histórica. Meta que no puede ser alcanzada ni por el patriarcado ni por el proyecto histórico de las cosas, que es el de la acumulación capitalista, siempre en tensión con el proyecto histórico de los vínculos, el del arraigo comunal. Tampoco podrán validarse ahí, en la meta de un mundo en plural, los monoteísmos dogmáticos, ninguno de ellos. Porque para el patriarcado, el capital y los monoteísmos fundamentalistas hay una única verdad, una única forma del bien, una único dios, una única forma de futuro, una única justicia. Son, de esta forma, monopólicos, regidos por una lógica exclusiva y excluyente. Nuestra lógica, la lógica que permitió sobrevivir a tantos siglos de masacre en nuestro continente, no es una lógica monológica, monopólica, regida por la neurosis de coherencia y del control, la neurosis monoteísta y blanca de los europeos. Nuestra lógica es trágica, en el sentido de que puede convivir con la inconsistencia, con verdades incompatibles, con la ecuación a y no-a, opuestos y verdaderos ambos, y al mismo tiempo. Y por lo tanto, siempre, siempre, dotada de la intensidad vital de la desobediencia. Una lógica para-consistente para conservar la vida y garantizarle continuidad y mayor bienestar para más gentes, para mantener el horizonte abierto de la historia sin destino pre-fijado, para mantener el tiempo en movimiento.
Segunda desobediencia:
Me remite a Europa, el continente de la neurosis monoteísta, como le llamo en mi libro Santos e Dáimones (sin traducción al castellano). El continente de la neurosis de control y del juicio moral sobre el mundo. Y así llego a la otra evocación inevitable al preparar esta incómoda conferencia es el malestar que me causó, 36 años atrás, el discurso de García Marquez, al recibir el premio nobel en 1982, llamado La soledad de América Latina. El recuerdo de ese vago e incomprensible malestar me acompaña desde entonces, y solo ahora encuentro el espacio para hablar del mismo ante una audiencia. En aquel tiempo, la palabra eurocentrismo ni rondaba mi cabeza, inclusive porque en esos años yo vivía en Europa. Veamos: García Márquez me parecía decir que América Latina estaba sola porque Europa no la miraba, no la veía, no registraba su existencia y no la comprendía. Definitivamente me desagradaba, como me sigue desagradando hasta hoy, que el subtexto de su discurso indicaba claramente la convicción del autor de que solo en el ojo de Europa era posible que nuestro continente alcanzara su existencia plena. ¿Será que un ser para otro es nuestro destino? Sería problemático, porque para ser para el otro eficazmente /con eficiencia es necesario que de ese otro aprendiéramos a ser. Con los años, y con los vocabularios a que fui teniendo acceso, ese malestar se fue transformando en consciencia. Una consciencia que me permite hoy hablarles, como gente del libro que son, de nuestro tema: la circulación de la palabra y la forma de la palabra.
Como afirmé hace unos veinte días en el Museo Pompidou de Paris, en una reunión con directores de museos de Europa en la que se me propuso responder una pregunta importante, inteligente, muy poco habitual: ¿Cómo incide en Europa el eurocentrismo?, es Europa la que esta sola. Se mira en el espejo narcísico de sus museos, pero carece del verdadero espejo, el que puede ejercer resistencia y mostrarle los defectos, pues esos objetos no pueden devolverle la mirada. Europa carece de ese potente utensilio femenino que es el “espejito, espejito” de la Reina Mala de los cuentos: no ve su defecto en el reflejo que podrían brindarle los ojos de los otros, porque al otro lo tiene solamente atesorado en la vitrina de su poder colonial. La visita al Museo Chirac en el Quai de Branly me confirmó esa impresión, pues no vi otra cosa allí que “belleza encarcelada”, objetos retirados de su destino propio, de su lecho histórico, del paisaje en el que vivían arraigados. Desde allí hubieran podido seguir su camino e irradiar su influencia. Lo mismo pasa con los libros.
Nosotros, según García Márquez, necesitamos vernos en el ojo de Europa, en los libros de Europa, para no estar solos. Sin embargo, no registra que Europa siquiera percibe su soledad, soledad que la ha ido llevando lentamente hacia una decadencia de su imaginación creadora, la que en otro tiempo nos deslumbró, y a un tedio insoportable.
Tercera desobediencia:
Desesperaba a mis maestras, maestras de elite, en el Lenguas Vivas Juán Ramón Fernández de mi infancia, cuando nunca jamás, desde los seis años, en hipótesis alguna, acepté escribir mis redacciones en el modo del tú, y del háces en lugar del hacés. Así como continúo hasta hoy con la ardua tarea de modificar el corrector de lengua, todo el tiempo, a cada línea, para poner un acento en la i de decíme, en la i de veníte, en la e y en la a de si querés pasá por mi casa. A contracorriente de la conformidad, en desobediencia. Más tarde aparecería mi amado Arguedas, con su lengua quechua en español, con sus inflexiones del quechua en la lengua sobre-impuesta, su verdadero secuestro del castellano para decir lo que deseaba y era necesario decir: que era el indio quien llevaba la bandera de la historia y de la soberanía en nuestro continente.
Así como Polanyi ha hablado de la economía arraigada destruida por el capitalismo, necesitamos hablar de un arraigo de la palabra de su camino re-existente a pesar de la instituciones y en los gestos verbales de la gente.
Cuarta desobediencia:
El 7/08/2018, a las 19:12, Juan Pérez (nombre ficticio) de la muy prestigiosa editorial española La Eterna (nombre ficticio) escribió:
Estimada Sra. Segato,
Mi nombre es Juan Pérez y soy el editor de Ediciones La Eterna. Solo quería ponerme en contacto con usted para invitarla cordialmente a incorporarse de alguna forma a nuestro fondo editorial.
Su trabajo crítico me parece una joya intelectual que debería ser conocido y leído en todo el mundo. En España, por ejemplo, no llega con facilidad.
Por supuesto, sé que espacios editoriales para publicar no le faltan, muy concretamente Prometeo, con quien trabaja de forma continuada.
Aun conociendo esta situación, me permito invitarla desde la admiración de su trabajo.
Un cordial saludo,
Juan Pérez
Editor Senior
Madrid (España)
De: Rita Segato [mailto:ritalsegato@gmail.com]
Enviado el: viernes, 10 de agosto de 2018 3:13
Para: Juan Pérez
Asunto: Re: Ediciones La Eterna
Estimado Juan, le agradezco mucho los términos de su mensaje. Es estimulante saber que el esfuerzo de uno es apreciado, y sobre todo por un editor de una editorial tan prestigiosa. Pero creo que me va a entender si le digo que, como sabe, escribo desde la perspectiva de la Colonialidad del Poder y también del Saber. Mi perspectiva es crítica con relación al eurocentrismo, que no es otra cosa que un racismo aplicado a los saberes y productos de quienes habitamos y trabajamos en estas costas, en este lado de acá del mar, en un paisaje marcado y demarcado por el proceso colonial, que perdura hasta el presente. Entonces, yo tengo un editor, que es el primero que me tendió la mano en 2003, cuando deseaba retornar a mi país y nadie me conocía en Argentina. Lo estimo y me ha ayudado en una serie de situaciones de vida que fueron difíciles. Publico con él en español, de la misma manera que publicaría con uds. Sin embargo, por el hecho de que La Eterna queda del lado de allá del mar, la distribución es más fácil en todo el universo de los lectores en lengua española, y aunque mucho me alegró su mensaje, no me es posible concordar con eso, curvarme a eso, reconciliarme con eso. Se puede entender, verdad? Soy terca como una mula, lo sé. Pero es que me duele saber que un editor de América Latina no tiene las mismas facilidades para circular que una editorial española. Lo único que se me ocurre, entonces, es sugerirle que establezca una colaboración de algún tipo con mi editorial, Prometeo, para que entre las dos en asociación editen próximamente algo mío…. Qué le parece esa idea?
Sea cual sea su respuesta, le mando un abrazo y mi sincero agradecimiento por el aprecio hacia mi obra.
Rita
De: Juan Pérez
Asunto: RE: Ediciones La Eterna
Enviado el: viernes, 13 de agosto de 2018 12:22:11 GMT-3
Para: Rita Segato
Estimada amiga,
Lo entiendo perfectamente, por supuesto. Debo decir que me reconforta encontrar una intelectual que es consecuente con su discurso (eso no siempre pasa)…..
Juan Pérez
Editor Senior
Madrid (España)
Cito este intercambio con el editor Senior de una muy apreciada y por demás respetable editorial peninsular por su gran elegancia y el respeto mutuo, personal, que se revela entre el corresponsal que representa el interés de la empresa y yo, como su interlocutora. Se trata de una entre diversas invitaciones a publicar en editoriales globales que he recibido, todas declinadas por la razones que le expongo a Juan Pérez. Básicamente, como me decía en estos días mi querida Claudia Schwartz, que se crió entre los anaqueles de Fausto y ahora edita poesía con gran dificultad en Leviatán: ¿Por qué no puedo conseguir un libro de Chile, por qué no puedo conseguir un libro de Uruguay? ¿ Por qué no puedo acceder a autores de esos países desde Argentina, si no a través de España?
La verdad es que la dictadura persiguió a grandes libreros argentinos y destruyó el gran parque editorial que teníamos por medio de la persecución política, y Menem terminó el trabajo por la total desprotección en que dejó a la industria editorial argentina, que gozaba de gran prestigio en el mundo de habla castellana por su incontestable calidad. Honorables empresarios libreros persistieron y o surgieron para intentar resucitar lo perdido… Otros murieron de tristeza, como el padre de Claudia, con el cierre final de sus librerías Fausto y de su editorial, Siglo XX, en una supuesta “democracia” que, apenas recuperada, sucumbió a la colonialidad del poder y del saber. Las editoriales españolas compraron las editoriales de textos y manuales escolares, beneficiándose con el know-how ya existente en el país, y amenazaron así la belleza y el valor del pluralismo de la lengua y los modos de decir del arraigo argentino. Lloro por eso: era hermosa la Argentina de Fausto. Como es insubstituible la Argentina del Centro Editor de América Latina. El valor y meta histórica de un mundo en plural quedó así en situación muy frágil, en un proceso no muy diferente a lo que se dio con los sellos globales de grabadoras musicales, que compraron la música del mundo y la “ecualizaron” en un “world music” pasteurizado y rápidamente obsolescente. Quiero rendir homenaje aquí a los editores que sobrevivieron aquel tiempo destrucción y a las que comenzaron después de la ruina: Corregidor, Coligue, de la Flor, Biblos, Manantial, Lugar editorial, Espacio Editorial, Homo Sapiens, Pequeño Editor, Prometeo, Godot, Leviatán. Y discúlpenme si no he conseguido nombrar todas, o si alguna de las que nombré ya ha perecido.
Quiero que se entienda que no se trata del valor del patriotismo; se trata, sí, del valor del pluralismo.
Quinta desobediencia:
Nombremos nosotros. Demos los nombres. No le pasemos el mensaje a los jóvenes, como hacemos generalmente, de que vienen a la escuela, a la universidad, meramente para aprender. Porque ese aprender se refiere automáticamente a un aprender lo ya pensado, y por debajo de ese ya pensado contrabandeamos inevitablemente la idea de lo ya pensado en otro lugar. La faena del intelectual es la producción y donación de nombres. Lo aprendí de mi amado maestro Aníbal Quijano. Autoría viene de autorizar. Son dos términos profundamente emparentados. Pensemos desde acá, no deleguemos a que nos piensen el mundo en que vivimos desde afuera.
Nos pasa a nosotros, y le pasa a España también. Al igual que nuestro continente, se encuentra del lado del consumo y la aplicación de categorías teóricas, no a su formulación. No nos engañemos… Le pasa a ese país tan tristemente colonial y criollo como nosotros que es España, una nación que se conquistó a sí misma y siguió por el lado de acá, sin solución de continuidad, en el mismo año, 1492. La lengua española es numerosa, pero no es hegemónica. No produce un pensamiento teórico destinado a atravesar la Gran Frontera Global desde el Sur hacia el Norte. Libros editados acá por grandes conglomerados de editoriales destinadas al lucro global no son catapultados a las lenguas en las que las ideas alcanzan circulación e influencia planetaria. La reserva de mercado del Norte sobre lo que bien podríamos llamar “patentes” en el campo de las Humanidades es cerrado, inexpugnable. Porque, no nos equivoquemos: es el campo de las Humanidades, con su usina de palabras, su poiesis de conceptos, lo que da forma al futuro de la historia. Es por eso que se encuentra en manos de pocos, pocos que no están por aquí, la llave del camino de las Humanidades que cierra la puerta de esa circulación planetaria a los conceptos teóricos acuñados en nuestra lengua, con soberanía y autonomía, desde acá mismo, desde el suelo en que nuestros pies se asientan.
Sexta desobediencia:
Junto a la valla que se erige para que nuestras palabras no atraviesen, también se levanta un cerco inexpugnable para impedir el atravesamiento del estilo de escribir. La tecnología del libro de la academia del Norte se nos impone en las universidades. No nos curvemos a esa tecnología del texto originaria de una época en que la información, por su escasez, era un problema, y era un problema que las universidades del Norte imperial no tenían. Un texto o un libro eran la forma de exhibir el acceso a la información, el poder que significaba acceder a esa información. Hoy la información es un problema también, pero de signo opuesto. Estamos asfixiados en información, por eso lo que importa es la capacidad de elegir una ruta autoral en el fardo informativo que nos aplasta. Lo importante es desarrollar la habilidad de identificar lo que existe a nuestro alrededor sin ser nombrado y no abdicar del ensayo, que es nuestra forma de argumentar. No abandonemos el ensayo: el “yo digo”. La voz del ensayista es inexorablemente una voz autoral, que no se esconde por detrás de la coartada del fichaje. Tengamos en cuenta que la verdad es un acuerdo entre interlocutores. Los nombres bien encontrados son como pergaminos en botellas arrojadas al mar que llegan a destino. Puedo afirmar que sencillamente me consta.
Séptima desobediencia:
Construyamos nuestra propia desobediencia. No confundamos el Ni una Menos con el Me Too, y no nos enredemos en su tensión con el Manifiesto de las intelectuales francesas. Cada movimiento y cada feminismo solo puede ser construido con los elementos de su propia historia. En la disputa entre el feminismo anglo y el francés, yo leo claves de dos historias de la conyugalidad, dos formas de la sexualidad y el amor instaladas por civilizaciones y líricas diferentes, como lo ha hecho notar hace tiempo ya Peter Gay y también Josefina Pimenta Lobato. Están en juego allí dos modelos del amor, el anglosajón y el francés.
En lo que al Ni una Menos respecta, recordemos que existe sí una colonialidad al interior de los movimientos sociales. Esa colonialidad suele traicionarnos y desorientarnos. El Me Too, con su raíz en el feminismo pilgrim norteamericano, se dirige y le hace señas a la paternidad del Estado, a un tercero como árbitro indispensable de las relaciones, a un abogado en la almohada, posiblemente como única herramienta en un mundo de individualismo a ultranza. Mientras el Me Too le habla al Estado, el Ni una Menos le habla a un nosotras y nosotros, le habla a una sociedad.
Nuestro feminismo pertenece a un mundo en el que aun en las metrópolis blanqueadas la vincularidad es vital y puede y debe ser conservada por el amparo que nos brinda y la felicidad que nos trae. Un mundo en el que se han preservado jirones de comunidad. Estoy convencida de que no debemos delegar el arbitraje de nuestra vida erótica a un tercero.
Todavía creo que la gestión del deseo debe ser posible en nuestro mundo cuerpo a cuerpo, cara a cara, y que debemos luchar por eso, creando las condiciones para que sea posible. Para eso habrá que trabajar arduamente sobre las relaciones de poder en el campo del trabajo y del estudio, en los cuales la jerarquía es decisiva y el patriarcado se manifiesta con más saña, y regenerar las estructuras comunales capaces de vigilar y cuidar la forma en que llevan la vida las personas. El resto corre por cuenta de desmontar el orden político patriarcal, e inaugurar una nueva era de la historia. Vamos claramente hacia allá.
Epílogo. La Octava
¡Abajo el mandato de masculinidad!
¡Por el derecho de los pueblos a sus territorios y a su estilo de vida en el arraigo comunal!
¡Sí al aborto legal, seguro y gratuito!
¡Ni una menos!
¡Justicia para Sabina Garnica, niña de 11 años habitante del barrio Virgen Desatanudos de La Rioja y entusiasmada militante de La Garganta Poderosa, violada y asesinada el 14 de abril!