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Piergiorgio Bellocchio: al di sotto della mischia
Piergiorgio
Bellocchio è stato un intellettuale tra i più influenti e al tempo stesso più
appartati del proprio tempo. Il suo nome è legato ai ‘Quaderni Piacentini’ da
lui fondati (1962) e diretti e che prendono il nome dalla città emiliana dove è
vissuto per tutta la vita. Nel tempo si affiancarono nella direzione Grazia
Cherchi, poi Goffredo Fofi, ma vanno aggiunti, tra i collaboratori, almeno i
nomi di Luca Baranelli, Francesco Ciafaloni, Giovanni Jervis, Michele Salvati,
Bianca Beccalli, Giovanni Giudici, Carlo Donolo e molti altri. La rivista era
un punto di riferimento per la sinistra non marxista che aveva tra i suoi
maestri Raniero Panzieri (1921-1964) e un rapporto dialettico con i grandi
intellettuali del tempo, in particolare con Franco Fortini, ma anche con Cesare
Cases e Sebastiano Timpanaro, che vi collaborarono a loro volta.
Bellocchio,
che non aveva attitudini di comando ma cercava soprattutto una consonanza
morale con i collaboratori della rivista, ha ribadito più volte che la stagione
più feconda di elaborazione culturale e politica del ‘68 avvenne negli anni che
lo precedettero: la decolonizzazione e le conseguenze della guerra d’Algeria
(Frantz Fanon), i fermenti di rinnovamento nella Chiesa cattolica (don Milani),
le prime rivolte studentesche americane e il movimento antirazzista, le
battaglie laiciste in una società italiana ancora molto autoritaria. La rivista
non faceva sconti ai grandi intellettuali, registi e scrittori del tempo, sia
quelli legati al PCI, sia a tutti gli altri. Non erano amati nemmeno i coetanei
del Gruppo 63, considerati troppo tecnocrati e in carriera. Bellocchio
alimentava socraticamente nel gruppo la diffusione di ciò che non stato ancora
tradotto in Italia: i surrealisti francesi, la cultura della Germania di Weimar,
il new criticism americano. Utilizzava la letteratura, i grandi romanzi, come
strumento di interpretazione della società e delle sue dinamiche. Aveva però
anche molta voglia di imparare dai collaboratori più aggiornati le
trasformazioni della società, italiana e internazionale: oltre a quelli
ricordati c’erano anche Elvio Fachinelli, Sergio Bologna, Guido Viale e altri
ancora.
Negli anni Settanta la rivista, pur continuando a essere interessante, scontò
un po’ l’eccesso di ideologia che si impadronì della società italiana, finendo
per chiudere i battenti nel 1984. Bellocchio distribuiva personalmente le copie
in giro per il nord Italia ed era un modo di restare in contatto con i diversi
gruppi locali (in particolare di Milano e di Torino), che era quanto di meglio
offrisse a quel tempo la società civile di casa nostra. A parte una raccolta di
racconti, I piacevoli servi (1966), pubblicata col favore di
Vittorio Sereni da Mondadori, Bellocchio non si cimentò mai nella narrativa e
si risolse tardi a raccogliere i suoi spunti critici in libri pubblicati nella
seconda parte della sua vita. Per citarne qualcuno: Dalla parte del
torto (1989), Al di sotto della mischia (2007) e il
più recente Un seme di umanità (2020). A questa seconda fase
di vita appartiene anche la rivista “Diario” (1985-1993), redatta unicamente
insieme all’amico Alfonso Berardinelli e che registra l’ammainabandiera della
nostra sinistra e la laicizzazione della società in nome di una modernizzazione
spinta da una rincorsa all’arricchimento personale, mentre gli antichi valori
scomparivano senza essere sostituiti da altri. Bellocchio, oltre che un grande
critico letterario fuori da ogni schema ma con un gusto pressoché infallibile,
è stato, quasi unico nel nostro Paese, un grande osservatore e critico della
società sul modello di George Orwell o di Albert Camus. Partendo da fatterelli
di costume o di cronaca riusciva a risalire alle grandi trasformazioni del
nostro Paese.
Chi lo ha conosciuto ne ricorda, a parte l’eterna sigaretta e l’aria
stropicciata da attore francese dei film in bianconero, la grande simpatia
umana, una curiosità intellettuale senza steccati, la natura caustica ma sempre
comprensiva dell’imperfezione dell’umanità. Chi non lo ha conosciuto lo può
ritrovare nel bellissimo documentario, Marx può aspettare (2021),
girato dal fratello Marco, in ricordo di un altro fratello, Camillo, morto
suicida. Un clan famigliare con grandi differenze al suo interno ma unito da un
vincolo d’amore.
***
Ripubblichiamo
qui l’intervista del 25 marzo 2020 che Alberto Saibene ha fatto a Piergiorgio
Bellocchio in occasione dell’uscita del suo ultimo libro Un seme d’umanità. Note di
letteratura (Quodlibet, 2020)
Mi è
capitato negli ultimi anni di incontrare Piergiorgio Bellocchio a Piacenza o
d’estate in Versilia e ogni volta gli chiedevo a che punto fosse con il libro
che raccoglieva le sue riflessioni, introduzioni e critiche su autori tra
Ottocento e Novecento. Le risposte di Bellocchio nei primi tempi erano evasive,
poi via via più convinte. Ho seguito l’iter della pubblicazione attraverso le
notizie che mi davano gli amici Gianni D’Amo, a cui il libro è dedicato, e Luca
Baranelli, che lo hanno fiancheggiato nelle diverse fasi. Ora finalmente
possiamo leggere Un seme d’umanità. Note di letteratura (Quodlibet)
ed è un avvenimento da festeggiare perché Bellocchio, pur essendo stato
animatore di riviste come ‘Quaderni piacentini” e ‘Diario’, con l’amico Alfonso
Berardinelli, ha preferito restare appartato, come se uno sguardo di sbieco
fosse il più efficace per comprendere il proprio tempo. Un lettore di
provincia?
Mi veniva in
mente la formula applicata a Renato Serra, un critico dei primi del Novecento,
il primo a fare kulturkritik nel nostro Paese. Solo una
suggestione, anche se Bellocchio non si è mai spostato da Piacenza, dove vive
in un anonimo condominio anni Sessanta. È qui che mi accoglie con quell’aria da
attore francese e l’eterna sigaretta (“le ho diminuite”, protesta). Si avvicina
ai 90, ma in fondo è sempre uguale, sempre curioso di quel che accade attorno.
Non vorrebbe un’intervista, “tutti fanno interviste e nessuno una recensione”.
L’elenco degli autori trattati nella prima parte del libro (Casanova, Stendhal,
il grande romanzo russo, Dickens, Flaubert, Belinskij, Herzen) non corrisponde
alle sue predilezioni ma si avvicina. Al centro c’è il grande critico americano
Edmund Wilson (“è il critico che più mi ha influenzato”), mentre per il XX
secolo le affinità sono più evidenti (Hasek, Lawrence d’Arabia, Isherwood,
Orwell, Céline, Nizan, Böll e, tra gli italiani, il Pampaloni autobiografico,
le lettere di Pasolini, Fenoglio, Bianciardi, Danilo Montaldi), con un ultimo
saggio dedicato al Barry Lindon di Stanley Kubrick.
Ma quando li
hai letti questi romanzi? Arbasino, che è del ‘30, dice che durante la guerra
non c’era niente da fare se non leggere. “Un po’ è vero. Allora c’erano i libri
e la radio. La radio è stata molto importante negli anni Quaranta: il teatro,
Shakespeare, la RAI che aveva una buona compagnia d’attori. Quanto ai romanzi,
cominci con quel che trovi in casa: Zola, Maupassant erano nella biblioteca di
mio padre, ma non lo erano Flaubert o Stendhal. Tolstoj era molto apprezzato.
Poi esistevano le biblioteche circolanti dove ogni settimana sceglievi qualche
libro. In quel modo ho letto parecchio,” Leggere i romanzi per la mia
generazione ha significato cercare di capire come funziona il mondo, come ci si
deve stare. Era così anche per voi? “Dico sempre all’amico Gianni D’Amo, insegnante
di liceo, che per far capire ai ragazzi la filosofia tedesca basta leggere I
Buddenbrook. Dentro trovi Hegel, Schopenhauer, Wagner e Nietzsche,
tradotti in vita”. I primi saggi sono spesso introduzioni anni Settanta-Ottanta
per i ‘Grandi Libri’ Garzanti e l’aria del tempo si ritrova in un’idea
progressista di società, con gli scrittori che devono essere uno strumento di
questa presa di consapevolezza. “Avevo letto Lukács certamente, ma il critico
che mi ha più influenzato è Edmund Wilson: andava sempre al di là della
letteratura.
Ad esempio
in Stazione Finlandia. Biografia di un’idea, Lenin e Trotzkji
divenivano personaggi, ma la connessione tra vita sociale e romanzo prosegue
anche nel Novecento: pensiamo al Dottor Zhivago”. Mi sembra che i
canonici Proust, Joyce, Kafka è un discorso a parte, non siano tra i tuoi
autori. O sbaglio? “Joyce l’ho letto con una certa attenzione e piacere, Proust
l’ho iniziato, ma l’ho letto bene e tutto solo dieci anni fa. A me piaceva
molto Jean Santeuil: il mio sogno sarebbe stato di scrivere un
piccolo Santeuil”. Il saggio su Herzen è un discorso a parte, che,
tra l’altro, introduce il tema dell’autobiografia. È un saggio simpatetico,
così come quello sul soldato Svejk. “Quest’ultimo nasce su commissione di
Franco Moretti per quei libroni Einaudi sul romanzo, così come quello su
Fenoglio. Li ho fatti molto volentieri “. Insomma tutti i pezzi, o quasi,
nascono su commissione. Nella paginetta di premessa scrivi come la scrittura
d’invenzione ti abbia progressivamente interessato meno a favore di scritture
diaristiche, memorialistiche, storico-politiche, anche se le distinzioni non
sono mai così nette. Se posso cogliere una coincidenza mi pare che questo
interesse per la persona, per il singolo nella storia, avviene nel momento del
tramonto delle grandi ideologie.
Nel libro
mancano gli Americani, che sono forse gli ultimi a voler spiegare il mondo
attraverso il romanzo. Come mai? “Non è capitato, ma qualche romanzo di Philip
Roth l’ho letto: Pastorale americana, ad esempio. Associo la forza
economica e politica di una nazione con l’importanza, anche per contrasto, dei
romanzi e a me pare che gli Americani sono quelli, ancora oggi, che ne hanno di
più”. Nel libro c’è un pezzo non finito su Napoli 44 di Norman
Lewis. “Il libro mi era piaciuto e mi dava l’occasione di fare una riflessione
sull’Italia”. In effetti un altro tema che vien fuori è il tuo interesse per
l’antropologia degli Italiani, visti da fuori, ma anche da scrittori di casa
nostra. “Sì, ho molte annotazioni su Pinocchio che non ho mai
raccolto in un saggio. Di Pinocchio se ne sono occupati in molti (Manganelli e
tanti altri), ma il miglior lettore di Pinocchio è stato Paolo Poli che aveva
trovato una chiave giusta solo attraverso l’interpretazione Un altro libro è Cuore.
Henry Miller in Tropico del Cancro manifesta un amore
sviscerato per Cuore. Il diario scolastico è un libro molto
interessante di cui varrebbe la pena occuparsi senza fare troppo la parodia
come ha fatto Umberto Eco”.
Insomma si
ritrova un tuo interesse per il costume degli Italiani. “Pensa solo al
fascismo. Non riesco a seguire gli scrittori italiani contemporanei. Sono un
po’ diffidente. I miei scrittori sono Fenoglio, Volponi, Meneghello, Calvino,
la generazione nata negli anni Venti. Sono passati tutti per la guerra. Così
come lo stesso Pampaloni”. Un bravo critico, Daniele Giglioli, ha riassunto la
generazione attuale in un saggio dal titolo Senza trauma, una
letteratura senza trauma. “E in effetti Bassani e Fenoglio cosa avrebbero
scritto senza quel che gli è successo?”. E Pasolini di cui ha anche scritto
un’introduzione nel Meridiano dedicato ai Saggi, anche lui appartiene a quella
generazione? “Oltre ai saggi, il mio Pasolini preferito è quello giovanile.
Patì il problema dell’omosessualità che non ha mai superato”. In questo libro
tu lo attraversi tramite l’epistolario. Quel che colpisce è la sterminata
produttività: cinema, teatro, letteratura, giornalismo. E se lo si paragona a
d’Annunzio? Sono troppo provocatorio? “Ci sono punti di contatti ma noi
odiavamo D’Annunzio e volevamo invece bene a Pasolini, anche se i poeti per la
mia generazione sono Montale ed Eliot, La terra desolata, il libro
che annuncia il secolo nuovo”.
Non abbiamo
ancora parlato di un grande del Novecento che si ritrova in queste pagine:
Céline. “L’ho letto molto con grande ammirazione”. Pensando a Céline ti chiedo
se il romanzo dev’essere per forza borghese. In questo caso verrebbe da dire
antiborghese. “In Céline c’è però la piccola borghesia”. Anche Dickens forse
non è borghese. “Sì in lui c’è un grande amore per il teatro”. Un luogo neutro
rispetto alle classi sociali. “Dickens non accetta mai un invito a corte, non
si imborghesisce”. Mi pare che ci sia una tua simpatia manifesta verso gli
irregolari. Montaldi lo hai conosciuto bene? “Abbastanza. Era un personaggio
curiosissimo, lui sì di estrazione popolare. Il padre comunista che fu poi
espulso dal Partito. Anche lui uscì dal PCI, con questa prospettiva di Parigi
come luogo dove c’era stato se non altro un movimento trotzkista di qualche
peso, a differenza che da noi. Montaldi era un uomo libero. Aveva lavorato
qualche tempo da Feltrinelli ma poi si era stufato. Campava di poco, forse era
aiutato dalla madre che non è che ne avesse molti neanche lei. Non hai mai
voluto collaborare ai ‘Quaderni’. Lo si andava a trovare a Cremona”.
Ti consideri
uno scrittore, hai uno stile così personale, non sei tanto facilmente
inquadrabile, affabile verso il lettore: dove hai imparato? “Da giovane a casa
passava il ‘Corriere’: Piovene e Montale a modo loro erano maestri, così come
Ansaldo: grande stilista, grande giornalista, grande sociologo. Sto pensando ai
pezzi sulla ‘Rivoluzione Liberale’. C’è n’è uno su Ojetti ad esempio. Ebbe poi
l’interdizione della firma, riuscì a resistere qualche anno, ma quando Ciano
gli chiese di collaborare al ‘Telegrafo’ capitolò”. Tu tra Pampaloni e Fortini
da che parti stavi? Io stavo dalla parte di Fortini, anche perché non conoscevo
ancora il Pampaloni memorialista. In Fortini c’è un’energia, una polemica,
mentre in Pampaloni si sente la lezione di Pancrazi, ma in Fedele alle
amicizie ci sono giudizi penetranti, scritti senza alzare la voce”.
Tutti hanno litigato con Fortini, mentre tu sei riuscito a farla franca nonostante
la sua propensione. Come ce l’hai fatta? “L’imbarazzo l’ho provato quando
abbiamo pubblicato su ‘Diario’ il saggio di Berardinelli sugli stili
dell’estremismo. Il pezzo uscì quando a Fortini venne diagnosticato un tumore
all’intestino. La cosa mi dispiacque molto. Lo andai poi a trovare ma non si
parlò della cosa. Era diventato uno scheletro”. Un altro fratello maggiore è
Cases “Molto bravo, anche come italianista. Peccato non sia occupato dei
classici italiani o milanesi. Era uno che non raccoglieva, meno male che
Baranelli si è occupato di mettere insieme quei libri per Einaudi”. Mi colpisce
che Cases sia stato immune dal mito di Gadda. “Anche Fortini”. Certo che Gadda
usato come santo patrono del Gruppo 63 oggi suona un po’ strumentale. “In
effetti certe diffidenze verso Gadda sono state determinate dallo sfruttamento
da parte di alcuni, anche se ad esempio Arbasino ha scritto delle cose
abbastanza belle su di lui”.
Ho
l’impressione che il canone novecentesco alla fine sia stato messo a punto dai
professori universitari. Nel tuo libro tra gli irregolari c’è Bianciardi che è
troppo forte per essere messo da parte “Hai ragione, ma Calvino, Fenoglio sono
entrati nel canone dalla porta giusta. Trovo però che le Lezioni
americane siano il suo libro più superficiale. Non parla mai
dell’Italia. Va ad Harvard e non parla da dove viene”. Non possiamo pretendere
che i nostri scrittori siano anche i nostri eroi. Sto pensando a Orwell e
Camus, che in qualche modo lo sono stati. “Quando ero giovane Sartre e Camus si
contendevano la palma, poi lo ho mollati entrambi, pur essendo molto diversi”.
Ci sono scrittori considerati santi laici, una categoria a cui un po’ indulge
Goffredo Fofi (non solo con gli scrittori naturalmente).
Tu non sei
così, anche se Orwell ha pagato tutto in prima persona. “Sì Orwell ha una
statura diversa e, a modo suo, anche Lawrence d’Arabia, figura da rivedere.
Vorrei aggiungere Auden come poeta e forse Eliot con la Terra desolata che
è all’inizio di tutto”. Ti capita di rileggere i libri della tua gioventù?
“Devo dire che non affronto spesso riletture perché sono poi delle delusioni,
con l’eccezione di Dostoevskij. Conrad, che aveva contato così tanto nella mia
formazione, è stato deludente da rileggere”. Sono appunto romanzi di
formazione, che valgono quando sono letti per la prima volta. “Diverso è il
caso dei moralisti come Chamfort, che era un mio autore anche in gioventù o se
leggo Le ricordanze di Leopardi mi viene da piangere ancora
oggi. Nel frattempo ho imparato a farmi piacere anche Manzoni. E poi Porta,
Belli. De Santis, Nievo, Verga, ma è come se il melodramma avesse tolto spazio
al nostro romanzo”.
Vorrei
concludere parlando di cinema. Nel libro c’è un saggio molto bello su Barry
Lindon, il modo in cui Kubrick rilegge la storia, ma in generale si sente
una grande passione per il cinema. Ci sei andato tanto? “Nei miei vent’anni
avevo un cineclub con amici. A quell’epoca, a parte il neorealismo, c’erano i
primi Wilder, John Huston. Il cinema l’ho amato moltissimo. Vedemmo insieme i
capolavori del muto, Dreyer, Ejzenštejn, il cinema francese. Fu una grande
educazione. Non so se questi film terranno nel tempo come la grande
letteratura. Se dovessi però dire il film che mi ha più posseduto è stato Biancaneve
e i sette nani, visto a sette anni. Noi in più eravamo una famiglia
numerosa: io forse ero Pisolo, ma chi se lo ricorda più”.
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