Riflessioni di Mauro Antonio Miglieruolo
a
Lo scrittore è l’onnisciente per antonomasia,
non Deus (cioè narrazione), ma Dio (cioè creazione).
Creatore in quanto onnisciente, che crea nei
limiti dei suoi propri limiti. Creatore dunque che, come tutti i creatori, crea
quel che può creare e non altro. Cioè crea quel che sa ed ha sperimentato. Crea
per accrescere sé stesso, aggiungendo a sé stesso sempre nuove determinazioni.
Crea dunque nei limiti di quel che conosce,
limiti che però non conosce, limiti mobili che amplia ogni volta che crea. Lo
scrittore ignora quasi tutto di sé stesso, a partire dalla propria sapienza.
Per scoprire e poi estendere questi limiti (più li conosce, più li spinge
innanzi). Crea per conoscere, avviando un processo attraverso il quale può
essere conosciuto.
L’alienazione dalla quale pochi sanno
difendersi si impadronisce totalmente di lui. La sua materialità regredisce in
forza dell’aleatorio della sua propria opera. Che gli si sostituisce. La
contempla e argomenta: questo sono io. Tutti
stabiliscono, questo è lui. Proprio lui. Sempre meno uomo e sempre
più immagine. Ma solido e lungo più di qualsiasi altro uomo. In quell’opera è
il mondo ed è lui, la parte di mondo entrata in lui che è diventata lui.
Povero scrittore. Morirà un giorno ed è
possibile che non sappia di essere mai vissuto!
b
Un ignorante dunque con la presunzione
dell’onnisciente, che pratica l’onniscienza. Un onnisciente speciale che sa e
può sapere dell’opera sua solo dopo che questa è diventata tale, che si è
scritta per mezzo di lui. Solo dopo che è diventata narrazione, opera, fatica,
ripensamento continuo e revisione. Continua revisione. L’opera, povera vittima,
è destinata al sacrificio di continue chiamate in correo che lo chiamano
in correo (lui e la sua opera), complice del doppio costituito dal Deus e dal
Dio (bisognerà pure se ne parli, un giorno, di tale doppio. Che poi in effetti
è un triplo. Include l’unione di tutti coloro che dietro l’opera si affannano,
con i diversi intenti, di delimitarla, oltraggiarla, discuterla,
neutralizzarla, asservirla oppure, raramente, valorizzarla).
Ma se l’onnisciente sa della narrazione a
posteriori, sa almeno questo: che sta per essere, che si stanno rompendo le
acque della creazione. Lo sa dall’emozione che gli sorge nel petto; lo sa
dall’urgenza che lo trascina, ovunque egli sia, verso la penna o la tastiera.
Lo sa dalle singole parole che lo ossessionano, pazzo oltre che Dio; parole che
è costretto a ripetere interminabilmente, che gli creano disagio finché non le
include in una delle pagine che aspettano. Che lo aspettano. Che gli forniscono
sollievo.
Povero scrittore. Respira nella libertà,
aspira alla libertà, ma è una libertà costretta, ancestrale, una servitù senza
rimedio. Della quale egli è felice. Spesso gli unici momenti di felicità di uno
molto infelice.
c
Sa in quanto l’opera, sempre che sia letta,
per essere deve continuare a essere letta. Sa esclusivamente in ragione di
questa lettura.
Sa dunque perché gli viene spiegata. Da questa
spiegazione, a una spiegazione propria, il passo è breve. A volte precede la
spiegazione altrui sapendo che gli sarà chiesto di rispondere. E allora si
fornisce di una spiegazione qualunque. Una spiegazione che non spiega nulla.
L’opera non può essere spiegata, deve essere goduta. L’autore stesso non è in
grado di spiegare. Saranno le moltitudini, se verranno, a farlo.
L’autore che non ha scritto e non si è scritto
in quello che scrive, allora è meglio che taccia. Che apprenda che è un Dio
muto quello con cui abbiamo a che fare; con il quale lui stesso ha a che fare.
Ma noi sappiamo che risponde non perché abbia
molto da dire, ma perché è in obbligo di rispondere. Le domande incombono. Può
scegliere di tacere e spesso lo fa (il suo destino è il paradiso). Altri
parleranno (per loro il purgatorio, la contesa, le risse con i critici). Altri
ancora, i molti, parleranno. Diranno senza che sussista il bisogno effettivo di
dire, salvo la costrizione della vanità e dell’insicurezza (per loro l’inferno
del successo e dell’insuccesso, e soprattutto la vergogna di aver tradito).
Diffidate di coloro che parlano troppo. Non
c’è nulla da dire sul creato, se non appunto che non c’era e poi c’è stato. È
stato creato, appunto.
Lo scrittore non parla, scrive. È l’attore che
parla, che dice quel che altri ha scritto, anche quando è lui a scrivere. Dice
sapendo quel che c’è da dire e come dirlo, cosa che non sa quando scrive.
Quando scrive occorre lasci il campo a qualcun
altro che ugualmente non sa, ma sa almeno dove vuole andare. Lo scrittore quasi
mai sa quel che dice. Nell’uguale di quando scrive. E del dove vuole andare.
Povero scrittore. Alla mercé di tutto e tutti.
Alla mercé persino di sé stesso.
d
La lotta tra chi sa e chi non sa, tra colui
che è infitto nelle tenebre entro le quali tenta di far luce; e colui che alla
luce del sole commette ogni sorta di abusi sulle opere, sul corpo medesimo
dello scrittore è quel che noi chiamiamo letteratura. Vergogna delle genti. Il
luogo della menzogna per elezione. Il luogo dell’invenzione di quello che non
c’è. Un non c’è che preso nel suo insieme diventa verità, un falso dato per
avere il vero. Ma dato a danno dell’integrità di qualcuno, chiamato in giudizio
come persona e come scrittore.
Perché, osservate: la guerra, la pace, gli
armistizi amorosi ed affaristici innumerevoli; gli spiriti umani evocati e
ansiosi d’essere partecipi, modellando, incitando, ammonendo ed imponendo
persino, suggeriscono una unica considerazione. La seguente (chiamiamola
ambizione): tutti vogliono affiancare l’autore, sostituirsi a lui, fare della
sua opera una propria opera. Alla quale si chiede di cambiare aspetto; o
quantomeno di aggiungere aspetto ad aspetto. Fino a stabilire un punto di non
ritorno da renderla un irriconoscibile, ma tale che tutti possono conoscerla e
confrontarla positivamente rispetto l’originale.
La tragedia dell’autore di successo è
esattamente questa. Che si ritiene possibile avere rispetto dell’opera senza
rispettarla, lasciandola alla mercé del primo venuto.
Inutilmente l’autore spera e dispera. Dopo la
morte i suoi sodali eleveranno inutilmente barriere, protesteranno e
lavoreranno per recuperarla al (non più esistente) originale. Si tratta dei
nemici peggiori. Che o irrigidiscono momentaneamente l’opera, oppure aggiungono
a loro volta. Illudendosi di rispettarla fanno lo stesso che tutti gli altri.
La contravvengono.
Qui però è detto ripetutamente opera. Più
opportuno sarebbe stato dire autore. Meglio ancora autore ed opera. L’autore
scompare in essa. Sopravvive nel mondo come nome, privo di sembianze. Pur
avendo scritto proprio per mantenerle (le sembianze).
Povero autore. Privato di sé stesso e
dell’opera proprio mentre lo si valorizza e gliela si attribuisce con merito.
e
Ma esistono differenze narrabili tra i diversi
percorsi che popolano questo breve scritto? Tra attore e scrittore? Opera e
autore? Lettore e creatore? Tra nobiltà critica e bracciante della penna?
Lo scrittore subisce, ma è nel suo campo; l’autore
rivendica, ma è nell’umano; il creatore sgomenta, a volte pentito di quel che
ha fatto. Il bracciante solo tace, troppo impegnato nelle fatiche del
dissodare, aprire terreni nuovi, offrire possibilità a una diversa vita di
prosperare. Funzione di vita allargata è stata definita l’arte (quando invece,
lo sa bene chi vi si dedica, quanto la vita risultante, quella che avanza al
tempo della penna, possa essere ristretta. Quanti amori non sono stati suoi per
poter dire delle possibilità aleatorie che l’amore offre!). Se ne deduce
indebitamente che l’autore sia all’origine di questo più largo attribuito
all’arte. Come tale viene presentato. Come colui che sgomita per allargarsi e
perciò stesso allargare il mondo.
Ahinoi! Il gran padre Dante… il lontanissimo
trascolorante Omero…
Ma possiamo contentarci di questa bugia?
Passar sopra al ristretto d’ognuno? Per quanto grande; per quanto un essere
valga tutti gli esseri e sia il senso medesimo dell’essere del mondo, è in una
limitazione che si manifesta (il piccolo ometto sbraitante che presume e
riassume tutte le presunzioni). Mai dimenticare che la grandezza di Napoleone è
inclusa in un uomo molto piccolo; e Dante in un uomo con il naso molto grande.
In ogni caso resta quel che è stato enunciato
all’inizio: ch’egli è Dio, un Dio affiancato da un Deus, da una logica
narrativa pervasiva ineludibile e potente quanto la medesima gravità.
Che è dentro il corpo suo di spirito e di
pensiero, d’azione e immobilità, che avviene l’atto compiuto della perpetua
invasione di campo (letteratura), nonché della sommersione: l’uomo che pretende
di continuare come tale, quando già non lo è più.
Che è lo scrittore a stabilire limiti e natura
della contesa. Non per nulla è Dio, cioè Deus (bisognerebbe approfondire: i
termini appaiono intercambiabili, ma all’atto pratico non è possibile
inter-cambiarli. Possono, questo sì, essere individuati nell’atto di
sostituirsi l’uno all’altro, ma non definirli con le medesime parole. Non
portano in sé i medesimi concetti. Se non che il Deus inventa, Dio crea: non
altro che questo). Non per nulla si dice Figlio di Dio. Ma il Deus di chi è
figlio se non dell’atto medesimo della scrittura (nasce con la prima parola
apposta sulla pagina: anzi, un secondo prima dell’apposizione)?
Non sappiamo, non vogliamo, non comprendiamo.
Constatiamo, abbiamo occhi per vedere e
orecchie per ascoltare. Vediamo: la lotta è eterna, indefettibile, che non
ammette patteggiamenti, negoziati e pacificazioni. O Dio o Deus, non c’è
scampo. Se vince il Deus, se il Deus rifiuta di servire, si ribella e trionfa,
Dio diventa impotente. Abbandona il terreno della scrittura ed entra in quello
dell’arbitrio, della parola che non è parola, non significato, non indagine.
Nel non senso, nella noia. Se Dio vince non si sa in quale origine, punto o
totalità, trovi il lasciapassare; se non che molte sono le possibili e varie
soglie, di varia consistenza, che gli è concesso varcare: senza che le possa
trovare. Il Dio trionfante è anche il Dio perdente. Nel rigoglio della
creatività si smarrisce, è il Caos. Poi il nulla.
Povero scrittore. Canna al vento esposto ai
mille pericoli. A critici, Deus, Attori, altri scrittori, sé stesso come
scrittore. Sia lodo a lui, perché resiste, continua, non smette di donare
porzioni di vita alla propria creatività, paginette all’avidità dei lettori.
Faccia tosta iperbolica che pretende d’averne creatività; e spesso finisce pure
con l’avere.