un volantino Si.Cobas di Genova
Le descrizioni stereotipe su infermiere/i,
fornite dai media in questi lunghi mesi di pandemia, ci consegnano operatori
eroici, risoluti, attivi, fortificati nella sofferenza, missionari
confortevoli, ubbidienti, credenti e combattenti, mai sfiorati da dubbi, mai
fragili. Sono i figli prediletti della retorica di stato.
Mai dubbiosi sulla mission affidata. Eterei, estranei, silenti e indifferenti
sul come le risorse da destinare alla cura vengono spese e non spese. Questa
prosaica attenzione sarebbe uno scadimento del nobile ruolo assegnato di angeli
del loro e altrui dolore.
Chi tradisce questa metafisica del martirio è
un iconoclasta che deturpa l’immagine da sacralizzare.
Il rivendicare riconoscimento economico e
sociale e per questi è un attentato ai bilanci e al budget e verrebbe tradita
una narrazione che omologa e si impone sino ad essere introiettata ed infine
confinati in un mondo a parte fatto di riti, illusioni, stordimenti e vocazioni
tradite.
Ma ampio è il grado di separazione tra il
racconto e il vissuto intimo. Tra quello che si voleva essere e fare e quello che
non si è e non si è potuto fare. Sembrava che la motivazione a fare bene e del
bene fosse parte di un mondo normale, un mondo se non perfetto almeno a
dimensione umana.
Ma questa è solo una realtà immaginata. La
realtà vissuta è irta di ostacoli. La salute è parte di un mercato.
La vita non è un valore assoluto. La vita è
solo una variabile della domanda e dell’offerta. Su tutto incombe la
compatibilità di bilancio, scelte e dispute su quante poste siano da destinare
alla difesa (armi e guerre) al sostegno dell’industria e della concorrenza.
La logica della Azienda SpA impone ritmi e
tempistiche logoranti. Quanto spazio resta alla dimensione umana? Quante bugie
affollano il mondo delle verità semplici?
Il racconto della nostra compagna almeno per
un attimo allontana i veleni della retorica! Riafferma la forza della fragilità
umana! …per continuare ad essere infermiera e RESTARE!
Essere infermiera che cosa mi
ha insegnato?
Conosco tanti farmaci, la loro specificità, la loro diluizione e
cosa usare in caso di bradicardia, tachicardia, scompensi, rianimazione. Saprei
assistere ad un parto, almeno a non essere tra i piedi. Potrei capire quando è
utile e quali presidi usare per migliorare l’ossigenazione.
So riconoscere quando la mia mano è veloce o trema e se lasciare
una incanulazione venosa senza presunzione di saperlo fare. L’esperienza di
varie specialità mi ha insegnato tanto. Trent’anni indossando divise di ogni
colore a rimando delle varie aree sanitarie, sono state esaustive.
Eppure c’è qualcosa che non ho imparato, a cui non sono avvezza
nemmeno dopo tante esperienze. Come gestire il dolore? Quello altrui?
So stare accanto, questo me lo riconosco, so portare parole di
conforto, alleviare per quanto mi è possibile il disagio, il dolore fisico, la
tensione nervosa portata dalla paura. So essere gentile.
Ma resto completamente a terra di fronte alla elaborazione di un
lutto, quando il dolore per la perdita è vasto, espresso, urlato. Non credo
manchi dignità quando non è silenzioso.
Credo sia incapacità di elaborazione, rifiuto della realtà,
incoscienza per difendersi dalla realtà.
Ecco, in questi momenti vorrei essere vigliacca, sparire, non
vedere, non provare, non sentire, vorrei ci fossero altri, andarmene via senza
che nessuno se ne accorgesse, stare fuori in una notte di agosto a bere
qualcosa di fresco, magari fare un tuffo nel mare e ridere.
Invece entro in queste vite. Mi strappano la pelle. Da trent’anni.
Stanotte uno dei tanti, una vita entrata un mese fa, insieme alla sua famiglia,
in certi momenti anche con pesantezza.
Che cosa ho imparato? A restare. Una infermiera.
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