Nell’ufficio della questura della città in cui vivo è stato affisso un enorme cartello color giallo e azzurro in cui si da il benvenuto ai profughi ucraini. Mi colpisce vedere tale oggetto all’interno di un ufficio in cui spesso i migranti con cui lavoro in accoglienza si vedono rigettare la loro domanda di asilo, senza che ci sia alcun cartello edulcorante a salutarli.
Da quando è scoppiata la guerra in Ucraina la mobilitazione della
popolazione occidentale per fornire aiuto agli ucraini in fuga è stata di una
generosità e un altruismo senza precedenti. Forse per la prima volta anche
gruppi di destra, notoriamente contrari all’accoglienza di migranti, si sono
spesi in prima persona per portare i profughi ucraini al sicuro in Italia, in
altre circostanze questo tipo di azioni sarebbero state viste come “favoreggiamento
dell’immigrazione clandestina”.
Questa reazione ha destato non poco disorientamento negli ambienti che si
occupano di accoglienza, che da sempre devono combattere contro un sistema che
spesso ostacola apertamente l’inserimento delle persone straniere sul
territorio. Uno dei dibattiti più ignobili, scaturito dai politici di destra
(ancora loro), è stato quello sull’esistenza di “profughi veri” e “profughi
finti”.
Si fanno due pesi e due misure, le discriminazioni si sono rivelate in modo
eclatante nel trattamento riservato ai profughi provenienti dall’Ucraina e
tutti gli altri.
Nonostante io lavori con persone migranti da diversi anni, consideri me
stessa una persona sensibile a certi temi e abbia sentito le storie più atroci
di violenza e fuga per la propria salvezza, ammetto con un certo disagio
che non sono esente da tale atteggiamento “doppiopesista”.
Il panico, la disperazione e il dolore sui volti degli ucraini sono
sensazioni che immagino sulla mia carne in modo vivido come mai prima.
Mentre scrivo è trascorso poco più di un mese dal 24 febbraio, il giorno in
cui Vladimir Putin ha dato l’ordine all’esercito russo di invadere l’Ucraina ed
è iniziata la guerra.
Quel mattino mi ero svegliata all’alba per recarmi al centro tamponi ed
accertare la mia positività al covid-19, prima di alzarmi dal letto ho preso il
cellulare e aperto i social, ho iniziato a leggere le prime notizie dei
bombardamenti in alcune città ucraine.
Mio fratello vive a Odessa da qualche anno, sua moglie e la famiglia di lei
sono ucraini, abbiamo festeggiato il matrimonio tutti insieme solo qualche mese
prima. Lo chiamo immediatamente, mi dice che è stato svegliato dalle bombe e
che sta scappando con sua moglie verso il confine moldavo. Io rimango incredula
e terrorizzata. Mio fratello e sua moglie stanno scappando dalle bombe, nel 2022, al
confine con l’Europa. Non avevo mai veramente preso in considerazione
che qualcosa di simile potesse accadere a delle persone così vicine a me, non
sono riuscita a tirare il fiato finché non ho saputo che avevano valicato a
piedi il confine.
I giorni seguenti sono stati un continuo controllare in modo ossessivo se
le persone ucraine che conosco erano online sui social, leggere qualsiasi
notizia riguardante la guerra, stare con la faccia incollata al telefono o al
televisore. L’essere in isolamento per Covid non mi ha sicuramente aiutato a
trovare altre distrazioni, in compenso ha reso il tutto ancora più surreale.
Poi la guerra ha iniziato a fare il suo corso, mostrandosi sotto
forma di città e quartieri rotti, deturpati come se fossero fatti di cartone;
somigliano più a delle discariche in fiamme che a luoghi dove fino a circa un
mese fa era organizzata intorno la vita. Alcuni di quei luoghi li ho visitati
solo qualche anno prima durante una vacanza, adesso sono irriconoscibili. Mi
colpisce la quantità di macerie e oggetti riversati al suolo, come una marea
demoniaca incontenibile, mi chiedo come facessero le abitazioni dei cittadini a
contenere tutti quegli oggetti destinati alla quotidianità e che ora sono
esplosi ovunque. Tutti quegli intimi spazi domestici violentati e
sparsi disordinatamente sotto gli occhi di chiunque. Niente è più al suo posto
e niente ha più un posto dove stare, è solo caos e distruzione.
Vedo le foto dei corpi di persone bestialmente freddate mentre stavano
cercando di salire su un treno o facendo la fila per una razione di pane, immagino
su quei corpi sporchi e in pose scomposte il volto dei miei familiari, dei miei
amici oppure anche il mio. Ma l’idea è troppo ripugnante e scaccio subito quel
pensiero invasivo. La forte minaccia di tali pensieri è data dal riconoscere
benissimo che si tratta solo di un caso se lì ci sono altre vite e non
la mia e quella dei miei cari. Vite stroncate di netto con la stessa facilità
con cui si sterminano le formiche durante una disinfestazione.
Le vite spezzate non sono solo quelle di chi muore ma anche di chi
resta, durante i colloqui di supporto psicologico che svolgo con i
beneficiari in accoglienza emerge spesso la difficoltà a ristabilire un proprio
ruolo nel mondo da parte di chi è sopravvissuto all’orrore.
Nel suo documentario “The Earth is Blue as an Orange”, uscito in
Italia nel 2020, la regista ucraina Iryna Tsilyk riprende la vita di una
famiglia ordinaria che vive in “zona rossa” nel Donbass, dove la guerra è
iniziata dal 2014. Alla domanda: “Come sarebbe stata la tua vita se non ci
fosse stata la guerra?” una delle figlie adolescenti risponde: “Sarei stata più
intelligente, invece sono diventata una persona irritabile e cattiva. Se non ci
fosse stata la guerra sarei rimasta buona e gentile, come ero da bambina”. La
sorella invece racconta che per lei: “La guerra è vuoto, perché tutti vanno
via”.
Non posso dire che non l’avessi saputo prima, l’ho sempre saputo, ma solo
ora l’ho davvero capito. La narrazione della guerra nella nostra
società era qualcosa di legato a un passato ormai sbiadito e considerato
destinato a non ripetersi, qualcosa che se succede, succede nei paesi del terzo
mondo, dove queste cose sono considerate da noi molto più plausibili e nessuno
se ne stupisce. Ma qui da noi no, la guerra armata di un paese che ne
invade un altro non è qualcosa che si pensava possibile, e forse anche per
questo fino all’ultimo nessuno ha veramente considerato questo
scenario, nonostante i sintomi prodromici fossero evidenti. Stiamo
subendo le conseguenze della nostra mancanza di immaginazione – o della nostra
più ostinata volontà di negarla – sembra chiaro solo ora che la guerra e
l’orrore mortifero che si trascina dietro è qualcosa che può colpire anche gli
occidentali ed è per questo che iniziamo a sentirci così minacciati.
Questa guerra non è come le altre che vediamo alla tv, questa stavolta è più
vicina e a scatenarla è una potenza mondiale.
Solo quando il problema rischia di coinvolgerci direttamente siamo in grado
di reagire?
Cosa ci spinge a trattare i profughi ucraini diversamente da tutti gli altri?
Cosa ci permette di dare un peso specifico al dolore in base alla provenienza?
Devo cercare di rispondere a queste domande per ribilanciare lo squilibrio
che ho nell’anima e ridurre il caos che ho in testa. Già dai primi giorni di
guerra sono stati pubblicati video inequivocabili di episodi di razzismo e
discriminazione, in cui persone di colore venivano respinte e
picchiate mentre cercavano di oltrepassare il confine come gli ucraini. Alla
visione di questi video mi ricordo di aver pensato che non me ne importava,
volevo solo sapere cosa accadeva al popolo ucraino.
Provo grande vergogna per questa mia prima reazione, l’atteggiamento
“doppiopesista” è qualcosa in cui non mi riconosco e che reputo spregevole,
eppure, viste le discriminazioni attuate nel modo in cui sono stati
elargiti gli aiuti umanitari, c’è chi oltre a pensare certe cose sull’onda
dell’emotività le ha anche agite.
Sento di dover cercare una spiegazione per fare tornare in asse i miei
valori, e per farlo devo ripartire dalle basi, da quei concetti sostanziali che
ci spiegano come funzioniamo, che per me sono legati allo studio della
psicologia.
In particolare nella letteratura che si occupa di psicologia sociale si
apprende velocemente che le persone per vivere insieme hanno bisogno di fare
ordine in modo da trovare e riconoscere facilmente tutto ciò che è situato nel
loro ambiente, questo vale per le cose come anche per le idee, e più in
generale per ogni significato che siamo in grado di creare. Proprio per questo
motivo dividiamo il mondo in categorie, anche per le persone, in
particolare questo tipo di suddivisione si chiama “categorizzazione
sociale” e ci permette di discriminare un certo gruppo di individui da un
altro. Questo processo può essere estremamente utile: ad esempio,
quando entro in un negozio e non riesco a trovare il prodotto che vorrei
acquistare, immediatamente inizio a cercare l’appartenente alla categoria
“commessi” perché dall’appartenente a questa categoria, anche se non lo conosco
personalmente, mi aspetto che indossi dei vestiti che lo rendano riconoscibile,
che lavori in tale negozio e che sappia dirmi dove i prodotti sono posizionati
nei vari scaffali, in modo da farmi trovare velocemente quello che sto
cercando, senza dovermi interessare a fare la sua conoscenza.
La categorizzazione sociale avviene quando le persone
vengono percepite come rappresentanti di gruppi sociali anziché come individui
a se stanti ed è un meccanismo essenziale che ci consente di padroneggiare il
nostro ambiente in modo efficace e muoverci al meglio in società. Solitamente
la categorizzazione sociale fa apparire i membri di un gruppo più simili tra
loro di quanto non sembrerebbero se non venissero categorizzati. Questo
è vero sia che si classifichino gli altri sulla base di differenze reali (in
molte società il sesso, l’etnia, la religione, sono importanti linee di
demarcazione) oppure di caratteristiche arbitrarie e banali. Per categorizzare
dobbiamo associare determinate caratteristiche ai gruppi sociali a cui
assegniamo gli individui, questi insiemi di caratteristiche sono delle “immagini
mentali semplificate” dell’aspetto e del comportamento dei gruppi, ovvero
degli stereotipi.
Gli stereotipi possono essere più o meno accurati ma spesso è difficile
stabilire il loro grado di precisione poiché non esiste alcun metro di giudizio
valido per farlo, alcuni sono talmente vaghi e soggettivi da essere
praticamente privi di significato. Come faccio a stabilire che gli immigrati
sono più maleducati degli italiani? Come faccio a stabilire che i meridionali
sono più pigri dei settentrionali?
Se la validità di uno stereotipo è un concetto di scarso significato, le
conseguenze psicologiche di tali stereotipi hanno invece ripercussioni concrete
sulle persone dato che non si limitano a descrivere un insieme di individui ma
stabiliscono come sono certi gruppi – sovrastimando l’uniformità dei suoi
membri – nonché le aspettative e le emozioni che questi suscitano negli altri.
Se vedo le donne come emotive e dipendenti non gli affiderò mai dei lavori di
responsabilità e autonomia causando degli effetti reali per la loro carriera
lavorativa.
Gli studiosi di questi meccanismi sociali hanno individuato alcuni elementi
comuni nel modo in cui le persone categorizzano gli altri e creano i rispettivi
stereotipi, in Smith e Mackie viene riportato in modo molto chiaro: “Praticamente
in ogni società il gruppo che occupa il gradino socioeconomico più basso,
indipendentemente dalla sua etnia, viene considerato ignorante, pigro, volgare,
sporco e irresponsabile. Negli Stati Uniti, nel corso dell’ultimo
secolo questo stereotipo è stato applicato a numerosi gruppi: dapprima agli
immigrati irlandesi, poi alla prima ondata di immigrati italiani e più
recentemente ai portoricani e ai messicani (Ross e Nisbett, 1990; Pettigrew,
1968). A mano a mano che la posizione economica di un gruppo migliora,
i relativi stereotipi cambiano e gli stereotipi che stigmatizzavano quel gruppo
come ceto inferiore vengono passati, come abiti smessi, a qualche gruppo nuovo
e meno fortunato”.
A sottolineare l’importanza delle circostanze per la formazione degli
stereotipi, sempre in Smith e Mackie, viene riportato: “Gli stereotipi si
adattano rapidamente ai cambiamenti di ruolo di un gruppo. Ciò è
particolarmente evidente in tempi di guerra e di ristrettezze. Quando alla pace
subentra la guerra, i tedeschi diventano crucchi, mentre i giapponesi diventano
gialli. E quando alla guerra subentra la pace, la spietatezza tedesca diventa
efficienza tedesca, e la furbizia nipponica diventa ingegnosità nipponica
(Mydans, 1992)”.
Ciò che emerge è che gli stereotipi non riflettono i gruppi come sono
effettivamente ma riflettono i ruoli che i gruppi ricoprono nella società in
rapporto ai soggetti che li percepiscono. Il corto circuito avviene quando
vediamo nel comportamento un riflesso delle disposizioni interiori degli altri,
anche se in realtà sono in buona parte i ruoli e le contingenze della
situazione a dettarne il comportamento. Dovremmo riflettere sulla
distinzione esistente fra ruoli sociali e ruoli personali di ogni individuo, in
modo da evitare confusione ed erronee sovrapposizioni.
Per capire più in profondità il processo di categorizzazione sociale
dobbiamo tenere a mente un aspetto fondamentale della questione: il
modo in cui pensiamo e suddividiamo il mondo in gruppi solitamente favorisce i
nostri interessi sostenendo quanto ci aiuta e avversando quanto ci danneggia. Non
è casuale che questi processi proteggano sempre le posizioni privilegiate.
Tali sentimenti possono dimostrarsi particolarmente dannosi quando un gruppo
dispone di maggiori risorse sociali o materiali di un altro e pertanto ha anche
il potere di agire sulla base dei suoi pregiudizi. Basti pensare alla velocità
con cui i governi hanno stabilito di attuare la Direttiva 55 del 2001 sulla protezione temporanea destinata agli ucraini,
fornendo un permesso di soggiorno della validità di un anno senza passare dalle
commissioni territoriali, mentre per tutti gli altri migranti
solitamente la procedura di richiesta di un permesso di soggiorno è un calvario
che dura anni.
Questa è la prova che quando un governo e la sua società sono
interessati a qualcosa i provvedimenti inerenti vengono attuati in tempi brevi. Nel
caso dell’accoglienza la narrazione precedente all’ondata di profughi ucraini
era che le varie nazioni europee non avevano sufficienti risorse per ospitare i
migranti provenienti da Africa e Medio-Oriente e che quindi dovevano bloccarne
l’ingresso. Quello che invece è accaduto nell’ultimo mese e mezzo è stato
l’arrivo di persone in fuga dall’Ucraina in quantità ben maggiore rispetto al
numero totale di profughi provenienti da paesi terzi in tutto l’arco del 2021
e nonostante la gravità dell’emergenza l’organizzazione degli aiuti
umanitari è stata di un’efficienza e precisione mai viste prima, a disconferma
del fatto che l’accoglienza dei profughi è insostenibile da parte dei paesi
ospitanti. Temo che se le risorse cominceranno a ridursi a causa della
recessione dovuta alla guerra inizieranno a venir meno i nostri slanci di
altruismo anche nei confronti degli ucraini.
Tendenzialmente i gruppi cercano di favorire i propri membri e di mantenere
i propri privilegi acquisiti e questo spesso significa escludere gli altri
gruppi dalle posizioni sociali considerate desiderabili, dalla ricchezza e dal
potere, in altre parole: i gruppi privilegiati opprimono i gruppi meno
fortunati.
In questi processi entra in gioco la nostra “identità sociale”, cioè
tutti quegli aspetti del concetto di sé che derivano dalla consapevolezza di
appartenere a determinati gruppi e dai sentimenti suscitati da tali
appartenenze, l’“io” si trasforma in “noi”, estendendo il sé
oltre l’individuo fino a includervi gli altri componenti dei gruppi a cui
l’individuo appartiene. Ad esempio Robert Cialdini (1976) descrive come
tendenza a “brillare di luce riflessa” la ricerca di un’identificazione
positiva di gruppo: comune è la gioia che si prova quando la propria squadra di
calcio vince una partita e l’abitudine di riferirsi ai calciatori
usando il primo pronome plurale (“abbiamo vinto noi!”) anche se sono
anni che non si tocca un pallone.
I tanti benefici per l’appartenenza a un gruppo hanno però un costo. Poiché l’autostima
dipende non solo dagli attributi e dai successi individuali ma anche da quelli
di gruppo, abbiamo bisogno di considerare amabili e degni di stima i gruppi di
cui facciamo parte, in effetti tutte le informazioni riguardanti il nostro sé
vengono elaborate in modo da favorire un’immagine benigna di noi stessi. Poiché
condividono le nostre qualità gli individui del nostro gruppo diventano parte
di “me” e del “mio” e quindi li troviamo “migliori”, solitamente migliori di
quelli che ci sembrano i membri di gruppi esterni al nostro. Non a caso il
conflitto è il fattore più potente nel rendere l’appartenenza a un gruppo più
accessibile e saliente alle nostre menti. Quando il mondo viene visto
attraverso la lente delle proprie appartenenze di gruppo ciò che è meglio per
il gruppo corrisponde a ciò che è meglio per l’individuo e la distinzione tra
interessi personali e collettivi svanisce. Questo può generare comportamenti di
grande solidarietà, come quelli avvenuti nei campi per i profughi ucraini in
Polonia, oppure può portare alla negazione della guerra da parte dei cittadini
russi, nonostante le testimonianze dei loro amici e parenti in Ucraina.
Dobbiamo essere consapevoli che tutti siamo influenzati dalle
categorie e dagli stereotipi, spesso appresi precocemente e
fortemente radicati, quindi difficili da modificare. Per superare gli effetti
negativi degli stereotipi occorrono sia motivazione che opportunità: stereotipizzare
è facile mentre elaborare le informazioni complesse richiede maggiore impegno e
risorse, ma sicuramente restituisce all’ambiente e agli individui che ci
circondano un tentativo di comprensione meno a rischio di distorsioni. Infrangere
gli stereotipi è difficile ma possibile e vale sicuramente lo sforzo che
richiede (Devine, 1989).
Riflettere su come funzionano le nostre menti in rapporto con gli altri
individui sociali, aumentare il livello di consapevolezza a riguardo, al
momento mi sembra l’unica cosa in grado di aiutarmi, provare a
rileggere l’esperienza di queste settimane in modo coerente per dargli un
significato, dato che la guerra in Ucraina ha inizialmente messo a soqquadro
quello che pensavo di conoscere.
A proposito del doppio standard con cui vengono trattati i profughi ucraini
e di altri paesi, rileggendo gli studi di psicologia sociale emerge un
messaggio chiaro: le differenze come i punti di comunanza tra noi e i membri di
altri gruppi possono essere più o meno numerosi, ma dipendono sempre e solo da
noi. Il modo in cui categorizziamo noi stessi e gli individui come
appartenenti a certi gruppi è frutto delle nostre scelte e degli occhi con cui
decidiamo di guardare gli altri in relazione a noi stessi.
Forse i fatti orribili di questa guerra possono essere un riflettore
sull’esistenza di un grande gruppo sociale a cui dovrebbero essere subordinati
tutti gli altri, il gruppo sovraordinato degli esseri umani. La drammaticità di
questo tempo non può cadere nel vuoto e nell’insensatezza, nonostante l’orrore
può essere l’occasione per ristabilire chi vogliamo essere: un’umanità che
lavora per la sua più piena preservazione poiché, se ci pensate bene, le
relazioni con gli altri nel nostro ambiente di vita sono davvero tutto ciò che abbiamo.
Sarà solo nostra la libertà e la responsabilità di farlo accadere.
Sempre nel documentario di Tsilyk la madre delle ragazze precedentemente citate
spiega cosa l’ha spinta a non scappare dal Donbass con la sua famiglia: “Se
tutti scappano chi resterà per ricostruire la città?”.
* Giulia Scocciolini è uno psicologa che lavora in un
progetto di accoglienza.
Bibliografia
§
Cialdini, R. B., Borden, R. J., Thorne, A., Walker, M. R., Freeman, S.,
Sloan, L. R. (1976). Basking in reflected glory: Three (football) field
studies. Journal of Personality and Social Psychology, 34, 366-375.
§
Devine, P. G. (1989). Stereotypes and prejudice: their automatic and
controlled components. Journal of Personality and Social Psychology,
56, 5-18.
§
Mydans. S. (1992, March 4). New unease for Japanese-Americans. The
New York Times, p. A8.
§
Pettigrew, T. F. (1968). Race relations: Social and Psychological aspects.
In D. L. SILLS (a cura di), The international encyclopedia of the
social sciences (Vol. 13, pp. 277-289). Macmillan Company, New York.
§
Ross, M., e Nisbett, R. E. (1990). The person and the situation:
Perspectives of social psychology. McGraw-Hill, New York.
§
Smith, E., R., e Mackie, D., M. (1998). Psicologia Sociale. Zanichelli,
Bologna.
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