domenica 1 ottobre 2017

Nessuno farà niente per i rohingya - Francesca Marino




“Un caso di pulizia etnica da manuale”. Parola di Zeid Ra’ad Al Hussein, a capo dell’Alto commissariato per i diritti umani delle Nazioni Unite. Eppure, per l’ennesima volta la cosiddetta comunità internazionale si divide sul caso dei rohingya in Myanmar. “Il popolo più discriminato del mondo”, secondo le organizzazioni umanitarie, oggetto di una persecuzione più che decennale quasi sempre ignorata dai più.

Lo Stato del Rakhine (nome precedente: Arakan), dove i rohingya vivono da secoli, è stato conquistato e annesso all’attuale Myanmar, da cui è fisicamente separato da una catena montuosa, nel 1784. Diventato poi parte dell’India britannica, nel 1948 è stato ceduto alla Birmania indipendente.

I rohingya, di fatto cittadini del Myanmar, sono stati privati della nazionalità, non riconosciuti come uno dei 135 gruppi etnici del paese e fatti oggetto di una campagna persecutoria in grande stile: moschee distrutte, terre confiscate, stupri e omicidi hanno costretto all’epoca più di 200 mila persone ad abbandonare la patria e a rifugiarsi all’estero. Quelli che sono rimasti sono stati dichiarati “stranieri residenti”, senza diritto a possedere terra e senza diritti civili o legali. Al principio degli anni Novanta, in seguito all’ennesima campagna di persecuzioni, altri 250 mila rohingya hanno abbandonato la Birmania per rifugiarsi principalmente in Bangladesh inseguendo l’illusione di poter essere meglio accolti in uno Stato a maggioranza musulmana sunnita.

Non è andata così, perché anche in Bangladesh i rohingya subiscono discriminazioni, soprusi, violenze e ripetute violazioni dei diritti umani. Crimini denunciati dalle Nazioni Unite e caduti in un assordante silenzio. Nell’ultimo anno, le operazioni di pulizia etnica del governo birmano si ripetono con allarmante frequenza. Secondo le agenzie umanitarie, tra il 9 ottobre e il 2 dicembre 2016 sono arrivati a Cox Bazaar, in Bangladesh, 21 mila rohingya. Che si aggiungono ai circa 230 mila (dati ufficiali, ma c’è chi parla di 500 mila) che vivono già nel paese. Soltanto 32 mila sono registrati. Gli altri ci sono, ma sulla carta non esistono.

Dal 25 agosto a oggi, si stima che circa 370 mila persone siano scappatedall’ennesima tornata di violenza a opera del governo di Naypyidaw. Per la prima volta, la “comunità internazionale” si è mossa in grande stile chiedendo perfino il ritiro del Nobel per la pace ad Aung San Suu Kyi, che da quando è stata liberata ed è in seguito andata al potere non ha mai speso una parola in favore dei rohingya. Anzi.

Il Myamnar, prima e dopo la giunta, ha una lunga e onorata tradizione di repressione delle minoranze e di qualunque istanza indipendentista. Il caso dei rohingya è solamente il peggiore e il più emblematico di tutti.

Il governo del Bangladesh fino a questo momento ha adottato la politica dello struzzo, non opponendosi all’arrivo dei rifugiati per poi abbandonarli nei campi profughi in attesa che il vicino se li riprenda. Naypyidaw non ha nessuna intenzione di tornare sui suoi passi: dichiara che la cosiddetta “emergenza umanitaria” è un falso inventato dai giornalisti, che sono gli stessi rohingya a bruciare i loro villaggi e a uccidere i non musulmani. E che attualmente è in corso un’operazione antiterrorismo, militari contro militanti, seguita all’attacco di alcune stazioni di polizia da parte di un gruppo chiamato Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa), formato nel 2012.

Le operazioni più recenti rappresentano un preoccupante punto di svolta nel conflitto, secondo l’International Crisis Group. Nel corso degli anni è accaduto quello che non era difficile prevedere: i campi profughi, abbandonati e dimenticati, sono diventati bacini privilegiati di reclutamento per vari gruppi jihadisti, trasformando una catastrofe umanitaria in una emergenza terrorismo.

Curiosamente, proprio dal 2012 in poi ha cominciato a operare nei campi profughi del Bangladesh la Fala-i-Insaniyat: una branca della Jamaat-u-Dawa (JuD), il “braccio umanitario” della Lashkar-i-Toiba (LiT), l’organizzazione terroristica pakistana accusata, tra le altre cose, dell’attacco di Mumbai del 2008. Secondo rapporti dell’intelligence indiana e di quella birmana, i rohingya sono felicemente entrati a far parte del progetto di jihad globale della LiT. Sempre secondo i servizi segreti, esistono vari campi di addestramento che hanno stretti legami con la LiT e con la JuD, sul confine tra Myanmar e Bangladesh e tra Thailandia e Myanmar. Non solo: ha cominciato a operare nell’area un gruppo chiamato Aqa-ul-Mujahiddin i cui membri, secondo l’intelligence birmana, sono stati addestrati in Pakistan nei campi della LiT. Pare che le reclute, selezionate in loco, siano state inviate in Pakistan per poi tornare ad addestrare nuove leve. Ci sono rohingya che combattono ormai in Kashmir a fianco della Jaish-i-Mohammed e della Lashkar-i-Toiba; ci sono cellule composte ormai esclusivamente di militanti rohingya.

I legami con i gruppi terroristici di matrice pakistana sono ormai consolidati, tanto che a capo di uno dei gruppi si trova un maulana pakistano di origine rohingya, Abdul Hamid, strettamente connesso alla LiT. L’Arsa e altri gruppi simili sono guidati da Ata Ullah e altri venti compatrioti rohingya emigrati o nati in Pakistan e con quartier generale alla Mecca, in Arabia Saudita. Islamabad e Riyad mantengono un clamoroso silenzio a livello ufficiale sul genocidio dei fratelli musulmani, al contempo finanziando jihadisti più o meno sottobanco.

La Cina, che tiene il Pakistan per la gola, si è schierata ufficialmente a fianco del governo del Myanmar dichiarando che non voterà alcun tipo di sanzione o provvedimento in sede del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. A Pechino si è quietamente accodata la Russia. Gli interessi cinesi nella regione, e in particolare le nuove vie della seta, passano tutti per una stretta collaborazione con Naypyidaw.

Così come gli interessi indiani, volti a contrastare la Cina e per questo a mantenere relazioni sempre più strette con il Myanmar. Il premier Narendra Modi ha dichiarato di voler espatriare tutti i rohingya rifugiatisi nell’instabile Nord-Est indiano, facendo leva sull’emergenza terrorismo.

A rimanere con il classico cerino in mano sarà ancora una volta il Bangladesh, facilmente costretto a ricorrere all’aiuto di paesi musulmani più o meno integralisti rinforzando quella radicalizzazione ideologica sconosciuta ai suoi cittadini ma in atto ormai da molti anni – le madrasa “donation of Saudi Arabia” si potevano ammirare a Cox Bazaar già negli anni Novanta.

È possibile che gli Stati Uniti, in ottica anti-cinese, prendano questa volta una posizione più netta delle solite commissioni di inchiesta, ma non è probabile. C’è già troppa carne al fuoco su diversi fronti, la parola jihad rende le emergenze umanitarie meno pressanti e il Myanmar sa benissimo di avere in mano un paio di assi nella manica dovuti alla propria posizione strategica.

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