Senza voler
entrare più di tanto nel merito di un argomento complesso, vorrei far notare
quanto nel tempo la nostra esperienza di democrazia si sia modificata e quanto
oggi definire i nostri paesi, specialmente quelli appartenenti alla Nato ma più
in generale quelli connessi in qualche misura con l’influenza statunitense,
come democrazie, sia sempre più discutibile. Non si tratta semplicemente di
mostrare, come è sempre più evidente, che l’informazione è sempre più
controllata ed egemonizzata da cliché di liberalismo e democrazia del tutto
obsoleti rispetto a ciò che effettivamente poi una tale informazione
offre ma che in generale le nostre, o meglio, in particolare la nostra
democrazia liberale sia una pura finzione.
È evidente
che, a onta di una moltiplicazione sempre più vasta delle fonti di
notizie, che tuttavia a me pare una frantumazione in porzioni sempre più
irrilevanti, il cui limite è ovviamente la cosiddetta pagina personale su fb o
su twitter (milioni!), in verità quelle che producono un’influenza
significativa siano non solo sempre più ristrette ma anche sempre più
controllate, tenute al guinzaglio di lobbies economiche estremamente elitarie e
in generale spaventosamente inclini a espellere dal novero dei propri
rappresentanti (o a non includere), chiunque sia portatore di istanze veramente
diverse da quelle rappresentate secondo le linee di controllo stabilite dai
vari poteri che le sostengono. Magari ospitano voci contrarie ma ben attenti a
selezionarle tra personaggi poco credibili o che vengono facilmente
ridicolizzati o demonizzati nei contesti predisposti a questo.
È verissimo
che oggi tutti parlano e scrivono ma sortendo solo un rumore diffuso che nessuno
sente. La liberalizzazione della rete ha partorito il nulla ed
è di fatto del tutto complice del fatto che a parlare veramente restano solo le
poche fonti di informazione innocue per il sistema di potere (quello sì, sempre
lo stesso nei decenni), i cui rappresentanti sono previamente sottoposti a
castrazione sistematica di ogni capacità di critica radicale. Io stesso mentre
redigo il mio blog o posto qualcosa sulla mia pagina sono perfettamente
consapevole di parlare a un gruppo di persone infinitesimale che mi serve più
che altro per non sentirmi solo (come invece di fatto sono) e che quando
raramente mi sono proposto in sedi più potenti sono stato sistematicamente
rifiutato o censurato. Anni fa una specialista in pubbliche relazioni e
consulenza editoriale mi seguì, per amicizia, per circa un mese, per aiutarmi a
far pubblicare nelle sedi importanti le cose che scrivevo. Dopo un mese riuscì
in effetti a far pubblicare un mio articolo sulla Lettura del Corriere. Il
problema è che non era più il mio articolo, ma una riscrittura (fatta da lei)
in cui tutti gli elementi radicali del mio discorso erano stati rimossi e
rovesciati. Il prezzo da pagare per accedere a una importante fonte informativa
o culturale (discorso non molto dissimile può essere fatto per le case
editrici, i programmi televisivi ecc.) è, più che la capacità di bucare lo
schermo, molto relativa in realtà, l’essere stati castrati della propria carica
eversiva e proporre opinioni facilmente condivisibili e indolori per le
strutture di potere.
La nostra
democrazia funziona così, ce lo hanno spiegato già un secolo fa gli autori
della Scuola di Francoforte: ti danno l’illusione di essere libero e di poter
cambiare le cose. In realtà non puoi mai cambiare niente se non le tue
percezioni. Non
sarà un caso che oggi siamo bombardati da una psicologia che mira a convincerci
che la salvezza può essere frutto solo di una decisione personale. Se non
sei felice è colpa tua, è il suo mantra, per essere felice basta deciderlo. Non
sono gli altri ad essere cattivi, non è il sistema, sei tu che non
hai ancora preso la decisione di guardare il bicchiere mezzo pieno. I teorici
del sistema economico neoliberale del resto lo dicono da tempo: se sei
povero è solo perché hai deciso di essere povero, quindi dipende da te
migliorare la tua condizione economica.
Non è il
sistema sbagliato, sono io
La fine
delle formazioni collettive, unico vero spauracchio per queste false
democrazie, la manipolazione del linguaggio, di cui non
riusciamo neppure a seguire l’andamento delirante, la colpevolizzazione
sottile ma efficace dell’infelicità e dell’insuccesso, la frammentazione della
comunicazione, hanno prodotto la loro verità. Non è il sistema sbagliato, sono
io.
È
incredibile come funzioni bene questo apparato. Se solo pensiamo alla
deformazione del linguaggio che ormai utilizziamo da cui sono stati espunti i
termini che denunciavano la lotta delle classi, che ha eufemizzato ogni forma
di figura di potere nei suoi risvolti di sfruttamento e di violenza, se
pensiamo all’immissione spaventosa dell’inglese che ha mascherato ogni
trasformazione in slogan di cui non percepiamo più alcun significato (ma che a
ben vedere è il calco permanente della razionalità strumentale applicata
semplicemente a tutto: in breve, interessati solo di ciò che ti serve per il
tuo successo personale, poi buttalo via), l’aumento spropositato delle sigle e
delle abbreviazioni, per farci scordare più in fretta di quale materia vile sia
fatto il nostro universo simbolico, se solo ci rendessimo conto di tutto
questo, forse il nostro giudizio sulla nostra “democrazia” sarebbe un poco meno
convinto.
Le nostre
vite scorrono su un nastro trasportatore su cui in realtà non abbiamo alcuna
padronanza, ad onta di
tutto, e il fantasma di quello che ha ben descritto Erik Gandini nel suo
documentario sulla Svezia, “La teoria svedese dell’amore”, è sempre più vicino
e reale. Viviamo soli, consumiamo soli, scriviamo soli, moriamo soli e ogni
tentativo di uscire da questo è semplicemente inibito da servomeccanismi
efficientissimi che non appena sgarri ti riconducono automaticamente alla tua
condizione di solitudine assoluta e di impossibilità a solidarizzare con altri
(tutto è competizione).
Quando
Giorgio Gaber, che aveva
ben imparato, con Luporini, la lezione della Dialettica dell’illuminismo (o se
preferite quella della “religione americana” e del neoliberismo di cui tutti
siamo solo i prodotti ormai), parlava di libertà come partecipazione,
non intendeva ovviamente dire che basta partecipare ai dibattiti o alle
elezioni (in un’altra canzone metteva bene alla berlina il gesto grottesco del
voto elettorale) ma partecipare ai processi di trasformazione della società.
Ci rendiamo
conto che questo nostro paese, come la maggior parte delle democrazie
occidentali, nelle sue strutture profonde, non cambia mai? Altro che gattopardo! Ma
possibile che in ormai settant’anni si sia riuscito a mantenere sempre gli
stessi gruppi di potere, le stesse famiglie, gli stessi gruppi dirigenti? Ma
come mai in questo paese non si è mai riusciti a ottenere di tassare i più
ricchi, di aggredire il tema dell’evasione fiscale, della redistribuzione della
ricchezza?
Certo, in
tempi diversi, quel breve frammento della storia che il nostro sistema
informativo contribuisce ogni giorno a maleficare dietro la sigla di “anni di
piombo”, anni violenti (la demonizzazione del ’68 è una delle operazioni più
schifose che l’intera industria del consenso abbia mai fatto nel nostro paese)
e così via, si ottennero diritti per i lavoratori, statuti, liberazione da
molte condizioni di oppressione, che ormai oggi sono già stati già tutte
ripristinate.
Dominio
Fu proprio
quella stagione a indurre i potenti a lavorare alla più grande opera di
mistificazione culturale e sociale che mai sia stata compiuta sulle nostre
coscienze e sulle strutture della nostra stessa formazione per essere già
pronti ad essere consumati sul mercato del lavoro coatto, delle merci e degli
spropositati guadagni che esse offrono a una ristretta élite di “porci”
unicamente dediti al proprio tornaconto. Si legga al proposito il testo Dominio di
Marco D’eramo, curiosamente un intellettuale che non si sente mai citare
nei nostri media e nei nostri giornali, al pari di altri, ovviamente, tenaci
nel non mollare certi strumenti di analisi e la consapevolezza che viviamo in
un sistema tutt’altro che democratico. In quel testo si mostra come sia
stata realizzata una vera e propria campagna di guerra che ha avuto di mira,
con successo, la colonizzazione delle università, dei centri di cultura e
soprattutto della direzione della ragione economica all’insegna di una
pervasiva ideologia neoliberista, in gran parte responsabile del degrado
sociale, economico, ambientale e culturale in cui oggi viviamo.
Ma di cosa
parliamo quando difendiamo a spada tratta il nostro sistema
liberal-democratico? Di quale società migliore possibile? Siamo davvero
convinti che sia la migliore possibile o siamo semplicemente assuefatti al
messaggio che ci vuole tutti anestetizzati sui disastri che questa società
continua a compiere su di noi, sui nostri figli, sull’ambiente, sugli altri
popoli, nella sua pretesa di globalizzare le sorti del mondo alla luce della
sua fiaccola devastatrice? Quale potere abbiamo di cambiare le cose? Quale
potere ci è rimasto? Quello di inveire come faccio io sul mio blog o sulla mia
pagina facebook o di scrivere libri come quelli di D’eramo che quasi nessuno
legge e che mai saranno promossi da qualche fonte d’informazione rilevante?
Certo,
possiamo fare quasi tutto, purché nulla cambi, come sappiamo bene. Ma il fatto
che nulla cambi induce frustrazione, depressione, infelicità. Questa è la nostra reale
condizione e tutta l’industria dell’intrattenimento e delle varie dipendenze
più o men indotte non può mascherare la spaventosa infelicità che oggi di fatto
costituisce la cifra della nostre vite. Non basta cambiare partner, rivista,
giornale, luogo di villeggiatura, dieta o partito politico per raggiungere la
felicità. La felicità, parafrasando Gaber, è partecipazione.
Partecipazione autentica, in carne e ossa, che produce nuovi mondi, non la
parata grottesca del nostro contributo al chiasso universale su fb o su
twitter.
Ma questo è
interdetto, bloccato, in fondo neppure sui nostri canali privilegiati possiamo
davvero dire ciò che vogliamo, sempre più strette si fanno le maglie e le
censure e i blocchi aumentano quanto più il sistema si sente minacciato.
Si potrebbe
analizzar tutto ciò in maniera molto più dotta. Lo lascio a chi ne è
esperto. I disastri di questo sistema io li vedo nell’educazione e
ne ho già parlato altrove.
Un’ultima
cosa però mi preme dire. Qualcosa sul termine libertà, che ultimamente vedo
impugnato da tutti come il totem della democrazia.
Libertà
Perdonatemi,
sono cresciuto in un altro tempo, o forse in un altro interstizio del tempo ma
il termine libertà non è così nobile come crediamo. Libertà e giustizia
si cerca sempre di coniugarli insieme ma non è affatto ovvio. E neppure
libertà e felicità. Forse occorrerebbe anche iniziare un periodo di digiuno
dalle richieste di libertà, dei diritti di ogni genere e cominciare a optare
per una chiamata alla responsabilità, ai doveri, a una morale, come diceva
ancora Gaber alla fine di un suo spettacolo famoso sulla libertà obbligatoria.
Come
scriveva un antropologo tanto tempo fa esistono (esistevano sarebbe meglio
dire) popoli che vivono nella povertà, nell’indigenza, che non conoscono l’uso
dell’elettricità o del gas ma hanno culture incredibilmente complesse, ricche
di simboli, di riti, di cerimonie collettive, di feste, di uno spirito non
dedito al lavoro e allo sfruttamento. Muoiono giovani ma forse più felici o
semplicemente più ingenui.
Poi esistono
le grandi civiltà, dove l’immaginario diurno della bonifica, della tecnologia,
della razionalità calcolante hanno distrutto ogni traccia di simbolo, di rito,
di festa autenticamente sentita. Abbiamo auto incredibilmente confortevoli per
i nostri viaggi solitari da casa al lavoro tutti i santi giorni, abbiamo
tecnologie potentissime per comunicare con chiunque stando seduti da soli alle
nostre scrivanie nelle nostre case igienizzate, riscaldate, dove il fiume di
parole e immagini televisivi sono l’espediente per non sentirsi soli, abbiamo
mezzi per salvare vite e prolungarle fino a cent’anni, volenti o nolenti,
spesso nolenti o solo persuasi che domani troveranno un altro farmaco per
tenerci in piedi. Forse conquisteremo l’immortalità. Ma a quale prezzo?
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