Alpini: si scrive memoria, si legge revisionismo storico
di Chiara Nencioni
La “Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini” è un oltraggio alla storia, alla Repubblica e anche alle penne nere
Paradosso italiano: mentre, indotti o meno, stiamo perdendo la memoria storica (“un tempo senza storia” ha definito Adriano Prosperi l’epoca che stiamo vivendo) si moltiplicano i giorni della memoria, del ricordo et similia. Il nostro calendario civile si riempie di celebrazioni talvolta vuote, talvolta manovrate, talvolta vergognose, come quella che vi sto per raccontare.
Alla chetichella, senza far rumore, come quando si vuole fare qualcosa senza che lo si venga a sapere (a mia insaputa, disse qualcuno che si trovò proprietario di una casa al Colosseo) si è aggiunta un’altra giornata: la “Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini”.
La proposta di legge è stata approvata dal Senato nel corso della seduta di martedì 5 aprile 2022, praticamente alla unanimità: un solo astenuto e nessun contrario. Ma la storia inizia prima: l’Aula della Camera aveva approvato in prima lettura la proposta nella seduta di lunedì 25 giugno 2019. La Camera approva (vedi votazione n. 18): Applausi dei deputati dei gruppi Movimento 5 Stelle, Lega-Salvini Premier, Partito Democratico, Forza Italia-Berlusconi Presidente, Fratelli d’Italia e di deputati del Gruppo Misto.
Composta da 5 articoli, la proposta di legge A.C. 622 prevede l’istituzione della Giornata nazionale della memoria e del sacrificio alpino individuandola nella data del 26 gennaio di ciascun anno. Scopo del provvedimento è quello di tenere vivo il ricordo della battaglia di Nikolajewka, combattuta dagli alpini il 26 gennaio del 1943 e di promuovere «i valori della difesa della sovranità e dell’interesse nazionale nonché dell’etica della partecipazione civile, della solidarietà e del volontariato, che gli alpini incarnano» (articolo 1).
Stop! E’ necessaria qualche precisazione. Chiariamo cosa è stata questa battaglia e perché tale scelta lascia particolarmente perplessi (eufemismo!).
La battaglia di Nikolajewka è stata combattuta il 26 gennaio 1943 fra le truppe sovietiche, che difendevano la loro patria, e le forze residue dell’Asse che, violando l’esecrabile patto Molotov-Von Ribbentrop, l’avevano invasa, determinando un punto cruciale della ritirata e la decimazione dell’ARMIR.
Ecco, questo è il primo punto: prendere Nikolajewka, uno scontro disperato che permise ad alcune – poche – truppe di sfuggire all’accerchiamento sovietico, come simbolo, sembra un tentativo di far passare gli alpini quali vittime. E’ vero che i soldati italiani vennero decimati (morti nella neve, dispersi, catturati presi prigionieri) ma è necessaria una contestualizzazione. In quella battaglia fummo, per prendere in prestito il noto libro di Thomas Schlemmer, “invasori, non vittime”. Dunque chiediamoci anche perché lo Stato repubblicano, nato dalle ceneri della dittatura e che si professa antifascista, ha sentito il bisogno di ripescare un evento che si colloca pienamente e compiutamente all’interno della politica di potenza e della guerra fascista, che si rivelò un disastro militare di prima grandezza, e che costò all’Italia la morte di oltre 80.000 uomini.
Dovrebbe essere superfluo ribadire come gli scontri combattuti dalle divisioni alpine e di fanteria italiane nell’inverno 1942-1943 si inseriscono all’interno di una guerra di aggressione combattuta a fianco dell’alleato tedesco. Guerra che, proprio sul fronte orientale, fu caratterizzata da livelli di brutalità raggiunti forse solo in alcuni scacchieri del teatro del Pacifico e dell’Asia orientale.
Seconda perplessità.
La scelta dichiarata di far cadere la celebrazione il 26 gennaio. E’ chiaro che la nuova ricorrenza cade immediatamente prima della Giornata della Memoria (27 gennaio). Dovrebbe essere superfluo – ma evidentemente non lo è – far notare che la ritirata di Russia si colloca all’interno della ben più vasta campagna avviata dalla Germania nazista nel giugno 1941, e che aveva come principali obiettivi la conquista dell’Unione Sovietica e il virtuale annientamento di larga parte della sua popolazione. L’Italia fascista, allora il principale alleato europeo della Germania, partecipò alla campagna in qualità di aggressore e di forza occupante, compiendo crimini di guerra. Nuovamente, dovrebbe essere superfluo ricordare che il fronte orientale fu anche il luogo dove ebbe inizio lo sterminio degli ebrei, luogo dove venne avviata la “soluzione finale”, poi compiutasi soprattutto all’interno della Polonia occupata.
La decisione di celebrare la ricorrenza così a ridosso della Giornata della Memoria, che venne istituita proprio per ricordare la Shoah, è dunque qualitativamente ancora più grave, perché oltremodo offensiva nei confronti del popolo ebraico.
Viene da chiederci perché, fra le tante occasioni in cui gli alpini compirono atti di coraggio – ad esempio durante la Prima guerra mondiale – e importanti interventi di soccorso civile (come nel caso del disastro del Vajont del 1963) sia stata scelta proprio la data del 26 gennaio.
Se si è trattato di una casualità, ciò dimostrerebbe una grave leggerezza da parte dei decisori. Pare di più una scelta legata a una evidente venatura nazionalistica, in quel vento di revisionismo storico che aleggia da alcuni anni in Italia. Perché, se proprio si fosse voluto celebrare gli alpini, si poteva almeno scegliere un altro giorno, ricollegandolo magari ad un altro episodio, meglio se del tutto estraneo alla Seconda guerra mondiale. La data del 26 gennaio è assolutamente inopportuna.
Dunque “indietro tutta!”. L’Italia va avanti con il rovesciamento della storia (già determinato nella memoria collettiva dal Giorno del Ricordo”) sull’onda del revisionismo storico condiviso da centrodestra e centrosinistra.
(*) ripreso da www.popoffquotidiano.it
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Una vergogna tutta italiana. No al ddl che istituisce l'orgoglio nazifascista
Mai ci saremmo aspettate che le massime istituzioni di questo paese arrivassero a un oltraggio e un tradimento della Carta Costituzionale, come quelli consumati con l’approvazione del ddl n. 1371, sull’istituzione della “Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini”, già approvato dalla Camera lunedì 25 giugno 2019 e poi al Senato martedì 5 aprile 2022 con 189 voti favorevoli, nessun contrario e un astenuto. Composta da 5 articoli, la proposta di legge A.C. 622 prevede l’istituzione della Giornata nazionale della memoria e del sacrificio alpino individuandola nella data del 26 gennaio di ciascun anno. Scopo del provvedimento è quello di tenere vivo il ricordo della battaglia di Nikolajewka, combattuta dagli alpini il 26 gennaio del 1943 e di promuovere “i valori della difesa della sovranità e dell’interesse nazionale nonché dell’etica della partecipazione civile, della solidarietà e del volontariato, che gli alpini incarnano” (art.1).
Ma cosa è stata la battaglia di Nikolajewka?
Uno scontro disperato che permise ad alcune –sempre troppo poche – truppe di sfuggire all’accerchiamento sovietico, su territorio russo e mentre l'esercito russo combatteva contro l'invasione nazifascista. E’ vero che i soldati italiani vennero decimati (morti nella neve, dispersi, catturati presi prigionieri) ma in quella battaglia, dobbiamo ricordare che gli italiani erano “invasori ". L’Italia fascista, allora il principale alleato europeo della Germania, partecipò alla campagna in qualità di aggressore e di forza occupante.
Perché allora lo Stato repubblicano, nato dalle ceneri della dittatura e che si professa antifascista, ha sentito il bisogno di ripescare un evento che si colloca pienamente e compiutamente all’interno della politica di potenza e della guerra fascista, che si rivelò un disastro militare di prima grandezza, e che costò all’Italia la morte di oltre 80.000 uomini? Non c’è nessun eroismo in un tale massacro. Gli Alpini furono carne da macello mandare a morire in modo atroce. La Campagna Italiana di Russia e come essa si rivelò un tale disastro da poter essere annoverato senza dubbio tra i più grandi crimini del fascismo. Il fascismo ha mandato al massacro i suoi soldati, sapendo di farlo! La classe dirigente italiana non vuole fare i conti con la propria storia!
E' giusto che ci sia una giornata dedicata agli alpini. Molti di essi combattenti in Russia, che dopo l'8 settembre 1943 del si unirono alla Resistenza Partigiana. Nella Prima Guerra mondiale furono tantissime le pagine di storia scritte dagli Alpini in difesa del nostro Paese e altre ne scrissero nel dopoguerra con importanti interventi verso la popolazione civile colpita da disastri come nel caso del Vajont nel 1963.
La nuova ricorrenza cade immediatamente prima della Giornata della Memoria il 27 gennaio. Il fronte orientale fu anche il luogo dove ebbe inizio lo sterminio degli ebrei, luogo dove venne avviata la “soluzione finale”, poi compiutasi soprattutto all’interno della Polonia occupata.
Perché offuscare la giornata della memoria del 27 gennaio in cui si ricorda la liberazione dei reclusi di Auschwitz da parte dell'armata Sovietica con una Giornata immediatamente precedente dove la stessa armata, in una propaganda figlia ancora oggi del regime fascista, viene descritta come nemico responsabile della morte dei nostri alpini.
Pare di più una scelta legata ad una evidente venatura nazionalistica, che ormai scorre nel territorio europeo, non solo in Ungheria, ma spinta fortemente da quel vento di revisionismo storico che aleggia da alcuni anni in Italia, che vuole equiparare ogni evento storico, ogni morte.
Lo Stato ci chiede di ricordare contemporaneamente la morte degli alpini che purtroppo hanno combattuto in quel 1943 per un regime fascista e l'ebreo massacrato dallo stesso regime.
Tutto questo a qualche giorno da quel 25 aprile che vede l'Italia, l'Europa e la stessa Russia liberato dal terribile regime nazifascista.
Ma questa non è equidistanza. Dietro quest'atto istituzionale c'è una gravissima azione di divisione del popolo italiano, di continuare a seminare e a far crescere nel Paese l'odio al posto dello spirito di libertà conquistata di quel 25 aprile del 45
Consideriamo questo atto del Parlamento infamante per la memoria del nostro paese, per il sacrificio di quelle persone che questo Paese hanno aiutato a liberarsi dal regime fascista compresi quegli alpini che sopravvissuto alla ritirata dalla Russia e che dopo l'8 settembre parteciparono alla Resistenza.
Ogni sincero antifascista deve combattere affinché non vinca una riscrittura falsa della storia nera e tragica del fascismo.
Comitato Madri per Roma Città Aperta
Mamme in piazza per la libertà di dissenso (Torino)
Madri contro l'operazione Lince - Contro la repressione (Cagliari)
I MORTI SONO UGUALI. LE RAGIONI DEI VIVI NO
di Claudio Vercelli
Una trama svelata nei corpi
Quale il senso di una «Giornata della memoria» per gli alpini caduti a Nikolaevka nel 1943 durante l’invasione dell’Urss. La radice antifascista della Repubblica è messa in gioco sotto le spoglie di un’inesistente pacificazione. Come hanno narrato Nuto Revelli, Mario Rigoni Stern e altri, si trattò perlopiù di giovani inconsapevoli mandati al macello dentro una colpa ideologica tutta italiana (e tedesca). Quella battaglia di una guerra di aggressione voluta dal nazifascismo e la Shoah non saranno mai due facce della stessa medaglia. I morti sono uguali, le ragioni dei vivi no
Gli alpini, dunque. Dentro alla disperata e convulsa sacca di Nikolaevka, quando parte dell’allora corpo di spedizione italiano contro l’Unione Sovietica, nel gennaio del 1943, cercò di sganciarsi da una situazione che lo avrebbe altrimenti definitivamente stritolato. È oramai di dominio pubblico la disposizione 1371 del Parlamento italiano rispetto all’istituzione di una «Giornata nazionale della memoria e del sacrificio alpino», individuandola nella data del 26 gennaio di ciascun anno.
Così recita la norma: «scopo del provvedimento è quello di tenere vivo il ricordo della battaglia di Nikolajewka , combattuta dagli alpini il 26 gennaio del 1943 e di promuovere “i valori della difesa della sovranità e dell’interesse nazionale nonché dell’etica della partecipazione civile, della solidarietà e del volontariato, che gli alpini incarnano” (art.1)». Queste le motivazioni addotte, e quindi incorporate nella legge, che – peraltro – era già stata approvata nel suo disegno generale in prima lettura alla Camera dei deputati nella seduta di lunedì 25 giugno 2019. Ora il Senato della Repubblica, con voto pressoché plebiscitario, aggiunge il suo assenso alla proposta di legge che da tempo attendeva un riscontro per potere essere infine approvata e varata in seconda lettura.
AVVERRÀ PROBABILMENTE a breve tempo, essendo parte di un iter ideologico assai più ampio, dove tutti i dispositivi memorialistici repubblicani si stanno progressivamente trasformando da lettura critica del passato ad enfatica rivalutazione di aspetti selettivi di esso: così, per intenderci, anche nei riguardi di un Giorno del Ricordo che è stato quasi completamente colonizzato dalla destra come esercizio di rivalsa. Più in generale, ci si può attendere che il passo successivo sia il ritorno della proposta dell’istituzione dell’«ordine del tricolore», da tempo caldeggiato tra le ipotesi di legge da parte della destra revisionista. Nel nome dell’oramai abituale rimando all’abbraccio mortale tra «le parti contrapposte nella guerra civile del 1943-45», sotto le false spoglie di un’inesistente pacificazione, l’obiettivo è di azzerare la radice antifascista della Repubblica.
CI SONO DIVERSE considerazioni da fare in merito alla giornata degli alpini, così per come è prospettata. La prima di esse è che si usa la storia di un corpo militare per veicolare un fasullo solidarismo, dentro il quale il vero dispositivo pulsante è invece quello di un bieco nazionalismo di ritorno. La seconda considerazione rimanda alla nullificazione che si sta facendo della storia, e con essa del conflitto politico, attraverso il richiamo ad una memoria sentimentale ed affettiva, terreno prediletto proprio dai populismi di ogni tempo.Per capirci, la storia non è mai una fredda ricostruzione del tempo che fu bensì il riscontro della trama complessa e contraddittoria di una pluralità di attori e scenari. Incorpora quindi le categorie del conflitto e delle asimmetrie di potere. Ritornando all’inizio del 1943, in quella macchina infernale che era l’aggressione all’Urss, i giovani alpini ne furono stritolati. Partecipando ad una guerra di aggressione, voluta dal nazifascismo, non si erano messi dalla parte della colpa ma ne erano stati consegnati, diventandone quindi agnelli sacrificali. La letteratura di quel tempo ce ne consegna il timbro dolente, dal quale – non a caso – sarebbe derivata per certuni la scelta antifascista.
Nikolaevka, quindi, non è il suggello dell’eroismo italiano ma della disperazione di un’intera generazione, che resistette ai russi per continuare ad esistere nella sua umanità. Gli alpini di Nikolaekva erano perlopiù giovani inconsapevoli – Nuto Revelli, Mario Rigoni Stern ed altri ce l’hanno raccontato mille volte – caduti in una furiosa battaglia generata dalla feroce aggressione nazifascista, quindi dentro una colpa politica e ideologica tutta italiana (e tedesca).
EVENTO MILITARE e responsabilità politica non sono separabili. Il dispositivo della proposta di legge è invece imbarazzante, poiché rinnova l’oblio (che intende semmai rafforzare) delle stesse responsabilità politiche, sommergendole dentro una retorica, grondante melassa, di falso umanitarismo. Qualcosa del tipo, «poveri ragazzi…»: sì, ma per quali ragioni furono gettati in quel carnaio dove, segnatamente, se avessero vinto le forze dell’Asse non solo gli ebrei ma anche una parte delle popolazioni slave sarebbero state annientate una volta per sempre? Carne al fuoco e polveri nei mortai, in buona sostanza, per quelle parti politiche che male sopportano la Repubblica antifascista. E con essa la lotta di Liberazione che ne sta all’origine. Tutto il resto è mera retorica, cialtronesca ripetizione di menzogneri vagheggiamenti. Che il dispositivo della proposta di legge, invece, recupera sotto il manto protettivo del solidarismo.
La terza considerazione di merito ha a che fare con la data centrale della battaglia di Nikolaevka, il 26 gennaio, che nel nostro calendario civile è immediatamente precedente a quella del Giorno della Memoria. Se l’istituzione di quest’ultimo doveva contribuire a segnare la discontinuità nelle coscienze civili italiane ed europee, ora invece la bulimia memorialistica sta di fatto parificando vittime e carnefici, oppressi ed oppressori, aggressori e aggrediti. È questa la trama del disegno revisionistico. Che si sostanzia, ed è la quarta considerazione, nella retorica della sconfitta, ossia l’esaltazione dei vinti, che tali furono non perché avessero torto. Vennero semmai sopraffatti da avversari troppo forti, innaturalmente sostenuti da quelli che oggi vengono chiamati «poteri forti».
C’È UN COLLANTE POPULISTA che tiene insieme i pezzi, rendendo fruibile, nel pregiudizio di senso comune, alcuni temi underground della destra radicale neofascista. Quest’ultima, non a caso, si celebra come nume tutelare della memoria dei morti nelle battaglie che lo stesso fascismo scatenò in Europa. Tanatofilia e memoria rischiano così di diventare una sorta di endiadi cupa e triste. A sostenere queste posizioni sono non solo una destra assai poco costituzionale e antipluralista ma anche un centro-sinistra scialbo se non distratto, a tratti connivente e compiacente con non poche spinte regressive, che ritiene qualsiasi forma di cultura politica, e con essa storica, al pari di un fardello oneroso del quale liberarsi non appena possibile. L’unanimismo su proposte che simulano un consenso ragionato altrimenti improbabile, è l’indice del crescente dominio culturale della prima e del completo smarrimento cognitivo, prima ancora che politico, della seconda.A fronte di un’oramai ossessiva bulimia memorialistica (una specie di meccanismo ad orologeria, destinato prima o poi a disintegrarsi mandando in pezzi tutto quello che fingeva di volere “costruire”), le ragioni stesse per le quali si era deciso di trasformare un ricordo collettivo – quello dello sterminio razzista – in esercizio di coscienza civile, vengono ora progressivamente dismesse, dal momento che si è innescata da tempo una competizione per acquisire lo statuto di vittime (totali, inconsolabili, incontestabili, quindi da onorare sempre e acriticamente) come parte premiante del più generale mercato politico. Nel quale, poi, l’accredito così conseguito viene speso per legittimare un fuoco di sbarramento contro gli avversari.
L’AFFASTELLAMENTO di memorie pubbliche, tra di loro contraddittorie poiché ispirate ad una falsa omologazione tra eventi, protagonisti e scenari non solo diversi ma in antagonismo, produce quindi una sorta di relativismo, dove conta l’eterna intercambiabilità delle sofferenze e null’altro. Tema senz’altro delicato, beninteso. Ma irrinunciabile, nella sua analisi critica, se oltre alla conta dei morti si dice anche – e soprattutto – chi e come questi, piuttosto che quelli, gli uni invece che gli altri, sono concretamente morti: ad esempio, in quale contesto, per quale mano, dentro quale disegno politico e strategico e così via. La sacca di Nikolaevka e i cancelli di Auschwitz non saranno mai due facce della stessa medaglia. I morti sono uguali, le ragioni dei vivi no.
(**) testo pubblicato sul quotidiano “il manifesto”, su Micromega on line e su officinadeisaperi.it
La scelta degli alpini
La “Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini”
Da oggi l’Italia democratica celebra ufficialmente, e lo fa un giro d’orologio prima del Giorno della Memoria, un episodio specifico della seconda guerra mondiale. Con 189 voti favorevoli, nessuno contrario (come già accadde nel 2019 alla Camera) e un solo astenuto, il 5 aprile 2022 il Senato ha approvato in via definitiva, il disegno di legge n. 1371, sull’istituzione della “Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini”.
L’articolo 1 recita: “La Repubblica riconosce il giorno 26 gennaio di ciascun anno quale Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini, al fine di conservare la memoria dell’eroismo dimostrato dal Corpo d’armata alpino nella battaglia di Nikolajewka durante la seconda guerra mondiale, nonché di promuovere i valori della difesa della sovranità e dell’interesse nazionale nonché dell’etica della partecipazione civile, della solidarietà e del volontariato, che gli alpini incarnano”.
Visto anche il risalto che d’ora in poi, per legge, ricoprirà questa data nel calendario civile del Paese, è cruciale collocare storicamente l’episodio di Nikolajewka. In quella località, all’epoca parte dell’Unione sovietica, nel gennaio 1943 gli alpini combattono per forzare il blocco dell’Armata rossa e permettere ai resti del Corpo d’armata alpino e alle residue unità tedesche di superare l’accerchiamento sovietico e ritirarsi.
È l’unica significativa vittoria sul campo nell’ambito di un’epocale sconfitta: la tragica epopea della “ritirata di Russia in cui migliaia di alpini abbandonati e persi nel freddo, equipaggiati malamente, si battono tenacemente, con l’obiettivo di evitare la prigionia e tornare a casa. La prima domanda da porsi dovrebbe essere, in realtà, la più semplice: cosa ci facevano gli alpini insieme ai tedeschi nei pressi del confine russo-ucraino, a tremila chilometri da casa, nel freddo inverno del 1942-’43?
Il contingente alpino faceva parte di un corpo di spedizione fortemente voluto da Mussolini nonostante i dubbi degli alti comandi tedeschi sull’adeguatezza logistica e tecnica del Regio esercito. L’Italia fascista non voleva perdere l’occasione di partecipare alla “crociata antibolscevica” scatenata da Hitler il 22 giugno del 1941 violando il patto con Stalin del 23 agosto 1939. L’“Armata italiana in Russia” (Armir) sul fronte russo sarebbe arrivata a contare, in totale, ben 230.000 uomini.
Una guerra d’aggressione
Quella dell’Armir non è dunque una storia che comincia a Nikolajewka il 26 gennaio 1943, ma oltre un anno e mezzo prima, quando decine di migliaia di giovani italiani vengono mandati a invadere il territorio sovietico. La ritirata è preceduta da lunghi mesi di occupazione al fianco dei nazisti in territori nei quali prendeva corpo l’operazione di “ripulitura” da ebrei e slavi delle terre destinate al Lebensraum nazista. A differenza di quella sul fronte occidentale, questa è una guerra di sterminio, comparata esplicitamente da Hitler alla “conquista” dell’America che portò all’annientamento delle popolazioni precolombiane: il Generalplan Ost (il “piano generale per l’Oriente”) nazista, elaborato nella prima fase della guerra, era un progetto di colonizzazione dell’Europa orientale, che prevedeva l’annientamento di decine di milioni di “slavi”. Alla fine della guerra si sarebbero contati venti milioni di morti sovietici, oltre tre milioni dei quali prigionieri di guerra uccisi, morti di fame o durante i trasferimenti. Ed è in questo contesto, peraltro, che ha inizio l’industrializzazione dello sterminio e l’applicazione della “soluzione finale” a milioni di ebrei in Europa centro-orientale: la Shoah.
I combattenti italiani, alpini compresi, prendono parte a questa guerra, distinguendosi in azioni di repressione, inclusi saccheggi e fucilazioni, anche in maniera autonoma dall’alleato tedesco. Il 15 gennaio del 1943 – undici giorni prima della battaglia di Nikolajewka –, ad esempio, a Rossoš il Comando del Corpo d’armata alpino in Russia (non i tedeschi) ordina il massacro di una trentina di prigionieri. Erano “invasori, non vittime”, per riprendere il titolo del un saggio che racconta questo episodio; un libro uscito ormai da oltre un decennio e dedicato interamente alla campagna di Russia, in cui si parla di come “l’epos del sacrificio andò a coprire come un velo il non trascurabile dato di fatto che le nostre Divisioni facevano parte, in realtà, di un esercito d’invasione”. Ogni giorno in cui i soldati italiani hanno combattuto sul fronte russo, prima avanzando e poi ritirandosi, è stato un giorno in più in cui i cancelli di Auschwitz restano sprangati sull’orrore. E in cui si permette alla guerra d’aggressione dell’Asse di mietere milioni di vittime.
Alla luce di questa consapevolezza, l’episodio di Nikolaewka non può essere decontestualizzato. La scelta del 26 gennaio, che potrebbe a prima vista sembrare semplicemente impropria, risulta in definitiva insultante, prima di tutto per gli alpini stessi. Qualunque corpo militare di un Paese democratico dovrebbe inorridire all’idea di passare alla storia, celebrato dalla memoria pubblica, attraverso uno degli episodi più vergognosi della già spaventosa storia dei fascismi europei. Un corpo militare che, peraltro, ha dato poi alla Resistenza al nazifascismo alcune tra le figure più significative.
Nella terribile ritirata, infatti, non pochi soldati dell’Armir maturano una profondissima avversione per i nazisti e per i fascisti italiani che li hanno mandati al macello, e che avrebbe portato alcuni di loro, pochi mesi più tardi, a scegliere di combatterli armi in pugno. Tra loro Mario Odasso, tenente colonnello e capo dell’Ufficio operazioni del Corpo d’armata alpino in Russia, poi membro della Resistenza piemontese, e il più noto Nuto Revelli, futuro comandante partigiano nella stessa regione. In un ciclo di lezioni organizzate nel 1961 a Torino, rivolto a un pubblico di studenti, Revelli avrebbe rievocato il crollo psicologico quando, proprio a gennaio del 1943, il caos aveva colto lui e i suoi commilitoni a Podgornoje, mentre ripiegavano dal Don:
“Ricordo che per ore ed ore andammo avanti quasi correndo, con il vuoto alle spalle, con una speranza nel cuore: di ricongiungerci presto con il nostro reparto. Verso sera, quando apparve Podgornoje, le nostre illusioni crollarono. Podgornoje, avvolta in una pesante coltre di fumo, era in fiamme. Gente che impazziva, che urlava, che piangeva. Colonne che entravano, che uscivano, che si frammischiavano, che si maledivano. Tedeschi, ungheresi, italiani. Colonne di uomini, di slitte, di cariaggi, di autocarri. Una confusione impressionante. Nella notte [del 18 gennaio 1943, ndr] arrivò l’ordine di abbandonare le armi di postazione, di distruggere gli archivi, di buttare il superfluo, di salvare l’uomo. Era l’inizio della fine”.
Alpini e Resistenza
“Maledivamo il fascismo, e come lo maledivamo”, avrebbe aggiunto Revelli rivolto al pubblico di studenti: “nell’estate del 1942, duecento lunghe tradotte avevano portato il corpo d’armata alpino sul fronte russo. Nella primavera del 1943 bastarono diciassette brevi tradotte per riportare in Italia i superstiti, i fortunati”; così ricorda quella ritirata che agli italiani causa la perdita di circa 100.000 uomini tra morti, dispersi e commilitoni abbandonati in mano al nemico. “Per fedeltà ai miei compagni caduti in Russia, dopo l’8 settembre salii in montagna a fare il partigiano”, concludeva. Come afferma la stessa Associazione nazionale alpini (Ana), la scelta resistenziale è fondamentale nella storia del Corpo:
“Nella lotta partigiana il contributo degli alpini si confonde (…) con quello delle migliaia di italiani che dopo l’8 settembre scelsero la via della montagna, dando origine a formazioni sparse un po’ ovunque lungo le Alpi e l’Appennino tosco- emiliano: in questo senso la storia della Resistenza è anche storia degli alpini e non è certo casuale che nel Piemonte sconvolto del settembre 1943, tra i mille sbandati della IV Armata che si erano concentrati a Boves conservando armi e materiali, si favoleggiasse di una divisione alpina, la ‘Pusteria’, ancora intatta e attestata sui monti: si trattava di una illusione destinata a crollare di fronte all’urto della realtà, ma era anche il sintomo di una convinzione diffusa, la certezza della scelta di campo che gli alpini avrebbero fatto e che le Divisioni testimoniarono con i tentativi di resistenza ai tedeschi all’indomani dell’armistizio (così la ‘Taurinense’ nel Montenegro, la ‘Cuneense’ e la ‘Tridentina’ in Alto Adige, la ‘Julia’ in Friuli, la ‘Pusteria’ nelle Alpi Marittime, gli altri reparti in Corsica, nell’Alto Isonzo, nell’entroterra spezzino e nei diversi depositi)”.
Il contributo degli alpini alla lotta di Liberazione ha percorso in lungo e in largo l’Italia centrosettentrionale occupata: è un fatto noto agli storici. Eppure, per la Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini, non si sono scelti episodi legati alla Resistenza. Oltre all’epica – questa sì – stagione resistenziale, si sarebbero potute comunque trovare altre date (a volerlo fare!), che avrebbero dato il giusto risalto all’impegno e all’altruismo dei tantissimi italiani che col cappello alpino in testa in quei mesi si prodigano per aiutare la comunità nazionale: il 6 maggio, giorno del terribile terremoto in Friuli del 1976, sarebbe stata una data più nobile da legare alla memoria delle migliaia di alpini che “invasero” quella terra martoriata aiutandola a risollevarsi dalle proprie macerie, sacrificando tempo, energie e in alcuni casi anche la vita per una causa nobile.
E invece, tra le molte date possibili, proprio quella della battaglia di Nikolajewka. Perché? A nostro giudizio per un malinteso senso di difesa dei valori nazionali che sconfina, anche nella Repubblica nata dalla Resistenza e che costituzionalmente ripudia la guerra, di quell’“orgoglio nazionale” che per alcuni deve ancora passare attraverso la celebrazione implicita della violenza armata e aggressiva, attraverso imprese belliche che possono essere esaltate solo dimenticandone le motivazioni e le conseguenze. La legge promuove “i valori della difesa della sovranità e dell’interesse nazionale”, e si fa francamente fatica a comprendere come una battaglia persa, a tremila chilometri dal “suolo patrio”, combattuta nel corso di una sanguinosissima invasione, possa essere l’esempio migliore per esaltare di fronte al Paese questi valori. O forse è proprio questo il messaggio di fondo che il legislatore – di fatto all’unanimità – ha voluto inserire in questa operazione di memoria: la costituzione di un baluardo di ricordo che possa dare legittimità perfino alle guerre d’aggressione portate avanti da un regime brutale come quello mussoliniano, nell’imbarazzante interpretazione già vista in altre operazioni memoriali attraverso cui, adottando uno sguardo vittimista e il paradigma vittimario, si veste di “italianità” il fascismo e se ne “dimenticano” i crimini.
Di più, la scelta di una data che si trova a ridosso della prima giornata memoriale di questo Paese, il 27 gennaio, che è quel Giorno della Memoria “in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti”, rischia di creare un ingorgo di pubbliche celebrazioni. Un grande minestrone di memoria in cui il ricordo della deportazione e dello sterminio si intreccia con quello di chi difese armi in pugno proprio il sistema totalitario che produsse lo sterminio. Un cortocircuito clamoroso, che probabilmente porterà allo svilimento della memoria pubblica nel suo complesso. L’istituzione di questa nuova e confusa data memoriale avrà come probabile risultato la riproposizione di memorie belliche violente, presentate come positive perché “nazionali” ed esaltate come quel racconto “di tutti” che non sono mai state.
La scelta giusta
La memoria degli alpini merita decisamente di più. Fra i tanti episodi virtuosi, ad esempio, ce n’è uno che varrebbe davvero la pena commemorare. Il 9 maggio del 1942 un maggiore degli alpini fotografa in Montenegro la fucilazione di un partigiano, eseguita da collaborazionisti locali davanti a una folla di suoi commilitoni. L’immagine è diventata famosa in Montenegro: è uno dei simboli della lotta per la liberazione. Perché la vittima, Ljubo Čupić, ride in faccia ai carnefici nell’ultimo istante della sua vita. Anche il fotografo, Carlo Ravnich, è diventato famoso: dopo aver assistito e preso parte a numerosi crimini di guerra, la mattina del 9 settembre 1943 dà ordine alla sua batteria di sparare contro una colonna tedesca. È il primo atto di guerra contro l’ex alleato nazista. Dopo quel primo scontro, il maggiore degli alpini Ravnich guida i suoi uomini in diverse battaglie contro i nazisti, fino alla scelta di costituire, con altre migliaia di ex soldati, una vera e propria unità partigiana italiana all’interno dell’esercito di liberazione jugoslavo, la divisione Garibaldi, di cui nel 1944 Ravnich diventa comandante.
Falcidiata dalle malattie, dal freddo, dalla fame e dagli scontri coi tedeschi, questa formazione conta alla fine della guerra circa 8.000 caduti. Nel dopoguerra l’Italia, che ha contribuito a scatenare il conflitto, deve rinunciare ad alcuni territori annessi nel 1918, fra questi l’Istria, terra d’origine dello stesso Ravnich. Pur essendo perfettamente bilingue, Ravnich sceglie la sua “identità” italiana: nelle dinamiche complesse dell’esodo istriano-fiumano-dalmata del dopoguerra si trasferisce in Liguria dove morirà, dimenticato, nel 1996. Non ha mai rinnegato i valori per i quali ha vissuto e combattuto: la patria, sì, ma una patria giusta e libera; come nel caso degli alpini – di Nikolajewka e di altre battaglie – che hanno poi imboccato la strada della Resistenza. L’amara delusione verso il fascismo che li aveva mandati a morire (e uccidere) “con le scarpe di cartone”, l’odio verso i nazisti e il loro disprezzo verso la vita umana di popoli considerati inferiori, hanno contribuito a questa scelta. A quali alpini dunque vogliamo dedicare una giornata commemorativa: a chi combatteva a fianco del nazismo o a chi ha scelto di lottare in nome di un’Italia e un’Europa libera, plurale, democratica?
Francesco Filippi, Eric Gobetti, Carlo Greppi
Gli autori di questo articolo – Francesco Filippi, Eric Gobetti, Carlo Greppi – desiderano ringraziare Raffaello Pannacci per i suoi preziosi consigli.
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