Da minatori a lavoratori di
alto livello:
gli italiani emigrati in Belgio,
cuore d’Europa.
L’emigrazione
italiana in Belgio, esempio di “integrazione diffusa”.
Dedicata ai nostri emigrati in
Belgio, l’ultima di una serie di ricerche curate da Franco Pittau, per conto
del Centro Studi IDOS per la rivista “Dialoghi mediterranei”
e finalizzate a
riflettere sugli italiani all’estero.
Negli ultimi due decenni si
sono trasferiti in Belgio, un Paese di 12 milioni di abitanti, circa 50.000
italiani, in proporzione paragonabile a quelli emigrati in Germania. In tutto,
gli italiani in Belgio sono oggi poco più di 270.000, senza contare i
belga-italiani, sempre più numerosi. In parte risiedono ancora nelle zone
minerarie, ma in misura consistente hanno scelto Bruxelles, sede di strutture
comunitarie e di importanti realtà sociali, imprenditoriali, sindacali e
religiose.
Le analisi del fenomeno
concordano sul buon livello d’inserimento e integrazione di questi e degli
altri italiani che, nel corso della storia di emigrazione del nostro Paese,
hanno scelto il Belgio come destinazione e che qui sono riusciti a superare la
fase dell’emarginazione lavorativa e molti altri ostacoli. Questa “integrazione
diffusa” si esprime anche con alcuni casi eclatanti, uno su tutti Elio Di Rupo,
figlio di emigranti abruzzesi, che è stato primo ministro dal 2011 al 2014 e
leader del Partito socialista belga: un’affermazione “italiana” a così alto
livello non trova riscontro in nessun altro Paese europeo.
Nel Dopoguerra il Belgio è
stato il primo sbocco dei flussi migratori in partenza dall’Italia e all’epoca
l’inizio non sembrava promettente: i belgi avevano bisogno di braccia e
l’Italia aveva bisogno di carbone. Così, nel 1946 fu stipulato tra i due Stati
il primo accordo di emigrazione “assistita”, termine enfatico rispetto al
trattamento riservato a chi partiva. Tutto fu “nero”: il carbone che si estraeva,
le sistemazioni iniziali nelle baracche degli ex campi di prigionia, il
trattamento sindacale, l’emarginazione linguistica e sociale.
Nel 1956 si verificò il
gravissimo incidente minerario a Marcinelle con 262 morti, dei quali più della
metà italiani. Da quella data l’Italia pose gradualmente termine
all’emigrazione collettiva, mentre il Belgio iniziò, prima sporadicamente e
quindi più decisamente, a ripensare la sua politica migratoria.
Fu lentamente superata
l’ostilità che il Belgio aveva riservato agli emigranti italiani, anche per via
della loro provenienza da un Paese ex alleato e cobelligerante dei nazisti
invasori, e prese avvio una nuova fase in cui cominciò ad essere riconosciuto
il contributo positivo fornito dagli italiani all’industria carbonifera belga
e, successivamente, anche ad altri settori produttivi ed economici, fino al
loro protagonismo nella piccola e media impresa.
All’inizio negli anni ’60,
politici e opinione pubblica belgi si predisposero a un atteggiamento più
inclusivo: il Belgio si trovava ad affrontare complesse problematiche interne,
avendo a che fare con tre regioni autonome, due comunità linguistiche e ben tre
lingue nazionali. Ma ciò non impedì di farsi carico anche delle attese dei
lavoratori immigrati, considerati ormai parte integrante della società. Ciò
avvenne mentre in Europa prevaleva ancora la considerazione dell’immigrazione
come un fenomeno meramente temporaneo e non strutturale, anticipando di molti
decenni le politiche d’inclusione di altri Paesi europei. Le aperture belghe
furono poi rinforzate in un processo d’integrazione continentale e la Comunità
economica europea, costituita nel 1957 con la firma del Trattato di Roma,
consentì di dare inizio nel 1968
alla libera circolazione dei lavoratori, mentre un regolamento
del 1972 attuò il coordinamento delle leggi nazionali per la loro tutela
previdenziale: innovazioni
straordinarie, ancora oggi all’avanguardia in tutto il mondo.
L’atteggiamento più aperto
nei confronti dei lavoratori immigrati portò a facilitare anche il processo di
acquisizione della cittadinanza (tra
il 1985 e il 2000 furono 68.000 i casi di acquisizione di cittadinanza belga
per gli italiani) e, quindi, ad allargare anche il diritto di
voto.
Le seconde generazioni si
sono avvalse pienamente di queste opportunità e, senza più sentirsi in
difficoltà per la diversità della loro origine, si sono fatte protagoniste di
un inserimento lavorativo sempre più egualitario: non più solo minatori, ma
anche lavoratori qualificati, impiegati, imprenditori, professionisti e
funzionari comunitari. Secondo fonti italiane, sino al 1970 si sono recate in
Belgio poco più di 250.000 persone (un numero, per diverse ragioni, da ritenere
sottostimato). La punta più alta si è raggiunta nel 1958 con ben 46.000 espatri
in un solo anno. Numeri che, pur diminuiti successivamente, hanno portato gli
italiani ad essere la
prima collettività straniera in Belgio sino alla fine del secolo (attualmente
sono al terzo posto).
È comprensibile chiedersi
cosa ci si possa aspettare da questo investimento in capitale umano. Agli
italiani, attualmente residenti in Belgio, si aggiunge un flusso continuo di
intellettuali, esperti, professionisti, manager, giornalisti, lobbisti,
stagisti, studenti e operatori sociali (lo stesso Franco Pittau, curatore del
presente rapporto, a Bruxelles iniziò il suo impegno da studioso di
emigrazione).
Il caso belga sottolinea la necessità di una politica
migratoria basata sulle pari opportunità e sul dialogo interculturale e
raccomanda una maggiore attenzione alle collettività italiane all’estero, in
particolare agli italiani che ancora non hanno acquisito la cittadinanza del
Paese in cui lavorano e risiedono.
La stessa storia
dell’emigrazione, come ha ricordato Gianluca Lodetti del Patronato Inas nel
tirare le conclusioni del saggio, va valorizzata per coltivare le prospettive
d’impegno futuro, anche e soprattutto in senso geopolitico.
Lo
studio, per gentile concessione della rivista “Dialoghi Mediterranei”,
da oggi è scaricabile
gratuitamente dal sito di IDOS (www.dossierimmigrazione.it).
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