Se prendi in mano questo libro
sappi che è un libro pericoloso, leggerai cose che devono essere dimenticate,
così vogliono in molti, ma non noi.
Il libro racconta la storia di
Julian Assange nella testimonianza di prima mano di Stefania Maurizi, ed è un
libro avvincente come un libro giallo.
Julian
Assange è come il bambino della storia I
vestiti nuovi dell’imperatore, di Hans Christian Andersen, ha mostrato e
dimostrato che l’imperatore era (ed è) nudo.
E
l’imperatore, quando viene scoperto, s’incazza, la vendetta è il suo credo.
Con
Assange hanno usato e usano lo spionaggio, la calunnia, le false testimonianze,
e residualmente la Legge, manovrata e interpretata secondo i loro bisogni, con
un potere di persuasione e di ricatto senza limiti, quando c’è bisogno.
E
da anni Julian Assange è in un girone infernale, e come Antonio Gramsci, deve
essere messo in condizione di non nuocere mai più, come Alaa Abdel Fattah, in
Egitto. Solo quello vogliono.
Scrive
Frank Zappa: L'illusione della libertà
continuerà fino a che è vantaggioso che continui. Nel momento in cui la libertà
diventerà troppo costosa, tireranno giù la scenografia e il sipario,
toglieranno i tavolini e le sedie e potrai vedere il muro di mattoni in fondo
al teatro.
Coincidenze
1 - C’è chi si chiede come mai Daniel Ellsberg,
il whistleblower dei Pentagon Papers (qui
la recensione del film di Spielberg, The
Post) non finì in galera, a differenza di Chelsea Manning. Probabilmente la
risposta sta nel fatto che allora la stampa era il quarto potere, oggi è quasi
sempre embedded, non usa il potere che potrebbe avere.
Ecco
la coincidenza: quando Wikileaks aveva la vitale necessità di server per il suo
sito, sotto attacco dai sicari del Potere, a negare i server fu Amazon, che,
guarda caso, oggi è il padrone, con un gioco di società, scatole cinesi, o
meglio Usa, del Washington Post, proprio il giornale che coraggiosamente
pubblicò i Pentagon Papers. Amazon cane da guardia che controlla il Potere non
se l’immagina nessuno, al massimo cane di compagnia o da riporto.
Nel 1789 Benjamin Franklin
scriveva: “La libertà della stampa deve essere assoluta. I giornali devono essere lasciati
liberi di esercitare la propria funzione investigativa e di controllo con forza, vigore e senza
impedimenti”, oggi sarebbe in cella con Julian Assange.
2 - Crown
Prosecution Service, l’accusa contro Assange era guidata da Keir Starmer, che
riuscì a tenere Assange in galera, probabilmente era solo un sicario il cui
mandante era la Cia.
Keir
Starmer è stato così bravo che riuscì a diventare segretario del partito
laburista, riuscendo anche a cacciare dal partito Jeremy Corbyn; per
antisemitismo, un’accusa passepartout. Altra missione compiuta, dopo Assange
via l’anomalia Corbyn, il Potere ringrazia ancora Keir Starmer.
QUI si può guardare la
puntata di Presa Diretta dedicata ad Assange
Il libro inizia così:
Tutto era iniziato nel 2008, quando una mia fonte aveva smesso di parlare
con me perché convinta di essere intercettata illegalmente.
Chi contatta noi giornalisti per raccontarci in modo confidenziale qualcosa
di scottante – che qualcuno che conta vorrebbe tener nascosto – lo fa solo se
ha fiducia nel fatto che non verrà scoperto e quindi non andrà incontro a gravi
conseguenze, come il licenziamento dal posto di lavoro, cause legali devastanti
o, in casi estremi, la prigione o la morte. La mia fonte aveva avuto il
coraggio di cercarmi, ma dopo i primi incontri le sue preoccupazioni avevano
prevalso.
L’avevo aspettata a lungo per quello che sarebbe stato il nostro ultimo
appuntamento. Alla fine avevo capito che non si sarebbe presentata e non ce ne
sarebbe stato un altro. Non avevo modo di verificare se fosse davvero
intercettata illegalmente o se fosse soltanto una sua paranoia, ma per fortuna
presi molto sul serio le sue preoccupazioni.
Nel corso degli anni avevo parlato con decine di fonti giornalistiche:
alcune mi avevano dato brandelli di informazioni utili, altre mi avevano solo
fatto perdere tempo, altre ancora mi avevano permesso di arrivare a scoop
notevoli. Ma nessuna aveva mai inciso tanto profondamente nella mia vita e nella
mia professione come lei. Quella fonte, che non volle mai rivelarmi una sola
parola di ciò che sapeva, cambiò per sempre il mio lavoro.
Fu in quel momento, infatti, che mi resi conto di dover trovare una
soluzione per comunicare in modo molto più sicuro. Le vecchie tecniche, che
purtroppo si usano ancora oggi in tutte le redazioni, erano e sono
completamente superate: risultano del tutto inadeguate a un mondo in cui forze
di polizia, spie assoldate da grandi aziende e servizi segreti possono ascoltare
con facilità impressionante noi giornalisti e tutte le persone che parlano con
noi per rivelarci qualcosa di importante.
Se avessi studiato diritto, avrei cercato protezione nelle leggi, ma ho
studiato matematica e così per me fu naturale guardare a codici cifrati e
password per una possibile soluzione. All’università avevo imparato un po’ di
crittografia. Ne avevo una conoscenza solo teorica, ma quell’arte di proteggere
le comunicazioni tra due persone, in modo che non siano accessibili a tutti
indiscriminatamente, mi aveva intrigato.
Come aveva scritto Philip Zimmermann, l’inventore del programma PGP (Pretty
Good Privacy) per criptare email e documenti, «che tu stia pianificando una
campagna politica, discutendo delle tue tasse o intrattenendo una relazione
sentimentale segreta, che tu stia comunicando con un dissidente politico in un
paese autoritario o facendo altro, non vuoi che le tue email o i tuoi documenti
privati siano letti da nessuno. Non c’è nulla di sbagliato nell’affermare il
proprio diritto alla privacy».
Non solo non c’è nulla di sbagliato, ma per noi giornalisti e le nostre
fonti è un diritto fondamentale: se non garantiamo protezione a chi parla con
noi in modo confidenziale, nessuno ci fornirà più informazioni.
Nel vecchio mondo analogico, quello precedente l’era digitale, gli apparati
dello Stato, dalle forze di polizia ai servizi segreti, potevano aprire le
lettere con il vapore per leggere la corrispondenza dei cittadini o ascoltare e
trascrivere le telefonate una per una, ma erano soluzioni che richiedevano
tempo, non potevano essere usate in modo sistematico su intere popolazioni. Le
comunicazioni digitali, invece, hanno cambiato tutto: ora sorvegliare
segretamente la corrispondenza via email di milioni di persone è diventato un
gioco da ragazzi.
Proprio questa trasformazione aveva spinto l’americano Philip Zimmermann,
ingegnere informatico e pacifista, a creare il suo programma PGP. Aveva visto
arrivare fin dall’inizio un rischio per la democrazia.
Le sue preoccupazioni possono essere riassunte in questa testimonianza
davanti a una commissione del Senato statunitense nel 1996: «Alcuni nel governo
sembrano intenzionati a adottare e consolidare un’infrastruttura per le
comunicazioni che neghi ai cittadini la capacità di proteggere la loro privacy.
Questo è inquietante, perché in democrazia può succedere che di tanto in tanto
vengano elette delle brutte persone, a volte anche bruttissime. Normalmente una
democrazia che funzioni ha il modo di rimuoverle dal potere, ma
un’infrastruttura tecnologica sbagliata potrebbe in futuro permettere a un
governo di sorvegliare ogni mossa di chi gli si oppone. E quello potrebbe
benissimo essere l’ultimo governo che eleggiamo». Zimmermann non era un
radicale, era un pacifista che credeva nel dissenso politico tanto da essere
stato arrestato per le sue proteste pacifiche contro le armi nucleari. Una
volta intravista questa minaccia per la democrazia, fece un atto di
disobbedienza civile: proprio mentre il Senato americano cercava di far passare
la Senate Bill 266 – una proposta di legge che permetteva al governo di
accedere alle comunicazioni di chiunque – creò un software per cifrare le
email, PGP, e lo distribuì in modo completamente gratuito affinché si
diffondesse il più possibile, prima che il governo potesse rendere illegale la
crittografia.
Fu una rivoluzione: come ha raccontato Zimmermann stesso, prima di PGP non
era possibile per il cittadino ordinario comunicare a lunga distanza con
qualcuno in modo sicuro, senza andare incontro al rischio di essere
intercettato. Questo potere era saldamente ed esclusivamente nelle mani dello
Stato. Con PGP questo monopolio finì. Era il 1991.
Il governo degli Stati Uniti, però, non stette a guardare: mise sotto
inchiesta Zimmermann, ma alla fine, nel 1996, chiuse le indagini senza alcuna
incriminazione. Da Amnesty International fino agli attivisti politici in
America Latina e nella ex Unione Sovietica, PGP iniziò a diffondersi in tutto
il mondo, generando un cruciale dibattito sulle libertà civili e sulla
sorveglianza, e ispirando la creazione di altri tipi di software per criptare
le comunicazioni.
Quel giorno che il mio appuntamento saltò per me fu decisivo: se codici e
password proteggevano gli attivisti, potevano proteggere anche noi giornalisti
e chi parlava con noi. Fu una mia fonte nel mondo della crittografia a mettere
per la prima volta sul mio schermo radar Julian Assange e WikiLeaks nel 2008,
quando li conoscevano in pochissimi perché non avevano ancora pubblicato i
grandi scoop giornalistici che li hanno poi resi famosi in tutto il mondo. «You
should have a look on that bunch of lunatics», «Dovresti dare uno sguardo a
quella banda di matti» mi disse l’esperto. I lunatics erano Assange e il suo
team di WikiLeaks: il mio amico crittografo li chiamava così con tono
scherzoso, ma dimostrava di averne considerazione. E se uno con le sue
competenze e la sua dedizione ai diritti umani si interessava a loro, voleva
dire che stavano facendo qualcosa meritevole di attenzione.
Cominciai a osservare con sistematicità il lavoro di WikiLeaks, che era
proprio agli albori, perché era stata creata nel 2006. L’idea era
rivoluzionaria: sfruttare la potenza della rete e della crittografia per
ottenere e «far filtrare» – in inglese to leak, da cui il nome WikiLeaks –
documenti riservati di grande interesse pubblico. Proprio come i media
tradizionali ricevono informazioni da sconosciuti che mandano alle redazioni
lettere o pacchi di documenti, così Assange e la sua organizzazione ricevevano
file scottanti, inviati in forma elettronica alla loro piattaforma online da
fonti anonime. La protezione di chi condivideva documentazione delicata era
garantita da soluzioni tecnologiche avanzate, come la crittografia, e da altre
tecniche ingegnose.
Nel 2006, quando WikiLeaks era stata fondata, non esisteva un solo grande
giornale al mondo che offrisse alle sue fonti una protezione basata
sistematicamente sulla crittografia: ci sono voluti anni prima che il più
influente quotidiano del mondo, il «New York Times», e altri grandi media si
decidessero a adottarla, rifacendosi all’intuizione di WikiLeaks.
Julian Assange e la sua organizzazione erano senza dubbio dei pionieri.
Erano particolarmente interessati ai whistleblower, persone che, lavorando
all’interno di un governo o di aziende private, e venendo a conoscenza di
abusi, gravi atti di corruzione o addirittura crimini di guerra e torture
commessi dai loro superiori e colleghi, decidono di denunciarli nel pubblico
interesse, fornendo ai giornalisti informazioni fattuali. Il whistleblower è un
individuo che agisce secondo coscienza. Non si volta dall’altra parte facendo
finta di non vedere. Denuncia pur sapendo di andare incontro a ritorsioni anche
gravi, in alcuni casi perfino letali, perché, per esempio, chi rivela i crimini
dei servizi segreti rischia letteralmente la testa e, spesso, può contare su
due uniche forme di protezione: nascondersi dietro l’anonimato oppure fare
l’opposto, ovvero uscire allo scoperto e sperare nel sostegno dell’opinione
pubblica.
Sfruttando la potenza della rete e della crittografia, WikiLeaks offriva
soluzioni tecniche avanzate per proteggere i whistleblower. Queste non solo
fornivano uno scudo a chi denunciava nel pubblico interesse, ma attiravano
anche fonti con talenti ed esperienze professionali particolari, che avevano
potenzialmente accesso a informazioni importanti. Perché, alla fine, chi
apprezzava uno strumento così complesso e poco diffuso com’era la crittografia
in quegli anni? Chi l’aveva studiata, o chi lavorava nel mondo del software o
dell’intelligence. L’impostazione tecnologicamente avanzata di WikiLeaks la
rendeva appetibile a tutta una comunità che parlava il linguaggio della scienza
e della tecnologia.
I risultati arrivarono presto e, quando iniziai a osservarli assiduamente
dall’esterno, in quel lontano 2008, ne rimasi profondamente colpita.
la
prefazione di Ken Loach
Questo è un libro che dovrebbe
farvi arrabbiare moltissimo. È la storia di un giornalista imprigionato e
trattato con insostenibile crudeltà per aver rivelato crimini di guerra; della
determinazione dei politici inglesi e americani di distruggerlo; e della quieta
connivenza dei media in questa mostruosa ingiustizia.
Julian Assange è noto a tutti.
WikiLeaks, in cui ricopre un ruolo determinante, ha fatto emergere gli sporchi
segreti del conflitto in Iraq e molto altro ancora. Grazie ad Assange e alla
sua organizzazione, abbiamo conosciuto l’orrore di crimini di guerra come
quelli documentati nel video Collateral Murder o quelli
commessi dai contractor americani, per esempio a Nisour Square, a Baghdad, dove
nel 2007 furono sterminati quattordici civili, tra cui due bambini, e altre
diciassette persone furono ferite. Negli ultimi giorni del suo mandato
presidenziale Trump ha graziato gli assassini di quel massacro, ma si è
assicurato che Assange rimanesse in prigione.
Stefania Maurizi ha seguito il caso
fin dall’inizio. Usando le leggi di accesso agli atti, che vanno sotto il nome
di Freedom of Information, ha scoperto documenti che rivelano gli attacchi a
Julian Assange. Ha seguito nel dettaglio questi straordinari eventi per oltre
un decennio.
Al cuore di questa storia c’è il
prezzo terribile pagato da un uomo, trattato con estrema crudeltà per aver
messo a nudo un potere che non risponde a nessuno, nascosto da un’apparenza di
democrazia.
Mentre scrivo, il caso è nelle mani
del sistema giudiziario del Regno Unito. La Gran Bretagna si vanta del fatto
che le sue corti sono indipendenti, che rispetta lo stato di diritto e che i
suoi giudici sono incorruttibili. Be’, vedremo. Julian Assange è un giornalista
il cui unico crimine è stato quello di rivelare la verità. È per questo che ha
perso la libertà e ha passato gli ultimi due anni isolato in una prigione di
massima sicurezza, con effetti devastanti, del tutto prevedibili, sulla sua
salute mentale.
Se sarà estradato negli Stati Uniti
rimarrà in carcere per il resto dei suoi giorni. Le corti inglesi consentiranno
un’ingiustizia così mostruosa?
In Gran Bretagna ci sono anche
altri aspetti di questa vicenda che ci riguardano da vicino: il grande esborso
di denaro e risorse pubbliche per tenere Assange confinato nell’ambasciata
dell’Ecuador; l’abietta vigliaccheria della stampa e dei media, che si sono
rivelati incapaci di difendere la libertà del giornalismo; nonché l’accusa che
il Crown Prosecution Service, in quel periodo guidato da Keir Starmer, abbia
tenuto Assange intrappolato in un incubo legale e diplomatico.
Se riteniamo di vivere in una
democrazia dovremmo leggere questo libro. Se ci sta a cuore la verità e una
politica onesta dovremmo leggere questo libro. Se crediamo che la legge debba
proteggere gli innocenti, infine, dovremmo non solo leggere questo libro, ma
anche pretendere che Julian Assange sia un uomo libero.
Per quanto ancora possiamo
accettare che il meccanismo del potere segreto, responsabile dei crimini più
vergognosi, continui a farsi beffe dei nostri tentativi di vivere in una
democrazia?
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