La Libertà Non Sta Nello Scegliere Tra Bianco E Nero, Ma Nel Sottrarsi A Questa Scelta Prescritta. (Theodor W.Adorno)
martedì 31 ottobre 2017
Un paese a disagio con i diritti umani - Lorenzo Guadagnucci
Le due nuove condanne inflitte
dalla Corte europea per i diritti umani fanno dell’Italia uno dei paesi più
problematici –
fra i 47 di cui la Corte si occupa – in
materia di tortura. Esaminando le sentenze una per una e
stilando una classifica, scopriremmo probabilmente che l’Italia, in
materia di tutela dei diritti fondamentali (in special modo nei luoghi di
detenzione), è più vicina a paesi come la Russia, l’Ucraina e la Turchia che a
Francia, Germania o Gran Bretagna.
È un problema noto da molti
anni, documentato dalle maggiori organizzazioni di
tutela dei diritti umani, dalle cronache dei giornali e ormai anche dai
tribunali. Ma qual è stata la risposta delle istituzioni? Che
cosa si è realmente fatto nella prevenzione degli abusi e nella punizione dei
responsabili di casi di tortura?
I giudici europei su questi
punti sono stati durissimi e chiarissimi. L’Italia è priva di strumenti di
intervento adeguati e in aggiunta diversi apparati dello stato hanno compiuto
scelte profondamente sbagliate: l’azione della magistratura è stata “impunemente
ostacolata” (citazione testuale dalla sentenza Cestaro); i vertici dello stato
non hanno preso provvedimenti contro i responsabili di tortura, né sospesi né
licenziati nonostante rinvii a giudizio e condanne; niente di serio è stato
fatto nell’ottica della prevenzione.
La vicenda della legge sulla
tortura è emblematica.
Nel luglio scorso è stata approvata una norma paradossale, che probabilmente
non si applicherebbe proprio ai casi Diaz e Bolzaneto per i quali siamo stati
condannati (lo
avevano denunciato – inascoltati – ai presidenti delle camere undici undici
giudici genovesi) e che comunque, parole del commissario
del Consiglio d’Europa per i diritti umani, apre ampi varchi all’impunità.
La verità è che non esiste nel
nostro paese – nella sua classe politica e intellettuale – la volontà di
riconoscere che abbiamo serie difficoltà nella tutela dei diritti umani: ai
casi eclatanti delle torture si sommano l’opacità degli apparati di sicurezza,
la scarsa attitudine a rendere conto del proprio operato, l’inesistenza di
un’autorità indipendente di vigilanza.
La verità è che il legislatore,
anche di fronte casi eclatanti come le torture, le violenze e i falsi
durante il G8 genovese del 2001, non si è mai schierato dalla parte dei
cittadini sottoposti ad abusi odiosi e gravissimi, e si è invece messo dalla parte di
apparati autoreferenziali e riottosi rispetto alle regole di condotta tipiche
delle forze di polizia nelle migliori democrazie.
Le conseguenze sono sotto i
nostri occhi:
l’impunità generalizzata; la legge truffa sulla tortura; l’indifferenza- va
detto anche questo – verso i campi
di detenzione delocalizzati in Libia, ultima
perla di un paese chiaramente a disagio con la dottrina dei diritti umani.lunedì 30 ottobre 2017
Il villaggio elettronico - Michelangelo Pira
si tratta di un libretto di una quarantina di pagine, parte
di un libro che Michelangelo Pira stava scrivendo, ritrovato dopo la sua morte.
è una piccola grande storia che comprende il mondo, passato
presente e futuro stanno miracolosamente insieme, nel racconto di un uomo che
sta per morire.
“…io ho vissuto nella misura in cui ho comunicato, si vive in
quanto si comunica…”
(Pier Paolo Pasolini dice, negli stessi anni: "La morte non è nel non potere più comunicare, ma nel non potere più essere compresi.")
Un
suo libro, Sos Sinnos inizia così;
“B'at cosas chi pro las cumprèndere bi
cheret tempus e isperièntzia; e cosas chi cand'unu at isperièntzia no las
cumprendet prus. Cosas chi pro furtuna s'irmentican e cosas chi pro furtuna
s'ammentan; e cosas chi si creden irmenticadas e chi imbetzes una die a
s'improvisu torran a conca” (“Ci sono cose che per capirle serve tempo ed
esperienza; e cose che quando uno ha esperienza non le capisce più. Cose che
per fortuna si dimenticano e cose che per fortuna si ricordano; e cose che si
credono dimenticate e che invece un giorno all'improvviso ritornano alla mente”)
QUI
un ricordo di Michelangelo Pira
Sappiate che è un gigante della cultura sarda (e non solo),
vissuto nella seconda metà del secolo scorso e che tutto quello che ha scritto
vale tutto il tempo che gli si dedica.
(ri)ascoltare Flavio Giurato
Una riscoperta italiana: Flavio Giurato
Premessa: e' il 1982. un anno che
ancora non sappiamo essere di un decennio che non avrà in futuro una brutta
fama. E' Marzo e tutti sono impegnati a parlare di Campionati del Mondo che
stanno per arrivare. Craxi e Andreotti stanno mettendo a frutto la loro
"alleanza" e stanno "pensando" cosa fare di buono (per
loro) nel prossimo futuro. C'e' confusione ma non si vede.. Politicamente
esiste ancora il PCI che e' sempre li' per li' per vincere le elezioni ma alla
fine il risultato e' sempre lo stesso. Berlusconi e' ancora un semplice
"muratore" (nel vero del termine, cioe' colui che costruisce le case
e nel senso politico, cioe' colui che e' iscritto alla Massoneria e cerca di
costruire sempre maggiori case anche se non proprio legalmente), e le Tv sono
ancora libere.. Le radio sono al massimo della liberta' (nonostante tutto.) e
l'Italia pullula di Dj dall'accento regionale al 100% ma che, comunque, mandano
buona musica senza dover per forza di cose fare i conti con Network
"demenziali"... Le Feste dell'Unita' sono un appuntamento serio.. Ci
si va e si canta Bandiera Rossa.. Nessuno sogna piu' la Russia ma almeno i
valori di eguaglianza e solidarieta' sono sempre ben presenti. specie sui piu'
giovani. La storia ci insegnera'. Purtroppo, che molti di quei contestatori al
Governo in carica, specie i piu' radicali, un giorno saranno forza governativa.
solo che anziche' sotto la Bandiera Rossa saranno sotto un cielo Azzurro e
canteranno una canzone di Partito (o di azienda.fatte voi) che e' una delle
cose piu' ridicole che la storia delle sette note abbia mai prodotto nelle sua
lunga storia... io che all'epoca avevo 22 anni sorridevo per canzoni tipo
Umberto Tozzi o altre cose simili.. Ma mai avrei immaginato che un giorno ci
sarebbe stata una canzoncina peggiore di tutte. Ad ogni modo nella Tv Pubblica
(in mano sempre alla politica ma con un senso del "pubblico" diverso
dall'attuale senso che la Destra ha dato negli anni..) la sera, se non sbaglio
il Martedi' alle 22.30. un certo Carlo Massarini invento' un programma che era
una rivoluzione per i tempi."Mr. Fantasy". Il titolo del programma
arrivava da un disco dei Traffic e la scenografia era molto
"all'avvanguardia" per allora. tempi in cui, non dimenticatelo, la
cosa piu' elettronica che avevamo erano le calcolatrici con 13 funzioni!!! I
calcolatori elettronici erano delle cose enormi che avevamo visto solo in Tv e
che occupavano stanze di svariati metri quadri. Carlo massarini, come tutte le
cose intelligenti di quegli anni, svani' nei retri degli studi di produzione e
solo dopo anni gli fu affidata una bella trasmissione su Rai3 ma verso l'ora di
pranzo.in modo che potesse essere visto da non piu' di 1650 persone! Non era un
tipo pericoloso per la Democrazia, nel senso che non era un rivoluzionario, ma
solo che mostrava di "pensare da solo" e gia' allora i Padrini
spirituali dell'attuale Primo Ministro vedevano male chi "pensava".
Comunque in questo quadro la musica rock italiana era ben divisa.. C'era il
rock. (ma neanche tanto. ) che faceva "rumore fastidioso" per la
grande platea pubblica, ed inoltre era sempre una "conseguenza" di
quello che veniva dagli Usa o dall'Inghilterra.. E poi c'erano i cantautori.
Dalla, Venditti, De Gregori, Vecchioni, Guccini, etc etc... erano gente che
faceva stupende canzoni, canzoni con testi immediati, senza ermetismi e forse
con sola troppa retorica (specie quando sei 20 anni che dici le stesse cose.).
Loro trovavano facile riempire uno stadio.. (specie con un PCI al 27% dei
voti!)..e anche la Tv del Governo non poteva trascurarli. Carlo Massarini,
invece, introdusse un'altra via.. Trasmettere cose "poco conosciute".
Se ci pensate bene neppure gli stessi Clash erano cosi' popolari in Italia al
tempo. solo dopo Rock the Cabash le cose cambiarono (ma per la verita' solo per
quel singolo!), e lui mandava Clash, Abc, Depeche Mode, Talking Heads e mille
altri che allora non vedevi e non sentivi tanto facilmente in giro... Sta di
fatto che anche i DJ "regionali" e di "quartiere"
iniziavano a "copiare" il Massarini introducendo nelle loro scalette
musicali tanta musica "nuova". la "new wave"! Massarini
aveva un grosso merito, quello di essere uno che ascoltava musica da sempre ma
che non si era fermato ad un periodo solo della musica.. "andava
avanti". "cresceva".e quindi riusciva a riconoscere anche
prodotti validi nell'underground piu' profondo. Massarini si innamoro' (fu
proprio amore e non solo spinta promozionale) di un cantautore o musicista rock
romano. Un tipo alto, con la voce particolare (ne bella ne brutta, ne
intonatissima ne stonata, ma particolarmente accattivante), un tipo da
"metropolitana londinese", un tipo che cantava cose diverse dai
cantanti rock "politici" o solo "rock". insomma uno che usa
fiati, chitarre elettriche, sfumature progressive e testi - semplicemente -
stupendi. Di cosa parlano? Ma di tutto e di tutto quello che vogliamo trovarci
dentro! Incide un disco tra Milano, Roma e Londra e trova pure una casa
discografica (la CGD) che gli da la possibilita' di "provarci".
esegue video di altissima qualita' per il periodo e di una
"Barrettiana" visione che oggi mi piacerebbe veramente rivedere se
mai qualcuno li avesse... Mel Collins e' l'ospite illustre del disco che si
chiama : "Il Tuffatore" Il disco (allora in vinile) e' con 12
tracce.. Dove un'introduzione di "sax e strumenti all'inizio di un
concerto" ci da l'idea che il disco sara' una specie di concept album. e
cosi' e', in effetti.. Parla di ragazzi normali e di problemi semplici e
complicati, l'amore e la droga, le frustrazioni sociali e il disagio giovanile.ma
tutto trattato con una Poesia unica. I titoli delle canzoni sono gia'
affascinanti: "L'acchiappatore dell'acqua" (cantata in due lingue
:inglese e italiano), per esempio.ma anche "La stanza del Mezzosogno"
o "Valterchiari".. "oggi i ragazzi non sanno che fare sono
insicuri su cosa fa bene e molti sono spesso a un passo da sbagliare.. "
dice ad un certo punto il Flavio e lo dice con convinzione e con trasporto.
Solo che l'anno e' quello sbagliato. Nel quadro che ho fatto poco piu' su non
c'e' posto per un disco di Flavio Giurato, e il successivo Marco Polo e' un
totale buco nell'acqua. forse l'avranno acquistato solo un pugno di persone in
Italia e Flavio ha finito cosi' la sua carriera musicale. Sparito. Non se ne sa
piu' nulla. Un disco che anche oggi avrebbe trovato sinceramente poco spazio ma
che forse un po di piu' ne avrebbe.. Certamente se fosse "inglese"
sarebbe meglio.. Nel senso che un disco cosi' in Inghilterra avrebbe permesso
all' autore di viverci di questa sua creativita'.. Pazienza, cosi' e' andata la
storia ma mi piacerebbe che in questo periodo qualcuno si comprasse questo
disco ora disponibile in cd. e che il buon Giannici decida di dedicargli uno
spazio sul sito di Iamr e che Nello Giovane provi a sentirlo e ad inserirlo
sulla sua belle rubrica sul Mucchio. Alle volte hai usato parole esagerate per
cantanti e canzoni non tali (secondo me, ovviamente.) ma sono convinto che su
questo disco tu riusciresti a trovare le parole che io, anche sforzandomi, non
sono riuscito ad esprimere.. Se c'e' l'hai bene, altrimenti compralo.. Se e' un
bidone te ne compro uno io a tua scelta per rimborsarti. Giuro pubblicamente.
(tra parentesi il disco si trova a 18-20.000 lire, in Euro non lo so ancora.)
Inoltre mi piacerebbe sentire qualcosa al riguardo anche da Stanz (che
sicuramente ricorda.) , sempreche' abbia voglia di rispondere ad altri e
sempreche' non sia eternamente Killato...
" ..volevo essere un tuffatore
che si aggiusta e si prepara di bellezza non comune."
-- ".le delusioni sono unite
dalla Ferrovia." e' tratto da "Marcia Nuziale" -Flavio Giurato-
Questa recensione è apparsa in rete anonima in una discussione. Invitiamo l'autore a farsi eventualmente vivo con noi per i credits.
Questa recensione è apparsa in rete anonima in una discussione. Invitiamo l'autore a farsi eventualmente vivo con noi per i credits.
Può capitare di sentirlo suonare
nei piccoli teatri dell’Urbe: il solito ragazzo di un tempo, solo un po’
invecchiato; i capelli sempre lunghi (ma un po’ meno) da neri a bianchi, la
barba incolta e la chitarra imbracciata. Flavio Giurato è senza dubbio uno dei
segreti meglio custoditi del cantautorato italiano. Romano, classe 1949. Dopo
un’assenza che sembrava procrastinarsi ad aeternum è tornato
in corsa con una nuova raccolta di inediti. Un ritorno atteso in particolare da
quanti hanno avuto la fortuna di imbattersi in un eccellente binomio
(indimenticabile per la musica italiana): Il tuffatore (1982)
e Marco Polo (1984). Quest’ultimo energico, minuzioso e
sperimentale, comprendeva una serie di canzoni a dir poco memorabili,
come Le funi o Marco e Monica. Ma il pubblico
di quegli anni chiedeva altri suoni e colori. Nel 1985 avviene la rescissione
del contratto da parte dell’etichetta discografica CGD. La chitarra appesa al
chiodo. Il divano. I pomeriggi. Il timore sordo della disfatta. Pazienza. C’era
altro da fare. Ad esempio allenare i ragazzi della Lazio (settore baseball,
antica passione di Flavio) o lavorare negli studi Rai come regista, dove
sovente gli capita di incontrare il fratello Luca. Passa il tempo. Anni decenni
e secolo. Nel 2007 esce Il manuale del cantautore; la bravura
resta immutata, cristallizzata e genuina. Stavolta il cantante si sofferma su
alcuni casi irrisolti della nostra storia (Ustica, Moltesi, Pasolini). Il
progetto si rivelerà transitorio; servirà nondimeno a rispolverare la chitarra
e riprendere l’attività dal vivo. Il nome torna a scorrere tra addetti ai
lavori e appassionati…
scrive Enrico De Regibus:
Anche geniale. E Intenso.
Originale. Assurdo. Irregolare. Lirico. Lirico e onirico. Dal primo all'ultimo
secondo. Dalla prima all'ultima nota. Dalla prima all'ultima parola.
La strada principale e' quella della canzone d'autore, ma la traiettoria e' a zig zag, le ruote dell'ispirazione rasentano spesso il ciglio della carreggiata, a volte si infilano in deserte stradine secondarie o in caotiche tangenziali.
E' un andare e venire quando meno te lo aspetti. Frenate e progressioni. Pieni e quasi vuoti.
Un inizio fatto come una fine, una fine con un coro scalcinato a volume bassissimo.
Una voce trovata chissa' dove, per niente accondiscendente. Chitarre molto acustiche e chitarre molto elettriche, pianoforti, percussioni, tamburi, campane, sax, cori. E tutti con una ragione di essere, e di essere li' e in quel momento..
Un lessico mai scontato, punti di vista obliqui, alogici. Visioni, ossimori, aforismi, ironie, giustapposizioni, iperboli, reticenze.
Parole e musiche che si accoppiano da far invidia, come fossero state sempre la stessa cosa.
Un disco che prende, e non restituisce identici a prima. Un disco.....
Quant'è difficile descrivere un disco cosi'.
PS: Era il 1982 quando usciva "Il tuffatore", preceduto da "Per futili motivi", che non ha niente a che vedere con questo, soprattutto qualitativamente, e seguito da un'altro intitolato "Marco Polo", sin troppo velleitario, in cui lo stile era sempre quello ma il risultato finale decisamente no. E poi il buio fino a quando un paio di anni fa l'album e' stato ripubblicato su cd in serie economica.
Chissà che fine ( o inizio) avrà fatto il suo autore.
La strada principale e' quella della canzone d'autore, ma la traiettoria e' a zig zag, le ruote dell'ispirazione rasentano spesso il ciglio della carreggiata, a volte si infilano in deserte stradine secondarie o in caotiche tangenziali.
E' un andare e venire quando meno te lo aspetti. Frenate e progressioni. Pieni e quasi vuoti.
Un inizio fatto come una fine, una fine con un coro scalcinato a volume bassissimo.
Una voce trovata chissa' dove, per niente accondiscendente. Chitarre molto acustiche e chitarre molto elettriche, pianoforti, percussioni, tamburi, campane, sax, cori. E tutti con una ragione di essere, e di essere li' e in quel momento..
Un lessico mai scontato, punti di vista obliqui, alogici. Visioni, ossimori, aforismi, ironie, giustapposizioni, iperboli, reticenze.
Parole e musiche che si accoppiano da far invidia, come fossero state sempre la stessa cosa.
Un disco che prende, e non restituisce identici a prima. Un disco.....
Quant'è difficile descrivere un disco cosi'.
PS: Era il 1982 quando usciva "Il tuffatore", preceduto da "Per futili motivi", che non ha niente a che vedere con questo, soprattutto qualitativamente, e seguito da un'altro intitolato "Marco Polo", sin troppo velleitario, in cui lo stile era sempre quello ma il risultato finale decisamente no. E poi il buio fino a quando un paio di anni fa l'album e' stato ripubblicato su cd in serie economica.
Chissà che fine ( o inizio) avrà fatto il suo autore.
…“Marco Polo” è una zattera gettata
nell’oceano della canzone italiana, invisibile a qualsiasi radar e lontana da
qualsiasi compromesso sulla rotta, e che, come il protagonista che evoca, non
ha interesse a giungere in nessuno specifico porto, ma quello d’esser vento di
se stesso e di toccare tutte le cose.
“I nuovi marinai già tirano le funi”, ed è proprio questa la grandezza di Marco Polo per Flavio Giurato: aver vissuto l’epica d’una condizione tutt’altro che epica, quello d’esser un uomo come tanti, un uomo destinato a morire e lasciar spazio a nuovi uomini in uno spazio/tempo che gli sopravvive ed a cui ha dedicato ogni fibra dei suoi gesti e sogni e con le sue visioni, viaggi e amori chiusi dentro al proprio cuore. Fino a che un giorno, qualcuno si è deciso a raccontare questa storia. E qualcun altro, poi, a musicarla, con questo disco.
Il disco fu un fiasco, perchè oltre ad estremizzare i contenuti cantautorali, ne estremizzò anche gli strumenti. Il pubblico non apprezzò, la propensione ai compromessi dell’autore era prossima allo zero e nell’Italia craxiana che iniziava le manovre per affondare, gli orecchi e l’attenzione si volsero verso altri tipi di musiche e personaggi. Iniziò così il silenzio artistico di Flavio Giurato.
Così ha magistralmente scritto di lui Claudio Orlandi: “Guardate un uomo che suona le sue gambe masticando l’aria. Si muove da sé. Sono mascelle portentose che tirano le funi del proprio corpo per farlo riscaldare e risuonare. Così nasce un gioco che può insegnare l’importanza di non essere visti pur essendo estremamente presenti” e di testimoniarci tutti, con una manciata di canzoni su un incredibile viaggio di più di settecento anni fa, narrato con una esposizione poetica così onesta da sottolineare che se Marco Polo fu un grande esploratore del Mondo, Flavio Giurato lo è del cuore e delle umane passioni e questo disco è la sua Grande Cina, da cui fu difficile per entrambi far ritorno. È risaputo: i cani sciolti non amano i recinti.
Per fortuna che “sotto l’asfalto c’è la sabbia”
“I nuovi marinai già tirano le funi”, ed è proprio questa la grandezza di Marco Polo per Flavio Giurato: aver vissuto l’epica d’una condizione tutt’altro che epica, quello d’esser un uomo come tanti, un uomo destinato a morire e lasciar spazio a nuovi uomini in uno spazio/tempo che gli sopravvive ed a cui ha dedicato ogni fibra dei suoi gesti e sogni e con le sue visioni, viaggi e amori chiusi dentro al proprio cuore. Fino a che un giorno, qualcuno si è deciso a raccontare questa storia. E qualcun altro, poi, a musicarla, con questo disco.
Il disco fu un fiasco, perchè oltre ad estremizzare i contenuti cantautorali, ne estremizzò anche gli strumenti. Il pubblico non apprezzò, la propensione ai compromessi dell’autore era prossima allo zero e nell’Italia craxiana che iniziava le manovre per affondare, gli orecchi e l’attenzione si volsero verso altri tipi di musiche e personaggi. Iniziò così il silenzio artistico di Flavio Giurato.
Così ha magistralmente scritto di lui Claudio Orlandi: “Guardate un uomo che suona le sue gambe masticando l’aria. Si muove da sé. Sono mascelle portentose che tirano le funi del proprio corpo per farlo riscaldare e risuonare. Così nasce un gioco che può insegnare l’importanza di non essere visti pur essendo estremamente presenti” e di testimoniarci tutti, con una manciata di canzoni su un incredibile viaggio di più di settecento anni fa, narrato con una esposizione poetica così onesta da sottolineare che se Marco Polo fu un grande esploratore del Mondo, Flavio Giurato lo è del cuore e delle umane passioni e questo disco è la sua Grande Cina, da cui fu difficile per entrambi far ritorno. È risaputo: i cani sciolti non amano i recinti.
Per fortuna che “sotto l’asfalto c’è la sabbia”
un’intervista a Flavio Giurato:
La prima domanda è la più
scontata: un ritorno discografico a distanza di 20 anni e oltre. Qual è stata
la molla che ti ha spinto a questo passo?
Il fatto di non averlo mai perso, questo passo, in realtà. Il fatto di aver continuato a lavorare comunque, il fatto di aver continuato a suonare tutti i giorni, il fatto di aver fatto i pezzi, di essere andato in pubblico, di essere stato strappato da casa e forzato a fare dei concerti quando ancora i pezzi non erano finiti. Però mi è servito, mi sono divertito, tutto questo mi ha aiutato a finire questo lavoro che è durato ventitre anni...
Un work in progress...
Sì, una sera vedevo come andava Il caso Nesta, come riuscivo a farla, in un’altra come andava Silvia Baraldini,.. In pubblico ti rendi immediatamente conto se c’è qualcosa che è lungo, qualcosa che va bene, che rende. Ho usato questi anni per sperimentare.
Credi che il mercato conceda ancora spazio oggi a progetti cantautorali senza compromessi come il tuo?
Il mercato, mi diceva il mio primo discografico, è un cavallo bizzarro. E quindi non ne ho la minima idea, è una cosa che cambia in continuazione: arrivano sempre nuove folle di compratori. Ora forse queste folle non comprano più perché il passaggio dall’analogico al digitale ha danneggiato “la cerimonia”, per cui tu andavi a scegliere il disco nello scaffale con tutte le copertine e poi c’era la prima e la seconda facciata, ti dovevi alzare per cambiarla... Forse il pubblico pagava per questo. Adesso è tutto diverso, è una striscia continua. Io prima in composizione dovevo tenere presente il pezzo che apriva il lavoro, il pezzo che lo chiudeva, quello che chiudeva la facciata. Stare attento a non sforare di troppo i venti minuti altrimenti si sporcava la qualità... Un po’ di cose sono cambiate, anche nella registrazione. Ci sono cose che sono sopravvissute, che ho ritrovato intatte da quando ho smesso, altre che sono sparite: il nastro da due due pollici è sparito, un lexicon di plastica bianco l’ho ritorvato. È stato bello ritornare nel mondo della registrazione da cui mi ero distaccato.
A proposito di tecnologie vecchie e nuove. Internet ha avuto un ruolo importante nella nascita di una sorta di piccolo culto attorno alla tua musica e alla tua produzione. Addirittura la prima versione del manuale del cantautore, quella del 2002 è stata diffusa esclusivamente come mp3, attraverso la Rete. Secondo te la Rete può in qualche modo cambiare il rapporto tra chi fa canzoni e il suo pubblico?
Questo si riallaccia a quello che dicevamo prima: adesso c’è Internet e cambia tutto. Ancora credo che nessuno abbia capito a fondo di che cosa si tratta. È un’enorme enciclopedia che ci costruiamo da soli. Anche un artista di nicchia, che non ha mai venduto dischi, ha la possibilità di avere un negozio aperto 24 ore su 24 in tutto il mondo.
Che rapporto hai con queste nuove tecnologie?
Ho imparata a usare il telefono cellulare da poco, non so usare l’e-mail... (ride). Anche perché la tecnologia non ha influito nel lavoro di composizione a casa, perché gli strumenti sono sempre quelli, le chitarre sono sempre chitarre, le valvole sempre valvole. È un universo che si apre, che facilita la comunicazione, per cui il fatto che sto a Milano a fare il concerto alla Scighera diventa una notizia globale, anche se sembra un po’ folle dirlo... Bisognerà vedere cosa Internet porta, cosa porta anche sul fronte del diritto d’autore. C’è uno scoonvolgimento totale: non mi so valutare commercialmente, per tornare a quello che mi chiedevi prima, perché è cambiato tutto.
Parliamo un po’ del disco. Il manuale del cantautore più che un manuale mi sembra un diario degli ultimi 40 anni, si va dalla primavera di Praga sino ai giorni nostri. Secondo te la canzone può ancora raccontare, a modo suo, la Storia con la S maiuscola?
Sì, se questa ha a che fare con la tua minima esperienza personale. Deve avere qualcosa che riguarda anche me e che possa essere letto a più strati. C’entra anche la storia. Sono storie, quelle che racconto, che ci appartengono profondamente, da Ustica su cui dopo tutti questi anni non si sa ancora come sia andata, alle immagini di Padre Pio con le stigmate che buttavano sangue sulla copertina di Gente quando ero ragazzino o la Primavera di Praga in cui sono incappato io personalmente...
Quello dei tuoi testi è un procedere per immagini. Quanto questo è legato all’”altro” Flavio Giurato, quello che lavora con le immagini, quanto si contaminano i due aspetti?
Questo ora è assolutamente verificabile, perché sto facendo un video di ogni pezzo... Dodici pezzi, dodici video. Me lo dovrai dire poi tu che differenza c’è tra aver sentito il pezzo solo da cd e averlo sentito abbinato a un video...
Sono molto curioso, sarà un dvd?
Sicuramente. Adesso metteremo il primo, quello del Caso Nesta, su You Tube. È quindi una cosa completamente senza diritti. È la condivisione dell’immagine, la gratuità assoluta, non c’è ritorno economico, non c’è copyright. Gli altri 11 pezzi vorrei inserirli in un dvd, destinato ai pirla (ride) che si sono comprati il cd...
Un progetto multimediale, molto innovativo...
Io con i video ho cominciato molti anni fa, all’epoca di Mister Fantasy, quando la consideravamo una nuova forma d’arte, eravamo molto gasati. Mi fa molto piacere ritornare in quel campo da gioco lì.
Vorrei tornare un attimo sulle esibizioni live, mi hai detto che hanno funzionato come dei test...
Sì, è così.
Ma che rapporto hai con il palcoscenico, con le esibizioni dal vivo, che nel tuo caso non sono molto frequenti?
Adesso c’è il progetto di riuscire a portare in pubblico il lavoro del disco, se riesco a coinvolgere le persone che hanno suonato nel disco. Vorrei riuscire a fare un tour. Sarò di più in giro, almeno in questo 2008 che coincide con l’uscita del disco.
Hai già in cantiere nuove canzoni, un nuovo progetto discografico?
Sì, ci sarebbe da fare un’appendice al Manuale del cantautore.... In realtà mi piacerebbe fare un disco di otto pezzi, cioè sulla lunghezza dell’analogico, pubblicato su compact, ma pensato come un vecchio lp, m’è venuta nostalgia, dopo aver provato a fare il compact...
Il fatto di non averlo mai perso, questo passo, in realtà. Il fatto di aver continuato a lavorare comunque, il fatto di aver continuato a suonare tutti i giorni, il fatto di aver fatto i pezzi, di essere andato in pubblico, di essere stato strappato da casa e forzato a fare dei concerti quando ancora i pezzi non erano finiti. Però mi è servito, mi sono divertito, tutto questo mi ha aiutato a finire questo lavoro che è durato ventitre anni...
Un work in progress...
Sì, una sera vedevo come andava Il caso Nesta, come riuscivo a farla, in un’altra come andava Silvia Baraldini,.. In pubblico ti rendi immediatamente conto se c’è qualcosa che è lungo, qualcosa che va bene, che rende. Ho usato questi anni per sperimentare.
Credi che il mercato conceda ancora spazio oggi a progetti cantautorali senza compromessi come il tuo?
Il mercato, mi diceva il mio primo discografico, è un cavallo bizzarro. E quindi non ne ho la minima idea, è una cosa che cambia in continuazione: arrivano sempre nuove folle di compratori. Ora forse queste folle non comprano più perché il passaggio dall’analogico al digitale ha danneggiato “la cerimonia”, per cui tu andavi a scegliere il disco nello scaffale con tutte le copertine e poi c’era la prima e la seconda facciata, ti dovevi alzare per cambiarla... Forse il pubblico pagava per questo. Adesso è tutto diverso, è una striscia continua. Io prima in composizione dovevo tenere presente il pezzo che apriva il lavoro, il pezzo che lo chiudeva, quello che chiudeva la facciata. Stare attento a non sforare di troppo i venti minuti altrimenti si sporcava la qualità... Un po’ di cose sono cambiate, anche nella registrazione. Ci sono cose che sono sopravvissute, che ho ritrovato intatte da quando ho smesso, altre che sono sparite: il nastro da due due pollici è sparito, un lexicon di plastica bianco l’ho ritorvato. È stato bello ritornare nel mondo della registrazione da cui mi ero distaccato.
A proposito di tecnologie vecchie e nuove. Internet ha avuto un ruolo importante nella nascita di una sorta di piccolo culto attorno alla tua musica e alla tua produzione. Addirittura la prima versione del manuale del cantautore, quella del 2002 è stata diffusa esclusivamente come mp3, attraverso la Rete. Secondo te la Rete può in qualche modo cambiare il rapporto tra chi fa canzoni e il suo pubblico?
Questo si riallaccia a quello che dicevamo prima: adesso c’è Internet e cambia tutto. Ancora credo che nessuno abbia capito a fondo di che cosa si tratta. È un’enorme enciclopedia che ci costruiamo da soli. Anche un artista di nicchia, che non ha mai venduto dischi, ha la possibilità di avere un negozio aperto 24 ore su 24 in tutto il mondo.
Che rapporto hai con queste nuove tecnologie?
Ho imparata a usare il telefono cellulare da poco, non so usare l’e-mail... (ride). Anche perché la tecnologia non ha influito nel lavoro di composizione a casa, perché gli strumenti sono sempre quelli, le chitarre sono sempre chitarre, le valvole sempre valvole. È un universo che si apre, che facilita la comunicazione, per cui il fatto che sto a Milano a fare il concerto alla Scighera diventa una notizia globale, anche se sembra un po’ folle dirlo... Bisognerà vedere cosa Internet porta, cosa porta anche sul fronte del diritto d’autore. C’è uno scoonvolgimento totale: non mi so valutare commercialmente, per tornare a quello che mi chiedevi prima, perché è cambiato tutto.
Parliamo un po’ del disco. Il manuale del cantautore più che un manuale mi sembra un diario degli ultimi 40 anni, si va dalla primavera di Praga sino ai giorni nostri. Secondo te la canzone può ancora raccontare, a modo suo, la Storia con la S maiuscola?
Sì, se questa ha a che fare con la tua minima esperienza personale. Deve avere qualcosa che riguarda anche me e che possa essere letto a più strati. C’entra anche la storia. Sono storie, quelle che racconto, che ci appartengono profondamente, da Ustica su cui dopo tutti questi anni non si sa ancora come sia andata, alle immagini di Padre Pio con le stigmate che buttavano sangue sulla copertina di Gente quando ero ragazzino o la Primavera di Praga in cui sono incappato io personalmente...
Quello dei tuoi testi è un procedere per immagini. Quanto questo è legato all’”altro” Flavio Giurato, quello che lavora con le immagini, quanto si contaminano i due aspetti?
Questo ora è assolutamente verificabile, perché sto facendo un video di ogni pezzo... Dodici pezzi, dodici video. Me lo dovrai dire poi tu che differenza c’è tra aver sentito il pezzo solo da cd e averlo sentito abbinato a un video...
Sono molto curioso, sarà un dvd?
Sicuramente. Adesso metteremo il primo, quello del Caso Nesta, su You Tube. È quindi una cosa completamente senza diritti. È la condivisione dell’immagine, la gratuità assoluta, non c’è ritorno economico, non c’è copyright. Gli altri 11 pezzi vorrei inserirli in un dvd, destinato ai pirla (ride) che si sono comprati il cd...
Un progetto multimediale, molto innovativo...
Io con i video ho cominciato molti anni fa, all’epoca di Mister Fantasy, quando la consideravamo una nuova forma d’arte, eravamo molto gasati. Mi fa molto piacere ritornare in quel campo da gioco lì.
Vorrei tornare un attimo sulle esibizioni live, mi hai detto che hanno funzionato come dei test...
Sì, è così.
Ma che rapporto hai con il palcoscenico, con le esibizioni dal vivo, che nel tuo caso non sono molto frequenti?
Adesso c’è il progetto di riuscire a portare in pubblico il lavoro del disco, se riesco a coinvolgere le persone che hanno suonato nel disco. Vorrei riuscire a fare un tour. Sarò di più in giro, almeno in questo 2008 che coincide con l’uscita del disco.
Hai già in cantiere nuove canzoni, un nuovo progetto discografico?
Sì, ci sarebbe da fare un’appendice al Manuale del cantautore.... In realtà mi piacerebbe fare un disco di otto pezzi, cioè sulla lunghezza dell’analogico, pubblicato su compact, ma pensato come un vecchio lp, m’è venuta nostalgia, dopo aver provato a fare il compact...
scrive Fulvio Abbate:
Non molto tempo fa, ho trovato
nella casella di posta elettronica un messaggio entusiastico dove, una voce da
fan, comunicava esattamente così: “Ciao a tutti, volevo avvisarvi che Flavio
Giurato ha vinto il Premio Ciampi 2003! Il merito è tutto di Flavio e del suo
grande talento. Ma un grazie sincero va a tutti voi che avete avuto voglia di
aiutarci in un progetto che solo pochi mesi fa sembrava del tutto folle (cmq
anche adesso....) a presto con qualche informazione in più sulla prossima
uscita del libro CD. Andrea”.
Il cantautore Flavio Giurato, se non fosse che siamo amici da molti anni, ci metterei un bel po’ a ricordarlo con chiarezza assoluta, lui e la sua chitarra di marca ovation. Davvero, faticherei a rimettere a fuoco il suo viso in pubblico, le copertine dei suoi dischi, gli accordi e tutte le altre sue utopie d’autore di canzoni.
Non è vero, scherzo, ed ecco che torna a piazzarsi subito nel presente della mia memoria, come non si fosse mai mosso: è il 1981, in tv c’è Carlo Massarini, con la sua trasmissione, “Mister Fantasy”. Nella stessa inquadratura c’è anche un bel ragazzo alto, l’aria del tipo di buona famiglia, lacoste blu, e sguardo rivolto al mare di Ansedonia, Porto Ercole, e così via fino a Orbetello, luoghi dove l’amore diventa verso, diario di una certa estate romana. E’ proprio lui, Flavio Giurato, che canta le canzoni del suo lp, “Il tuffatore”, uno dei dischi più belli di quell’anno, di più, degli anni Ottanta e oltre. Un disco, credo, prodotto da Paolo Giaccio.
Ma cos’è che rendeva la cifra di Giurato così straordinaria, al punto da suggerire, oltre a un’immediata sensazione di nostalgia, perfino un’aria di rivolta, un legame sentimentale inossidabile con il suo immaginario? Per cominciare, diciamo, la sua malinconia siderale. E poi, l’impressione che Giurato fosse lì a incarnare una specie di sentimentalismo civile, nel senso più rispettabile della parola. Ma se citassi soltanto “Il tuffatore”, comunque il suo lavoro più noto, farei torto alle fatiche successive, a dischi come “Marco Polo”, un lp “difficile”, forse anche “estremo”, segno che quando c’è da sperimentare Giurato non si tira indietro. E poi? Poi, c’è il presente. La certezza che per alcuni Flavio Giurato non si è mai mosso dalla scena. Tanto che una casa editrice di Milano, la Addictions, ha deciso di dedicargli un libro, un gruppo di scrittori “giuratiani” - fra gli altri, Tiziano Scarpa - si sono ispirati ai suoi pezzi per scrivere dei racconti. Anche il sottoscritto comunque, in fatto di riconoscimenti, ha fatto la sua parte. Consegnandogli, mesi fa, il premio Teledurruti, ispirato all’omonima trasmissione situazionista. Lo ha vinto con “La Giulia bianca”, dedicata a Pier Paolo Pasolini, ma anche un omaggio esplicito alle immagini della sigla della trasmissione che lo ha rimesso al mondo dei media, se è vero che un suo concerto in diretta di qualche anno fa, proprio lì, a Teledurruti, resta un piccolo must, peccato che il nastro che lo conteneva sia andato distrutto durante un incendio. Peccato, davvero.
da quiIl cantautore Flavio Giurato, se non fosse che siamo amici da molti anni, ci metterei un bel po’ a ricordarlo con chiarezza assoluta, lui e la sua chitarra di marca ovation. Davvero, faticherei a rimettere a fuoco il suo viso in pubblico, le copertine dei suoi dischi, gli accordi e tutte le altre sue utopie d’autore di canzoni.
Non è vero, scherzo, ed ecco che torna a piazzarsi subito nel presente della mia memoria, come non si fosse mai mosso: è il 1981, in tv c’è Carlo Massarini, con la sua trasmissione, “Mister Fantasy”. Nella stessa inquadratura c’è anche un bel ragazzo alto, l’aria del tipo di buona famiglia, lacoste blu, e sguardo rivolto al mare di Ansedonia, Porto Ercole, e così via fino a Orbetello, luoghi dove l’amore diventa verso, diario di una certa estate romana. E’ proprio lui, Flavio Giurato, che canta le canzoni del suo lp, “Il tuffatore”, uno dei dischi più belli di quell’anno, di più, degli anni Ottanta e oltre. Un disco, credo, prodotto da Paolo Giaccio.
Ma cos’è che rendeva la cifra di Giurato così straordinaria, al punto da suggerire, oltre a un’immediata sensazione di nostalgia, perfino un’aria di rivolta, un legame sentimentale inossidabile con il suo immaginario? Per cominciare, diciamo, la sua malinconia siderale. E poi, l’impressione che Giurato fosse lì a incarnare una specie di sentimentalismo civile, nel senso più rispettabile della parola. Ma se citassi soltanto “Il tuffatore”, comunque il suo lavoro più noto, farei torto alle fatiche successive, a dischi come “Marco Polo”, un lp “difficile”, forse anche “estremo”, segno che quando c’è da sperimentare Giurato non si tira indietro. E poi? Poi, c’è il presente. La certezza che per alcuni Flavio Giurato non si è mai mosso dalla scena. Tanto che una casa editrice di Milano, la Addictions, ha deciso di dedicargli un libro, un gruppo di scrittori “giuratiani” - fra gli altri, Tiziano Scarpa - si sono ispirati ai suoi pezzi per scrivere dei racconti. Anche il sottoscritto comunque, in fatto di riconoscimenti, ha fatto la sua parte. Consegnandogli, mesi fa, il premio Teledurruti, ispirato all’omonima trasmissione situazionista. Lo ha vinto con “La Giulia bianca”, dedicata a Pier Paolo Pasolini, ma anche un omaggio esplicito alle immagini della sigla della trasmissione che lo ha rimesso al mondo dei media, se è vero che un suo concerto in diretta di qualche anno fa, proprio lì, a Teledurruti, resta un piccolo must, peccato che il nastro che lo conteneva sia andato distrutto durante un incendio. Peccato, davvero.
domenica 29 ottobre 2017
Brasile: San Paolo in vendita - David Lifodi
San Paolo è all’asta. A mettere in
vendita e a privatizzare la megalopoli brasiliana il suo primo cittadino, il prefeito João
Doria Jr.: grazie a lui parchi, stadi, piazze e quartieri della città sono
finiti nelle mani delle imprese dedite alla speculazione immobiliare. Il tutto
è avvenuto nel più totale silenzio della politica paulista. Tutti d’accordo, ad
eccezione del risicato drappello di consiglieri di opposizione, soltanto 11 tra
Partido dos Trabalhadores (Pt) e Partido Socialismo e Liberdade (Psol).
Presidente
dell’omonimo Grupo Doria, che riunisce sei organizzazioni tra cui Lide-Grupo de
Líderes Empresariais, João Doria Jr. ha scelto di applicare il suo Plano
Municipal de Desestatização, il piano comunale delle privatizzazioni, a partire
dall’autodromo di Interlagos e dallo stadio di calcio Pacaembu. Tuttavia, basta
addentrarsi in qualsiasi aspetto della vita urbana della città per capire che
ogni cosa ha un suo prezzo. Il sistema di vendita dei biglietti di trasporto?
Privatizzato. Le aree di parcheggio? Privatizzate. In pratica il sindaco di San
Paolo, esponente del Partido da Social Democracia Brasileira (i cui esponenti
sono definiti popolarmente tucanos) ed una delle cento personalità ritenute tra
le più influenti del paese, secondo Brasil de Fato si appresta a dar vita al maggior
programma di privatizzazioni nella storia del paese, come del resto aveva già
preannunciato di fronte ad una platea di plaudenti investitori stranieri in
occasione di un suo viaggio a Dubai nello scorso mese di febbraio. Doria Jr.
non ha paura di utilizzare il termine “privatizzazioni”, anzi, lo pronuncia
continuamente e lo giustifica come necessario a causa della fallimentare
gestione, per lui, del suo predecessore Fernando Haddad, sindaco della città
fino al 31 dicembre 2016 e ministro sotto le presidenze di Lula e Dilma
Rousseff. Doria Jr definisce la sua “politica pubblica differenziata” (leggi
privatizzazione) come l’unica strada per risollevare San Paolo dai presunti
disastri dell’amministrazione petista. Antonio Donato, esponente di primo piano
del Partido dos Trabalhadores a San Paolo, evidenzia che con l’arrivo alla
guida della megalopoli di Doria Jr. il bilancio della città, che nel 2016
ammontava a 47,2 bilioni di reais, è sceso a 5,4 bilioni pochi mesi dopo l’arrivo
del nuovo sindaco.
Sfruttando
una tecnica già ampiamente utilizzata dal presidente argentino Mauricio Macri,
quella di governare per decreto e imporre una serie di votazioni a raffica
all’assemblea legislativa nel minor tempo possibile, la concessione dell’impianto
sportivo di Pacaembu ai privati è stata raggiunta nel giro di pochissimo tempo.
Anche all’interno del Partido da Social Democracia Brasileira, quello di Doria
Jr., si registrano dei malumori per questa modalità di procedere. Alcuni
consiglieri tucanos hanno criticato l’eccessiva rapidità
delle votazioni imposte dal sindaco, che hanno costretto i consiglieri ad
esprimersi senza poter approfondire o entrare nel dettaglio dei progetti che
sarebbero stati votati di lì a breve. Non solo. La sfiducia verso Doria Jr. è
tale che Patrícia Bezerra, delegata dal sindaco ai diritti umani, ha scelto di
abbandonare la carica a causa dei violenti sgomberi di alcune favelas, tra cui
Cracolândia, promosse dallo stesso João Doria Jr. “San Paolo si è trasformata in
una città-mercato venduta con un’abile propaganda”, ha scritto il giornalista e
sociologo Lalo Leal Filho, sottolineando come sia impossibile, nel caso dello
stadio di Pacaembu, ma anche in quelli di piazze, parchi e immobili presenti in
numerosi quartieri, risalire agli amministratori privati. Di città in
liquidazione parla anche Roberto Garibe, che sotto la gestione Haddad aveva la
responsabilità delle infrastrutture urbane.
Appartenendo
allo stesso partito dell’ex presidente brasiliano Fernando Henrique Cardoso,
João Doria Jr. ne ha copiato la volontà privatizzatrice, diventando in breve
tempo l’alfiere delle corporations pauliste, brasiliane e straniere e,
non caso, votato da un’ampia percentuale di popolazione della classe medio alta
e di carnagione bianca. Le critiche rivolte nei confronti del sindaco,
incentrate principalmente sull’irresponsabile alimentazione della speculazione
immobiliare, non riescono a scalfire João Doria Jr., anzi, quest’ultimo attacca
come un bulldozer i suoi nemici, come hanno sperimentato in più di una
circostanza i favelados e i movimenti sociali di San Paolo. Le
richieste di effettuare consultazioni popolari per mantenere il passe livrestudentesco,
i servizi di assistenza sociale e molto altro, come richiesto dai consiglieri
del Psol, non sono nemmeno prese in considerazione.
Fortunatamente,
i movimenti popolari non sono rimasti con le mani in mano. La Central de
Movimentos Populares, il Frente Brasil Popular e il Movimento Rua, tra gli
altri, hanno intrapreso, da tempo, una massiccia campagna di mobilitazione per
la tutela e la difesa delle politiche pubbliche. Sostenuto da Geraldo Alckmin,
altro tucano della
prima ora e attuale governatore dello stato di San Paolo, “Doria Jr. non fa
altro che portare attacchi alla classe lavoratrice come fa il golpista che
risiede a Brasilia, il presidente Michel Temer”, denunciano le organizzazioni
popolari, che non intendono cedere alla svendita della loro città nelle mani
dei privati.
sabato 28 ottobre 2017
Le promesse del mondo - Flavio Giurato
è uscito l'ultimo lavoro di Flavio Giurato, uno dei più grandi cantautori italiani, se uno non lo sa ancora - franz
Così si apre
il nuovo, inaspettato, album di Flavio Giurato, ed è un’apertura che diventa
estuario in un mare di parole che come al solito ci porta via, parole che
costruiscono storie e storie che ritornano nell’acqua in un portentoso circolo
narrativo che vede nella materia liquida l’habitat naturale dell’uomo in
migrazione, non solo quello della title track ma anche il protagonista del
vertiginoso cortocircuito temporale di Ponte Salario (dedico
questa canzone e sono sincero/a tutti quelli in coatta trasferta verso un più
stabile ristoro/e che stanotte dormono sotto Ponte Salario) o di colui che
nell’enigmatica Agua mineral compie la lunga e perigliosa
traversata, è come se quel tuffatore che rinasceva ogni volta dall’acqua
all’aria si sia moltiplicato in una contemporaneità piena di riflessi che solo
Giurato sa trasmetterci con la sua musica.
Lo dice il
sottoscritto che conta meno di zero: Le promesse del mondo è
davvero un disco assoluto, è un lavoro dotato di uno spessore poetico che
invita a continue riletture, proprio che il solo focalizzarsi sulla componente
testuale sgomenta per le sorprendenti soluzioni lessicali adottate dal
cantautore romano. Se lo si definisce bello o denso o chessò è sempre meno di
abbastanza, è, nella complessità dell’ascolto, più di quanto altro potremmo
sentire. Io credo che Digos sia un pezzo enorme e non so se
qualcuno in Italia abbia mai scritto una cosa del genere, per cui, ancora una
volta, grazie infinite signor Giurato.
da qui
mercoledì 25 ottobre 2017
Riflessioni pessottimistiche* da Gaza assediata - Haidar Eid
Non si può capire il mortale, medievale blocco imposto a Gaza
avulso dal colonialismo di insediamento israeliano in Palestina. L’orrore
inflitto a Gaza infatti è radicato nella frammentazione politica causata
dall’apartheid israeliano, consolidato dagli accordi di Oslo e innescato dalle
lotte delle fazioni per la conquista del potere di un bantustan trasformato in
un campo di concentramento.
La ragione che sta dietro a questo blocco genocida, imposto
dall’apartheid israeliano e sostenuto da un Quartetto del Medio Oriente
[composto da Russia, Stati Uniti, Ue e Onu, ndt.] complice, è che ci
si aspetta che noi, 2 milioni di gazawi, riconosciamo il diritto di Israele a
esistere sui nostri villaggi, che hanno subito la pulizia etnica e da cui siamo
stati espulsi nel 1948, e che rinunciamo alla nostra resistenza in quanto
sarebbe una forma di violenza. E’ così che questo “crimine di punizione
collettiva” viene giustificato. La comunità internazionale ci sta praticamente
dicendo che dobbiamo collaborare con gli occupanti per essere
accettati, che dobbiamo considerare normale l’apartheid e il colonialismo di
insediamento. Se non lo facciamo allora siamo condannati e dobbiamo pagare un
pesante prezzo riguardo alla vita dei nostri bambini.
Allora la domanda è se si sia chiesto alla popolazione nativa
del Sud Africa di riconoscere il diritto all’esistenza dell’apartheid? O, per
dirla più brutalmente, se ci si aspettava che le vittime ebree del nazismo
collaborassero con il mostro nazista perché venissero accettate come esseri
umani?!
Quanto i sionisti odiano la popolazione di Gaza si concretizza
nel tentativo di Israele di affogare letteralmente Gaza nella merda! I bianchi
suprematisti del Sud Africa, o i nazisti del Terzo Reich, o il Ku Klux Klan nel
sud degli USA hanno mai pensato di costruire per quello scopo un cavolo di
fogna che si è rotta ed ha versato il suo contenuto sulle loro vittime?
Ultimamente ci siamo ridotti a una vita vegetativa dentro a un
campo di concentramento, la più grande prigione all’aria aperta del mondo.
Ma, a differenza delle vittime del nazismo, continuiamo a
ricordare a noi stessi di stare abbastanza attenti da non cadere nella trappola
di credere che la nostra causa sia un’eccezione, per quanto estrema.
Io appartengo alla generazione che non ha vissuto la Nakba, una
generazione di cui si pensava che si sarebbe rassegnata a 50 anni di
occupazione militare e a 69 anni di espropriazione e apartheid. Ma abbiamo
deciso di sollevarci e resistere. Da qui il nostro appello per il BDS, in
riferimento al movimento antiapartheid e ad altre lotte contro il colonialismo
di insediamento.
Come lo vedo io, è che, permettendo a Israele di imporre un blocco
senza precedenti su 2 milioni di civili e di intraprendere tre guerre di grandi
proporzioni contro di loro nel 2008, 2012 e nel 2014, con il risultato di 4000
morti e il ferimento di decine di migliaia, oltre alla distruzione delle
infrastrutture, la comunità post seconda guerra mondiale ha fallito nel
salvaguardare i principi di giustizia e di pace. Tocca pertanto alla società
civile prendere l’iniziativa. Da qui la speranza che è stata creata tra i
palestinesi dall’enorme successo del movimento del BDS. Come continuo a
ripetere, è l’unico barlume di speranza che noi, vittime dell’occupazione,
dell’apartheid e del colonialismo d’insediamento, abbiamo nell’era di Donald
Trump e di Benjamin Netanyahu.
*Il termine “pessottimista” è tratto dal capolavoro di Emile
Habibi “La vita segreta di Saeed, il pessottimista”. È ilrisultato della
fusione delle parole arabe pessimista (al-mutasha’em) e ottimista
(al-mutafa’el)
( Traduzione di Carlo Tagliacozzo)
da qui
La caduta delle consonanti intervocaliche - Cristóvão Tezza
(traduzione di Daniele Petruccioli)
Heliseu medita sulla sua vita, la moglie Monica,
Eduardo,il figlio gay, che ha adottato una bambina insieme al suo compagno,
negli Usa, l’amante Therese, il suo lavoro di studioso della lingua, il giorno
del suo discorso di commiato ai colleghi, dona Diva che fa da governante.
se uno vede il titolo e legge due cosette si può
immaginare un libro noioso; niente di tutto questo, è davvero un libro che
merita molto.
buona lettura.
ps: a pag.118, a sorpresa appare, il sardo
logudorese (lo scoprirai leggendo)
…Se la vanità sembra in un primo tempo il suo peggior
difetto, più della lussuria, dell’ egoismo, della megalomania (forse è anche un
assassino) più ci si inoltra nel suo tessuto mentale, (solido come la storia
della lingua portoghese che viene richiamata con preziosa naturalezza dalle
tante citazioni in portoghese arcaico, intrecciate al testo, perfette se
vogliamo, un gioco di costruzioni a incastro), più l’irritante spocchia che lo avvolge si stempera in
autentica disperazione, in buia solitudine, in doloroso fallimento per una vita
bruciata nel paradossale vuoto di significato. (Per lui un filologo, quale
orrore). E allora sì è difficile non provare simpatia per questo imperfetto
essere umano, e nello stesso tempo grandioso personaggio. Entrare nella
mente e nella vita di Heliseu richiede tempo e pazienza, bisogna adeguarsi alla
cadenza dei suoi pensieri, e provenendo dalla lettura di un romanzo
diametralmente opposto in intenti e considerazioni, ho raggiunto questa
sintonia un po’ oltre le prime pagine. Ma quando questo è capitato, allora la
lettura si è rivelata preziosa, interessante, ricca…
…La caduta delle consonanti intervocaliche non si
accontenta di una lettura distratta o superficiale, è un romanzo complesso e
disordinato che ruba tempo e concentrazione, ma in cambio permette di vivere
l’emozione devastante e bellissima di guardare nelle pieghe più profonde
dell’animo umano.
…Il romanzo è un
abilissimo montaggio di piani temporali, stili, toni, lingue, giochi di parole:
la letteratura e la filologia sono il terreno privilegiato in cui Heliseu
esercita la memoria e le sue capacità di autoinganno, trovando sempre nella citazione giusta una maniera per stemperare
le ansie, allontanare un pensiero molesto, o “addolcire il peso
della realtà”, qualcosa tra la valvola di scarico e il perno intorno a cui
ruota il senso stesso della sua vita. Uno spazio in cui si raccolgono le voci
della letteratura antica brasiliana e di quella europea, intrecciate alla
trasformazione linguistica che portò a differenziare i parlanti portoghesi
dagli spagnoli, la caduta della consonante intervocalica occorsa intorno all’undicesimo
secolo: “Tutto è cominciato quando il dolor ha preso
a trasformarsi subdolamente in door e infine
in dor: ecco fatto! Un’altra lingua”. Questo spiega il
titolo italiano di un romanzo molto più semplicemente intitolato
nell’originale O professor, che offre anche una
riflessione sul linguaggio, sulla sua verità sempre sospesa e le sue infinite
variabili.
Il racconto del professore,
lucido arguto ironico, vola alto rispetto alle tragedie vissute, nel privato
come nella storia del suo paese, dalle speranze rivoluzionarie dei tempi della
dittatura degli anni sessanta al presente della presidente, “alla testa del
peggior governo brasiliano degli ultimi trenta anni”. Perché in fondo a che
serve arrovellarsi se “il mondo basta a se stesso”? Con un’ironia che non perde
mai intensità Tezza mette insieme le
esperienze intellettuali di Heliseu con le sue emozioni più profonde,
così che nel professore, narcisista e compiaciuto, con il suo fastidioso
intercalare eheh e la sua falsa
coscienza, finiamo per riconoscere – ed è qui la forza di un romanzo colto e
coinvolgente – i tratti dell’uomo comune con le sue fragilità e le sue paure,
dell’uomo solo di fronte alla vecchiaia.
…Niente è come sembra. Il professore
analizza mentalmente il vissuto, cercando di approcciarsi ad esso allo stesso
modo con cui studia la lingua. Impossibile schematizzarla, impossibile
nascondersi dietro alle parole, per evitare di affrontare i propri demoni.
Heliseu finisce per rimanere intrappolato nel senso di colpa quando si addentra
troppo nei ricordi. Nel tirare le fila a un percorso lungo e tortuoso, avverte
il peso del fallimento dovunque guardi intorno a sé.
Tra piccole porzioni di testo offerte in
portoghese, una scrittura intermittente per episodi ripescati dalla mente del
protagonista, del quale percepiamo conflitti, ansie e paure. Quanti di noi
affermerebbero con estrema sicurezza di essere fieri di tutte le decisioni
prese in passato? Nessuno. E ancora di più fa paura fermarsi a riflettere su
tutti i momenti chiave della nostra esistenza. A volte, è più facile plasmare
un momento sulla base di ciò che avremmo voluto fare o dire, rinnegando la
corretta dinamica delle circostanze.
Assolutamente consigliato!
martedì 24 ottobre 2017
Mafia liquida, imprenditori criminali e “nuove” massomafie - Alessio Di Florio
La
relazione della Dia ricorda quanto sia ancora sistemico l’imprimatur mafioso
nella vita dell’Italia
Relazioni che sono “segnate da
caratteristiche e strutture che si vanno decomponendo e ricomponendo
rapidamente, in modo vacillante e incerto, fluido e volatile”.
La Direzione Investigativa Antimafia (DIA)
nella recente relazione sul secondo semestre 2016 si affida
alla famosa definizione di “società liquida” teorizzata da Bauman undici anni
fa per descrivere l’evoluzione delle mafie presenti in Italia. Mafie con una
solida “vocazione imprenditoriale”, che si inseriscono nei settori più
disparati, egemonizzando la società e manovrando istituzioni e imprese.
La DIA cita ripetutamente il “metodo
Falcone”, quel metodo investigativo sempre validissimo per ricostruire trame e
intrecci, potentati e consolidati domini delle cupole criminali.
Quelle cupole che si
nutrono non solo di consolidati network criminali ma anche di “comportamenti
mafiosi latenti” espressi da “soggetti contigui, diventati punti nodali del
network economico delle cosche, ma anche da giovani leve, espressione familiare
delle stesse organizzazioni, progredite culturalmente e perfettamente integrate
nel tessuto sociale ed imprenditoriale del Paese”.
L’idea delle mafie come estranee ad un
tessuto sociale sano, a piccole entità aliene facilmente allontanabili, non
permette comprensione e contrasto.
Le mafie sempre più sono presenti nelle
stanze dei bottoni, dirigono amministrazioni pubbliche e governano interi
settori economici. Se fino a pochi anni fa si poteva ancora tentare di parlare
di una lotta tra Stato e anti-Stato, oggi quell’illusione è completamente
spazzata via.
Scrisse Roberto Scarpinato nel libro Il ritorno del Principe – la criminalità dei potenti in Italia (giugno 2008) “il mondo degli assassini comunica attraverso
mille porte girevoli con insospettabili salotti e con talune stanze ovattate
del potere” e che “in Italia la storia nazionale, quella con la S maiuscola, è
inestricabilmente intrecciata con quella della criminalità di settori
significativi della sua classe dirigente, tanto che in taluni tornanti
essenziali non è dato comprendere l’evoluzione dell’una senza comprendere i
nessi con la seconda”.
La relazione della DIA
sul primo semestre 2016 riporta che Mafia Capitale è riuscita “a creare una
sinergia illecita tra ambienti criminali ed istituzionali, avvalendosi della
forza di intimidazione e della corruzione per ottenere commesse pubbliche”.
Passaggi ancora più espliciti nella
relazione successiva dove si afferma che l’organizzazione “sarebbe riuscita ad
imporsi sulla scena criminale romana, condizionando anche vasti settori
dell’attività amministrativa della Capitale.
Il sodalizio avrebbe, peraltro, avuto
interessi nell’usura, nelle estorsioni e nel commercio di armi, dedicandosi,
parallelamente, all’acquisizione di pubbliche commesse in favore di società e
cooperative di riferimento.
La terza tranche delle indagini che si è
conclusa nel mese di luglio 2016, ha confermato la forza di condizionamento
degli apparati amministrativi e istituzionali del gruppo in parola”.
Secondo gli investigatori “avvalendosi
dello storico legame con esponenti dell’estrema destra romana, alcuni dei quali
divenuti esponenti politici o manager pubblici, il sodalizio si è gradualmente
dimensionato in un’organizzazione di tipo evoluto, dedita alla sistematica
infiltrazione del tessuto economico ed istituzionale, con una struttura
tipicamente mafiosa ed un apparato in grado di gestire i diversificati
interessi illeciti”.
Nasce da qui la definizione data dalla
procura romana di fascio mafia, nell’intreccio che
comprende anche ex Nar e personaggi riconducibili anche alla Banda della
Magliana.
Carminati in aula nei mesi scorsi
rivendicò di essere “un vecchio fascista degli Anni Settanta” e di essere
“contentissimo” di esserlo. Un anno fa Lirio Abbate in un’inchiestasu L’Espresso accusò
Carminati di aver posto le basi per un “grande ricatto” dopo il furto del 1999
al caveau del Tribunale di Roma, “colpendo magistrati, avvocati, funzionari
della Giustizia” grazie a 147 cassette “connessi con i più grandi misteri
d’Italia: dalla strage di Bologna alla
P2, dal delitto Pasolini all’omicidio
Pecorelli, dalla Banda della Magliana a Cosa nostra”.
Nel rapporto annuale
presentato il 12 aprile scorso la Procura Nazionale Antimafia, come ha evidenziato il giornalista
d’inchiesta Nello Trocchia, chiariva che espressioni come ecomafia sono
superati, non descriverebbero più l’attualità dell’impresa criminale.
Il fulcro, leggiamo nel rapporto, non si
trova “nelle ingerenze della criminalità mafiosa nello specifico settore, bensì
nelle deviazioni dal solco della legalità, per puro e vile scopo
utilitaristico:
a) delle imprese svolgenti attività generatrici di rilevanti quantitativi di rifiuti, il cui corretto smaltimento avrebbe dovuto avere un posto di riguardo nella organizzazione aziendale;
b) nonché delle imprese svolgenti attività nello specifico settore della gestione dei rifiuti”.
a) delle imprese svolgenti attività generatrici di rilevanti quantitativi di rifiuti, il cui corretto smaltimento avrebbe dovuto avere un posto di riguardo nella organizzazione aziendale;
b) nonché delle imprese svolgenti attività nello specifico settore della gestione dei rifiuti”.
“Tutta la storia della gestione
illegale dei rifiuti – scrive Nello Trocchia – della devastazione ambientale
anche riferibile al caso campano e anche in presenza di infiltrazione dei clan
è una faccenda di soldi. Se si torna indietro tutto iniziò con le dazioni di
denaro a politici e funzionari compiacenti, corrotti in cambio delle
autorizzazioni a scaricare”.
E’ la sintesi perfetta degli ultimi
venti-trent’anni. Dalle inchieste sulle cave abbandonate nell’Abruzzo interno
degli Anni Novanta a Resit, la discarica di Cipriano Chianese su cui indagò
Roberto Mancini e di cui abbiamo già scritto l’anno scorso in
occasione della condanna in primo grado, tutte raccontano di corruzione a politici
e funzionari per scaricare rifiuti di ogni tipo di industrie soprattutto del
Nord Italia.
Nella discarica Resit
tra il 1987 e il 1991 furono smaltite almeno 30.600 tonnellate di rifiuti
provenienti dalla bonifica dell’Acna di Cengio, un’azienda savonese di
coloranti.
Lo stesso Cipriano Chianese era un
avvocato vicino ad ambienti di altissimo livello e la “immonda e sconcia storia
criminale e camorristica” della discarica Resit non sarebbe esistita – denunciarono Nello Trocchia e Luca Ferrari nella
biografia di Roberto ManciniIo morto per dovere – “senza l’appoggio
di importanti figure della borghesia affaristica” politici, infedeli servitori
dello Stato, professionisti e imprenditori.
La Terra dei Fuochi, come lo stesso Nello
Trocchia ha raccontato a Vasto nel maggio
scorso, per quanto in Campania sta svelando tutta la sua
devastazione criminale e assassina “non è un perimetro geografico ma un modello
di sviluppo economico” che coinvolge sfere imprenditoriali e politiche che
governano tutto il Paese.
Nel luglio scorso
un’inchiesta, partita dalle indagini su un incendio alla Trailer Rezzato,
provincia di Brescia, e che ha coinvolto anche dipendenti di Herambiente, A2A e
Aral, ha portato all’emersione di un enorme traffico di rifiuti tombati o
bruciati illecitamente in Piemonte e Lombardia.
Secondo il NOE solo nello stabilimento di
Rezzato sarebbero stati stoccati mille tonnellate di rifiuti solidi urbani.
In un’intervista a Nello Trocchia
per Nemo (Rai 2) Nunzio Perrella ha dichiarato che in Campania
“la camorra è la manovalanza della politica” e che lui è stato attivo nel
traffico dei rifiuti perché “la munnezz’ è oro”.
Secondo Perrella il bresciano è “messo
peggio” della Campania: in discariche “legali” della provincia lombarda (cita
Montichiari, Ospitaletto, Castegnato e Rovato, aggiungendo “fino a Mantova
siamo arrivati”) almeno dal 1989 al 1992 (ma ci sarebbero, secondo la sua
testimonianza, anche situazioni precedenti) lui stesso avrebbe smaltito scorie.
“Rifiuti tossici, tutto il nord ne è pieno, pieno. Li ho seppelliti anche sotto
le strade in provincia di Roma”, le sue testuali parole.
E nel Nord Italia non è possibile non
citare la vicenda della discarica Pitelli a La Spezia. Discarica sequestrata
nel 1996 e che ha portato a chiudere senza condanne il processo penale nel
2011.
Per la giustizia italiana un tribunale ha
sancito che “il fatto non sussiste”. Andrea Palladino nel libro Trafficanti – sulle piste di veleni, armi e rifiutiraccontò Pitelli come “la più grande discarica d’Italia, forse
d’Europa.
Quattro immense
vasche, costruite l’una nell’altra che tagliano la collina di Pitelli. Alcune
società dove si incrociavano i maggiori gruppi italiani ed europei hanno
sversato centinaia di migliaia di tonnellate di scorie pericolosissime per
vent’anni.
Vent’anni di silenzi, di complicità, di
autorizzazioni bizzarre, di lauti compensi versati ad amministratori pubblici,
militari della Marina, politici di destra e di sinistra”.
La città ligure, raccontò Palladino, “fu
una prolifica meta turistica per pezzi di armamenti e rifiuti tossici italiani
recuperati nel Libano in piena guerra civile. Due investigatori dell’antimafia
di Genova, nel 1997 sostennero che il vestito di mittente del materiale
bellico, proveniente dall’area del corno d’Africa e dalla Somalia, fu indossato
dai massoni spezzini, il ciò non è garanzia di eleganza. Tali massoni si
accordavano con i signori della guerra, in una città, che assumeva ormai le
forme di una serpe armata, la cui bocca, pallottola ansimante di prestigio,
sputava veleno”.
Un traffico, di cui la discarica di
Pitelli era il centro, che giunse fino alla Romania di Ceauşescu dove
arrivarono anche le diossine dell’Icmesa. Nella discarica, segnala Wikipedia,
“è stata segnalata la presenza di 18mila tonnellate di scorie prodotte dagli inceneritori
dell’AMSA, con concentrazioni di sostanze clorurate, diossine e furani
sufficienti a classificarle come rifiuti tossico-nocivi. A ciò si aggiungono
4800 tonnellate di ceneri provenienti dal forno dell’Azienda Comasca Servizi
Municipalizzati, 383 tonnellate di ceneri e scarti d’alluminio da un’industria
di Mortara, tonnellate di fanghi di depurazione da un complesso
chimico-farmaceutico di Ceriano Laghetto, scorie alcaline da Settimo Milanese,
migliaia di litri di scarti medicinali di una fabbrica milanese descritti come
segature, macerie contenenti amianto da imprese edili di Calusco d’Adda e
Cogliate”.
In un’intervista al Secolo XIX pubblicata
il 14 febbraio 2014 Carmine Schiavone parlò di un coinvolgimento del clan
Nuvoletta e di come anche in Liguria erano stati sepolti veleni.
“Armi caricate dai servizi
segreti, cocaina nascosta anche dentro le palme in arrivo dal Sud America,
rifiuti tossici e nucleari dal Nord, movimentati da Licio Gelli e dall’avvocato
Cipriano Chianese, transitavano dalla Liguria, nei porti di Genova, e Spezia”
le sue parole riportate dal quotidiano.
A La Spezia si stava recando Natale De Grazia quando fu
assassinato. E anche le sueinchieste sulle navi dei
veleni portano dritti sempre in Est Europa.
Un simbolo delle indagini
di De Grazia sulle navi dei veleni sicuramente è la Jolly Rosso, ma
sono probabilmente 90 circa le navi
affondate.
Le navi dei veleni
restano una delle vicende più misteriose e
torbide della storia italiana.
Una vicenda nella quale compaiono sulla
scena camorra e servizi segreti. Rifiuti, armi, servizi segreti. Inchieste per
le quali furono assassinati in Somalia anche
Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.
“Ilaria indagava sul traffico di
rifiuti e cercava risposte sullo scandalo che coinvolgeva il nostro ministero
degli Esteri, quello della Difesa, i nostri Servizi, le società coinvolte nello
scambio armi-rifiuti. Noi fomentavamo una guerra che eravamo andati a placare,”
ha dichiarato la madre Luciana
a La Repubblica nel 2014.
Nella stessa intervista la signora Alpi
dichiarò di essere convinta che “la fonte di Ilaria fosse Li Causi”, riporta
l’articolo ex “uomo dei Servizi militari italiani e per un certo tempo attivo
nella struttura segreta Gladio (creata per fronteggiare un’invasione del blocco
sovietico, ndr) a Trapani”, assassinato in un agguato nel novembre 1993 in
Somalia. Un agguato su cui non si è mai potuta fare luce.
Di “navi dei veleni” si parla sempre al
passato, ci si riferisce ad un fitto mistero ormai consegnato alla storia della
Repubblica delle trame e degli intrighi. Ma è veramente così? Nell’intervista di Toni Mira
su Avvenire dell’8 gennaio di quest’anno al presidente della
commissione parlamentare ecomafie Alessandro Bratti leggiamo queste frasi:
“c’è ancora un traffico di
rifiuti verso Paesi stranieri? Sicuramente sì […] Abbiamo verificato che esiste
un traffico di rifiuti pararegolare, che riguarda numerosi porti europei verso
il Nordafrica. Si tratta di traffici ‘regolari’, ma che poi, come abbiamo
verificato, in alcuni casi regolari non sono. Vengono denunciati come materie prime
e seconde e in realtà sono veri e propri rifiuti. […] Stiamo facendo una
relazione proprio su questo traffico di rifiuti transfrontaliero dove
racconteremo tutto. Ma non ci sono solo questi traffici. Di cosa vi state
ancora occupando? – Dell’esportazione del Cdr, il combustibile da rifiuto
prodotto in Italia, non smaltito nei nostri cementifici ma che va all’estero.
Ci sono delle filiere verso il Marocco, il Portogallo, la Romania. Anche in
questo caso ci sono state situazioni in cui i Paesi ‘riceventi’ hanno chiesto
di fare delle ulteriori analisi perché hanno sospettato che il materiale non
corrispondesse veramente alla descrizione cartacea, che invece di Cdr fosse
rifiuto vero e proprio. […] Come si è globalizzata l’economia, così il
malaffare. Il traffico di rifiuti, lecito e illecito, va ben oltre i confini,
non è più un problema nord-sud Italia”.
Il giorno prima su Avvenire venne
pubblicata un’intervista ad un ex agente dei servizi dove si sostiene che tra
Mauritania e Mali sono in azione “gli stessi personaggi” dei tempi del capitano
Natale De Grazia e che enormi traffici bellici stanno spargendo l’ex arsenale
di Gheddafi in “mezza Africa”.
Leggendo queste frasi il dubbio viene: le
“navi dei veleni” sono forse ancora attive? Ci sono ancora organizzazioni
criminali che proseguono l’attività su cui stavano indagando De Grazia e Alpi?
Chi sta lucrando? Chi li appoggia? Chi è coinvolto? Al di là di questo e
venendo alle possibili irregolarità a cui fa riferimento Bratti, ci sono stati
riscontri? Qualcuno è stato sanzionato?
Mafie e Africa. Un binomio che non può che
ricondurre allo sfruttamento del dramma dei migranti. Storia di vent’anni di
violenze, abusi, diritti negati e lucro sulla pelle dei
migranti, dai silenzi sulla strage di
Natale del 1996 al Regina Pacis di Lecce, due delle grandi lotte del compianto
Dino Frisullo, fino alle denunce contro il CARA
di Mineo.
Proprio nell’articolo in cui si ricordava
la strage di Natale nel maggio scorso si sottolineava che “dai tempi
dell’accordo di Berlusconi con Gheddafi sono infinite le prove (vere e reali) e
le testimonianze (vere e reali) dei trattamenti disumani e brutali che i
migranti subiscono in Libia (l’ultima denuncia dell’OIM è di questi giorni),
così come delle connivenze e gestioni comuni tra “Guardia Costiera libica”,
altre milizie e trafficanti (qua l’ultima inchiesta di Enrico Piovesana)” e si
riportava che inchieste diInternazionale e della giornalista Nancy
Porsia denunciavano che “l’accordo tra Italia e Libia potrebbe favorire il
traffico di migranti”.
Sono passati mesi ed ormai sono diversi
gli organismi internazionali (tra cui Oxfam,Unhcr e Medu)
e i reportage che documentano il realizzarsi dei timori peggiori possibili.
Una realtà definita su Avvenire con
“numeri da Terzo Reich” in centri di detenzione inumani. Una realtà chiara
e denunciata già nel giugno
scorso in tutta la sua interezza.
Il 7 dicembre dell’anno scorso la DDA di
Reggio Calabria rende note le conclusionidell’inchiesta Ecosistema, al
cui centro vi erano le accuse di scambio (poi non avvenuto) tra appoggio
politico e concessione di appalti nel settore rifiuti ad una ditta considerata
vicina a clan di ‘ndrangheta.
Un’inchiesta della DIA di
Catania nel marzo scorso ha portato a quattordici arresti (7 in carcere e 7 ai
domiciliari) e al sequestro preventivo di sei imprese valutate almeno 50
milioni di euro.
Traffico illecito di rifiuti, estorsione e
rapina, usura, corruzione, falso in atto pubblico e traffico di influenze
illecite i reati contestati. Secondo la Procura enormi guadagni sarebbero stati
ricavati dal trattamento di tonnellate di rifiuti di varia provenienza (persino
dall’ILVA di Taranto), da parte di imprenditori che sarebbero riconducibili al
clan Santapaola e corrompendo pubblici funzionari.
Ma quando sta
emergendo negli ultimi anni e viene denunciata nella relazione della Procura
Nazionale Antimafia è una vicenda che ha radici lontane.
Pippo Fava, il fondatore de I Siciliani, già negli Anni
Ottanta denunciò i “cavalieri dell’apocalisse”, imprenditori
contigui alle cosche e che lucrarono su appalti e commesse anche fuori dalla
Sicilia (Gaetano Graci vinse l’appalto per la costruzione di alcune barriere
frangiflutto sulla costa abruzzese e una società ricondotta a Carmelo Costanzo
fu coinvolta nella costruzione di un lotto universitario a L’Aquila), sulle
connessioni tra mafie e banche (due dossier furono pubblicati nell’aprile e nel
maggio 1984), la sfera politica e la massoneria.
Nell’intervista rilasciata ad Enzo Biagi
pochi giorni prima di essere assassinato, Pippo Fava dichiarò:
“i mafiosi stanno in Parlamento,
i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono
quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione. Se non si chiarisce
questo equivoco di fondo, cioè non si può definire mafioso il piccolo delinquente
che arriva e ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale. Questa
è roba da piccola criminalità che credo faccia parte ormai, abiti in tutte le
città italiane, in tutte le città europee. Il problema della mafia è molto più
tragico e più importante, è un problema di vertice della gestione della nazione
ed è un problema che rischia di portare alla rovina, al decadimento culturale
definitivo l’Italia”.
Scrivere che queste
parole sono profetiche e hanno anticipato il futuro italiano, descrivendo
trenta anni prima trame e intrecci criminali, deserto e omologazione culturale
e sociale, odierni non è retorica.
L’inchiesta Mammasantissima in Calabria e
Mafia Capitale ne sono la plastica rappresentazione.
La prima ha svelato un sistema di
potere che lega insieme ‘ndranghetisti, politici,
imprenditori, massoni di altissimi livelli.
E anche su rapporti e intrecci tra mafie,
massoneria e politica la prima voce storicamente si levò da I Siciliani:
fu infatti il Prof. Giuseppe D’Urso, fondatore della storica associazione I Siciliani,
il primo a denunciare l’esistenza di masso mafie.
(*) RIPRESO da http://www.qcodemag.it
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