L’invasione russa pare aver dato una decisa accelerazione alla discussione
sull’opportunità di creare le forze armate dell’Unione Europea. Qui tre buone
ragioni per essere contrari.
In questi giorni si è tornati a parlare con insistenza di Esercito Comune
Europeo. Non è una novità nel nostro dibattito pubblico, ma la guerra alle
porte dei confini europei sembra per la prima volta porre il tema come
un’assoluta esigenza: di fronte all’irrilevanza diplomatica dell’Unione Europea
nelle trattative di pace, la corsa al riarmo e l’Esercito Comune sembrano le
due risposte più logiche per smettere di essere vaso di coccio fra i vasi di
ferro statunitense e russo. Ma una simile costruzione porta con sé insidie
politiche e democratiche su cui vale la pena ragionare.
Una questione (geo)politica. La prima, più ovvia perplessità
rispetto ad un Esercito Comune è come immaginare una forza militare condivisa
fra Stati con interessi e politiche divergenti, se non concorrenti. Visegrad,
Francia, Germania e Europa Meridionale mantengono interessi e zone d’influenza
ben distinte, talvolta conflittuali. I nazionalismi dell’Europa Orientale hanno
poi dimostrato tutta la loro pericolosità nel quadro del conflitto in Ucraina,
fra la volontà di allegare il conflitto (Polonia) o legami con il sistema di
potere putiniano (Ungheria). Per queste ed altre ragioni ad oggi una politica
estera europea ha stentato a nascere. I momenti di rara unità operativa, come
in occasione dell’esclusione della Russia dal sistema SWIFT, sono parsi
imposizioni dal “fratello maggiore” statunitense più che una elaborazione
europea autonoma.
Una questione nazionale. Le prospettive per un Esercito Comune Europeo, con
gli attuali rapporti di forza interni ed esterni all’Unione, sembrano due:
subalternità alla strategia americana, o un eterno braccio di ferro fra gli
opposti interessi nazionali europei, in assenza di istituzioni politiche capaci
di mediare fra di essi. Senza dimenticare gli enormi rischi che una struttura
militare potenzialmente gigantesca, legati ai nazionalismi dei paesi Visegrad,
comporta: l’Esercito Comune diverrebbe non un elemento di stabilità
geopolitica, ma un’ulteriore faglia d’instabilità. Dalla creazione di un
esercito sovranazionale di grandi dimensioni emerge anche un altro rischio, una
sua “rinazionalizzazione” nella prassi. Per spiegarci meglio, proviamo a
pescare dal ‘900 la storia di un altro grande esercito sovranazionale: L’Armata
Popolare Jugoslava. Racconta Jovan Divjak, guardia del corpo di Tito e
ufficiale bosniaco (seppur di nazionalità serba) durante le guerre jugoslave,
che nonostante la volontà titina di rappresentare nell’esercito il mosaico dei
popoli jugoslavi, “[…] nel 1960 circa il 50% degli ufficiali era serbo, il 22%
croato e il 2% sloveno. Alla morte di
Tito, gli ufficiali croati erano il 14%, quelli sloveni non più del 3%. […]
alla fine degli anni Ottanta, il 75% dei cadetti era serbo o montenegrino.
Anche se Slobodan Milosevié avviò un’epurazione e una serbizzazione
dell’esercito, terminata nel 1991, questa s’era già in buona parte compiuta nel
corso degli anni, quasi automaticamente”. Se andassero a crearsi nell’Esercito
Comune Europeo equilibri nazionali fortemente sbilanciati, per esempio con una
netta preponderanza tedesca e francese (ad oggi i
maggiori eserciti del continente), questo che effetti avrebbe sugli equilibri
politici dell’Unione? Creare un esercito comune, altra grande sovrastruttura
dopo il mercato comune e la moneta unica, prima di istituzioni democratiche
realmente efficaci è una scelta lungimirante per il futuro politico
dell’Europa?
Una questione democratica. Il 29 ottobre 1992, ad una Camera
quasi unanime nel ratificare il trattato di Maastricht, Lucio Magri disse “Mi
pare incomprensibile, anzi patetico, il discorso di chi vota il trattato
augurandosi che si possa completarlo con istituzioni democratiche: Maastricht
va esattamente nella direzione contraria”. La stessa logica può essere
applicata, con gli opportuni accorgimenti, all’Esercito Comune: l’Unione
Europea rimanda la questione democratica dalla sua fondazione, ripromettendosi
di rafforzare le proprie istituzioni rappresentative dopo aver allargato le
proprie competenze. Per la sua natura neogiurisdizionale e tecnocratica l’Unione
entra ciclicamente in crisi di legittimità: è successo dopo la crisi economica
del 2008, è successo di fronte alla crisi migratoria, è ragionevole pensare
possa succedere anche di fronte alle conseguenze economiche e politiche
dell’invasione russa dell’Ucraina. Un Esercito Comune non imprimerebbe
un’accelerazione alla democratizzazione delle istituzioni europee, ma
rappresenterebbe l’ennesimo vincolo esterno a cui rispondere per la fragile
democrazia europea. Una istituzione già di per sé problematica come l’esercito,
slegata da legami nazionali e legittimazione popolare, rappresenta un rischio
troppo grande per poter rimandare ad un futuro imprecisato la costruzione dei
contrappesi democratici che dovranno controllarlo.
Per concludere. Non può esistere un Esercito Comune senza prima aver risolto le questioni
geopolitiche, nazionali e democratiche ad esso legate. Se l’Unione pensa di
poter costruire, mantenere e controllare il secondo esercito globale, dovrà
prima dimostrare di saperle risolvere, reinventandosi e rivoluzionando i propri
processi interni come mai dalla sua fondazione ad oggi. In assenza di tali
risposte, l’Esercito Comune esacerberebbe le problematiche che affliggono il
progetto europeo: subalternità agli Stati Uniti, crisi di legittimità e
inefficienza democratica.
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