“Un caso di
pulizia etnica da manuale”. Parola di Zeid Ra’ad Al Hussein, a capo dell’Alto
commissariato per i diritti umani delle Nazioni Unite. Eppure, per l’ennesima
volta la cosiddetta comunità internazionale si divide sul caso dei rohingya in
Myanmar. “Il popolo più discriminato del mondo”, secondo le organizzazioni
umanitarie, oggetto di una persecuzione più che decennale quasi sempre ignorata
dai più.
Lo Stato del
Rakhine (nome precedente: Arakan), dove i rohingya vivono da secoli, è stato conquistato
e annesso all’attuale Myanmar, da cui è fisicamente separato da una catena
montuosa, nel 1784. Diventato poi parte dell’India britannica, nel 1948 è
stato ceduto alla Birmania indipendente.
I rohingya, di
fatto cittadini del Myanmar, sono stati privati della nazionalità, non riconosciuti
come uno dei 135 gruppi etnici del paese e fatti oggetto di una campagna
persecutoria in grande stile: moschee distrutte, terre confiscate, stupri e
omicidi hanno costretto all’epoca più di 200 mila persone ad abbandonare
la patria e a rifugiarsi all’estero. Quelli che sono rimasti sono stati
dichiarati “stranieri residenti”, senza diritto a possedere terra e senza
diritti civili o legali. Al principio degli anni Novanta, in seguito
all’ennesima campagna di persecuzioni, altri 250 mila rohingya hanno
abbandonato la Birmania per rifugiarsi principalmente in Bangladesh inseguendo
l’illusione di poter essere meglio accolti in uno Stato a maggioranza musulmana
sunnita.
Non è
andata così, perché anche in Bangladesh i rohingya subiscono
discriminazioni, soprusi, violenze e ripetute violazioni dei diritti umani. Crimini
denunciati dalle Nazioni Unite e caduti in un assordante silenzio.
Nell’ultimo anno, le operazioni di pulizia etnica del governo birmano si
ripetono con allarmante frequenza. Secondo le agenzie umanitarie, tra il 9
ottobre e il 2 dicembre 2016 sono arrivati a Cox Bazaar, in Bangladesh, 21 mila rohingya. Che si aggiungono ai circa 230
mila (dati ufficiali, ma c’è chi parla di 500 mila) che vivono già
nel paese. Soltanto 32
mila sono registrati. Gli altri ci sono, ma sulla carta non
esistono.
Dal 25 agosto
a oggi, si stima che circa 370 mila persone siano
scappatedall’ennesima tornata di violenza a opera del governo di Naypyidaw. Per la
prima volta, la “comunità internazionale” si è mossa in grande stile chiedendo
perfino il ritiro del Nobel per la pace ad Aung San Suu Kyi,
che da quando è stata liberata ed è in seguito andata al potere non
ha mai speso una parola in favore dei rohingya. Anzi.
Il Myamnar,
prima e dopo la giunta, ha una lunga e onorata tradizione di repressione delle
minoranze e di qualunque istanza indipendentista. Il caso dei rohingya è
solamente il peggiore e il più emblematico di tutti.
Il governo del
Bangladesh fino a questo momento ha adottato la politica dello struzzo, non opponendosi
all’arrivo dei rifugiati per poi abbandonarli nei campi profughi in attesa
che il vicino se li riprenda. Naypyidaw non ha nessuna intenzione di
tornare sui suoi passi: dichiara che la cosiddetta “emergenza umanitaria” è
un falso inventato
dai giornalisti, che sono gli stessi rohingya a bruciare i loro
villaggi e a uccidere i non musulmani. E che attualmente è in corso
un’operazione antiterrorismo, militari contro militanti, seguita all’attacco di
alcune stazioni di polizia da parte di un gruppo chiamato Arakan Rohingya
Salvation Army (Arsa), formato nel 2012.
Le operazioni
più recenti rappresentano un preoccupante punto di svolta nel
conflitto, secondo
l’International Crisis Group. Nel corso degli anni è accaduto quello
che non era difficile prevedere: i campi profughi, abbandonati e dimenticati,
sono diventati bacini privilegiati di reclutamento per
vari gruppi jihadisti, trasformando una catastrofe umanitaria in una
emergenza terrorismo.
Curiosamente,
proprio dal 2012 in poi ha cominciato a operare nei campi profughi del Bangladesh
la Fala-i-Insaniyat: una
branca della Jamaat-u-Dawa (JuD), il “braccio umanitario” della Lashkar-i-Toiba
(LiT), l’organizzazione terroristica pakistana accusata, tra le altre cose,
dell’attacco di Mumbai del 2008. Secondo rapporti dell’intelligence indiana e
di quella birmana, i rohingya sono felicemente entrati a far parte del progetto
di jihad globale della LiT. Sempre secondo i servizi segreti, esistono
vari campi di
addestramento che hanno stretti legami con la LiT e con la JuD,
sul confine tra Myanmar e Bangladesh e tra Thailandia e Myanmar. Non solo:
ha cominciato a operare nell’area un gruppo chiamato Aqa-ul-Mujahiddin i cui
membri, secondo l’intelligence birmana, sono stati addestrati in Pakistan nei
campi della LiT. Pare che le reclute, selezionate in loco, siano state inviate
in Pakistan per poi tornare ad addestrare nuove leve. Ci sono rohingya
che combattono ormai
in Kashmir a fianco della Jaish-i-Mohammed e della
Lashkar-i-Toiba; ci sono cellule composte ormai esclusivamente di militanti
rohingya.
I legami con i
gruppi terroristici di matrice pakistana sono ormai consolidati, tanto che a capo di
uno dei gruppi si trova un maulana pakistano di origine
rohingya, Abdul Hamid, strettamente connesso alla LiT. L’Arsa e altri gruppi
simili sono guidati da Ata Ullah e altri venti compatrioti rohingya emigrati o
nati in Pakistan e con quartier generale alla Mecca, in Arabia Saudita.
Islamabad e Riyad mantengono un clamoroso silenzio a livello ufficiale sul
genocidio dei fratelli musulmani, al contempo finanziando jihadisti più o
meno sottobanco.
La Cina, che
tiene il Pakistan per la gola, si è schierata
ufficialmente a fianco del governo del Myanmar dichiarando che non voterà alcun
tipo di sanzione o provvedimento in sede del Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite. A Pechino si è quietamente accodata la Russia. Gli interessi
cinesi nella regione, e in particolare le nuove vie della
seta, passano tutti per una stretta collaborazione con Naypyidaw.
Così come gli
interessi indiani, volti a contrastare la
Cina e per questo a mantenere relazioni sempre più strette con il Myanmar.
Il premier Narendra Modi ha dichiarato di voler espatriare tutti i rohingya
rifugiatisi nell’instabile
Nord-Est indiano, facendo leva sull’emergenza terrorismo.
A rimanere con
il classico cerino in mano sarà ancora una volta il Bangladesh,
facilmente costretto a ricorrere all’aiuto di paesi musulmani più o meno
integralisti rinforzando quella radicalizzazione
ideologica sconosciuta ai suoi cittadini ma in atto ormai
da molti anni – le madrasa “donation of
Saudi Arabia” si potevano ammirare a Cox Bazaar già negli
anni Novanta.
È possibile
che gli Stati Uniti, in ottica anti-cinese, prendano questa volta una posizione più netta delle
solite commissioni di inchiesta, ma non è probabile. C’è già troppa carne al
fuoco su diversi fronti, la parola jihad rende le emergenze
umanitarie meno pressanti e il Myanmar sa benissimo di avere in mano un
paio di assi nella manica dovuti alla propria posizione strategica.
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