Numerosi enti locali (fra i quali, da ultimo, il 22
marzo, giornata mondiale dell’acqua, il comune di Roma Capitale) hanno adottato
mozioni in opposizione all’articolo 6 del disegno di legge sulla concorrenza
(A.S. 2469, Legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021).
Attraverso la campagna per lo stralcio dell’art. 6 passa lo scontro tra due
visioni del mondo: da un lato la prospettiva, che ha la sua trascrizione
giuridica nella Costituzione, che pone al centro la persona inserita in una
rete di relazioni, la dignità, i diritti, la partecipazione, la solidarietà;
dall’altro, la «lotta condotta dall’alto per recuperare i privilegi, i profitti
e soprattutto il potere» (Gallino). L’orizzonte del disegno di legge, che
costituisce una riforma “abilitante” del Piano nazionale di ripresa e
resilienza, è ordoliberale: innanzitutto vengono il privato, l’impresa, gli
investimenti (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2021/11/12/il-disegno-di-legge-concorrenza-ovvero-la-festa-delle-privatizzazioni/). È dall’economia di mercato che
possono discendere eventuali benefici sociali: il soggetto e l’oggetto sono
l’impresa. L’art. 6 prevede una delega in materia di servizi pubblici locali,
per «armonizzare la normativa nazionale», nell’intento di «ribadire, in primo
luogo, il doppio fine della tutela e della promozione della concorrenza
menzionato nel PNRR: quello dell’efficienza economica e quello della giustizia
sociale» (così nella Relazione che accompagna il disegno di legge). Scorrendo i
principi e i criteri direttivi del futuro decreto legislativo, tuttavia, a
dominare è la concorrenza intesa come obiettivo autoreferenziale;
obiettivo perseguito a discapito del progetto costituzionale di emancipazione e
del ruolo dei Comuni (https://volerelaluna.it/rimbalzi/2021/11/12/draghi-allassalto-dei-servizi-pubblici-locali/).
Il dominio della concorrenza è coerente con
la Costituzione?
La «tutela della concorrenza» è esplicitamente
menzionata nel testo costituzionale all’art. 117, comma 2, lett. e,
e può essere ricondotta alla libertà economica di cui all’art. 41 (co. 1), ma
questo non la svincola da un rapporto di necessaria conformità rispetto
all’utilità sociale (art. 41, co. 2), che ne determina i limiti, in connessione
con la previsione dell’attività legislativa di indirizzo e coordinamento a fini
sociali (art. 41, co. 3). Nemmeno vale il richiamo all’ordinamento dell’Unione
europea (nella Relazione si legge del «potenziamento delle regole
pro-competitive» come «fortemente voluto dalle istituzioni dell’Unione
europea»): a) se si considera la disciplina in tema di servizi
di interesse economico generale, essa non contempla un obbligo generalizzato di
liberalizzazione; b) se, andando alle radici, si cita
l’inserimento fra gli obiettivi dell’Unione (art. 3.3 TUE) dell’«economia
sociale di mercato fortemente competitiva», restano i limiti e gli indirizzi in
senso sociale dell’economia di cui all’art. 41 Costituzione, i quali, dato il
loro stretto collegamento con l’art. 3, co. 2, integrano un principio
fondamentale e, quindi, un controlimite, in caso di contrasto, rispetto al
diritto dell’Unione europea. Non è la concorrenza il paradigma dei rapporti fra
istituzioni e imprese, o fra politica ed economia, ma sono il progetto
costituzionale di emancipazione personale e sociale e il principio
personalista, che pone al centro la dignità della persona. La concorrenza non
necessariamente, nel perseguire l’interesse individuale alla massimizzazione
del profitto, è coerente con l’utilità sociale. L’utilità sociale non è
veicolata di per sé dalla concorrenza, ma piuttosto della concorrenza
costituisce un limite (rafforzato dal suo legame con l’art. 3, co. 2),
nell’intento di concretizzare l’eguaglianza sostanziale e liberare tutte le
persone da bisogni ed ostacoli al “pieno sviluppo”.
La concorrenza – può aggiungersi – è strutturalmente
una modalità competitiva, che tende a creare diseguaglianza e a incrementarla.
Essa può produrre ricchezza, ovvero profitti, ma questo non implica una
redistribuzione o un miglior godimento dei diritti. Rimuovere gli ostacoli alla
concorrenza – in una battuta – non equivale a rimuovere «gli ostacoli di ordine
economico e sociale» che limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza.
Infine, la concorrenza, nel disegno di legge, si
accompagna a una razionalizzazione e a una semplificazione, che facilmente
degradano in una de-regolamentazione; basti in proposito ricordare come
Tocqueville (La democrazia in America, 1835) scrivesse come il
«principale merito» delle forme «è di servire di barriera fra il forte e il
debole, il governante e il governato…».
Il senso costituzionale dell’autonomia locale
Il Testo unico delle leggi sugli ordinamenti locali
(D. lgs. n. 267 del 2000), dopo aver proclamato che «il comune è l’ente locale
che rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo
sviluppo» (art. 1, co. 1), stabilisce che «spettano al comune tutte le funzioni
amministrative che riguardano la popolazione e il territorio comunale», in
particolare nei «servizi alla persona e alla comunità» (art. 13 TU). Il testo
unico è coerente con gli articoli 118 (che attribuisce in via generale le
funzioni amministrative ai Comuni) e 5 della Costituzione.
L’autonomia locale è inserita tra i principi
fondamentali della Carta (art. 5), a sottolineare la connessione che esiste tra
essa e principi quali democrazia, sovranità popolare, uguaglianza, solidarietà.
L’autonomia è impregnata di tali principi e il riferimento all’unità, sempre
nell’art. 5, ribadisce la sua inclusione in un comune orizzonte incardinato
intorno alla dignità, ai diritti, all’emancipazione. È un’autonomia – quella
costituzionale – che esprime un’idea di territorio come luogo vissuto, spazio
di riconoscimento della pari dignità sociale, di esercizio dei diritti, di
soddisfazione dei bisogni. Attraverso l’autonomia passano il pluralismo, la
sovranità come appartenente al popolo e intrinsecamente plurale, la
valorizzazione della partecipazione. La prossimità è vista come garanzia,
attraverso la vicinanza e l’effettività, di concretizzazione dei diritti, in
armonia e al servizio del progetto costituzionale di uguaglianza sostanziale
(si ritorna all’art. 3, co. 2, Costituzione). I servizi pubblici locali sono
strumento per la tutela della persona, della sua dignità, della sua
emancipazione, dei suoi diritti: a questo sono finalizzati e a questo devono
tendere, non al profitto, all’efficienza economica “what ever it takes”
(fermo restando, peraltro, il rigetto della vulgata del
“pubblico inefficiente”).
è un quadro in linea anche con quanto si legge nella
Carta europea dell’autonomia locale (Strasburgo, 15 ottobre 1985): «per
autonomia locale, s’intende il diritto e la capacità effettiva, per le
collettività locali, di regolamentare ed amministrare […] a favore delle
popolazioni, una parte importante di affari pubblici» (art. 3). «A favore delle
popolazioni», ovvero in stretta connessione con la centralità della persona,
l’uguaglianza, la solidarietà, nella prospettiva dei diritti; e, per inciso,
lontano da pulsioni territoriali egoistiche (il pensiero è all’autonomia
differenziata).
L’articolo 6 del disegno di legge sulla concorrenza si
inserisce in opposizione, in distonia, rispetto a questo quadro. Da un lato,
il focus è, come anticipato, sulla tutela della concorrenza e
non sul servizio teso ad assicurare il godimento dei diritti (fra i
quali, in primis, il «diritto umano all’acqua», come è definito
nella Risoluzione del 2010 delle Nazioni Unite). L’art. 6 (co. 2, lett. a)
del disegno di legge concorrenza si premura in primo luogo di precisare che
l’individuazione delle «attività di interesse generale», necessarie per
«assicurare la soddisfazione delle esigenze delle comunità locali», è «da
esercitare nel rispetto della tutela della concorrenza». Dall’altro, dal
complesso delle varie disposizioni dell’articolo 6 si evince un processo di
privatizzazione che ha la sua apoteosi nella lettera f del
comma 2, dove si prevede l’obbligo per l’ente locale di una «motivazione
anticipata e qualificata per la scelta o la conferma del modello
dell’autoproduzione». Il pubblico viene configurato come recessivo: per
esistere deve giustificarsi. Il modello è il mercato, è il privato,
è la concorrenza. Il testo è chiaro: «oltre la motivazione anticipata e
qualificata», in caso di opzione per l’autoproduzione, si richiede che la
relativa decisione sia trasmessa «tempestivamente» all’Autorità garante della
concorrenza e del mercato e si prevede che sia soggetta a «sistemi di
monitoraggio dei costi» (art. 6, co. 2, lett. g e h).
Non solo: alla lett. q si prevede una «revisione della
disciplina dei regimi di proprietà e di gestione delle reti, degli impianti e
delle altre dotazioni, nonché di cessione dei beni in caso di subentro, anche
al fine di assicurare un’adeguata valorizzazione della proprietà pubblica»: una
perifrasi per alludere a vendita di beni pubblici e, di nuovo, privatizzazione?
Il fine perseguito non pare, come pur recita il
disegno di legge, «la soddisfazione delle esigenze delle comunità locali»,
nella prospettiva – si può aggiungere – della rimozione degli ostacoli che si
frappongono al pieno sviluppo della persona e alla sua effettiva partecipazione
alla vita del Paese (art. 3, co. 2, Costituzione), ma quella «piena
liberalizzazione dei servizi pubblici locali» indicata come «necessaria» nella
nota lettera della Banca Centrale Europea, a firma di Draghi e Trichet, inviata
al “Primo ministro” (così testualmente) il 5 agosto del 2011.
Attraverso la privatizzazione dei servizi pubblici
locali, si svuota l’autonomia territoriale, si restringono gli spazi di scelta
politica degli enti locali, con un vulnus alla sovranità
popolare, alla sua espressione plurale, alla partecipazione: non nel nome,
dunque della Costituzione, ma in linea con una governance –
per inciso, una brutta parola – del PNRR, top-down, locuzione
quest’ultima à la page per sottolineare l’accentramento di
poteri, a discapito delle autonomie territoriali, relegando i comuni in un
compito di attuazione ed escludendoli dal processo decisionale. Ancora: con la
privatizzazione si indebolisce il senso costituzionale di un’autonomia locale concepita
in stretta connessione con la garanzia dei diritti e la concretizzazione di un
progetto di emancipazione sociale, si svuota la funzione sociale dei comuni e
si abbandona il compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli, il cuore
del progetto costituzionale. Un compito – si può annotare – che era stato
difeso dai cittadini, quando con il referendum del 12-13 giugno 2011, il 95,35%
dei votanti (affluenza 57.04% del corpo elettorale) si era espresso per
l’abrogazione di norme che consentivano di affidare la gestione dei servizi
pubblici locali a operatori economici privati. Un primo tentativo di aggirare
l’esito referendario, attraverso il sostanziale ripristino della normativa
abrogata, era stato respinto dalla Corte costituzionale (sentenza n. 199 del
2012); oggi ritorna l’arroganza di chi vuole stracciare la volontà popolare e
neutralizzare la Costituzione sostituendola con una razionalità altra,
neoliberista.
L’art. 6 del disegno di legge sulla concorrenza
manifesta una volta di più la prassi di agire “come se la Costituzione non
esistesse”; una prassi invero pervasiva, che dilaga nei rapporti fra gli organi
costituzionali, si esprime nell’abbandono del progetto di emancipazione, nella
rimozione del conflitto sociale e nell’egemonia dell’economia sulla politica.
L’invito allora è a opporsi ad un disegno di legge che assume come grundnorm la
competitività, per tornare alla Costituzione, a un progetto che pone al centro
la persona e la sua emancipazione, per ragionare – per dirlo con Pasolini – non
di sviluppo, ma di progresso.
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