La
relazione della Dia ricorda quanto sia ancora sistemico l’imprimatur mafioso
nella vita dell’Italia
Relazioni che sono “segnate da
caratteristiche e strutture che si vanno decomponendo e ricomponendo
rapidamente, in modo vacillante e incerto, fluido e volatile”.
La Direzione Investigativa Antimafia (DIA)
nella recente relazione sul secondo semestre 2016 si affida
alla famosa definizione di “società liquida” teorizzata da Bauman undici anni
fa per descrivere l’evoluzione delle mafie presenti in Italia. Mafie con una
solida “vocazione imprenditoriale”, che si inseriscono nei settori più
disparati, egemonizzando la società e manovrando istituzioni e imprese.
La DIA cita ripetutamente il “metodo
Falcone”, quel metodo investigativo sempre validissimo per ricostruire trame e
intrecci, potentati e consolidati domini delle cupole criminali.
Quelle cupole che si
nutrono non solo di consolidati network criminali ma anche di “comportamenti
mafiosi latenti” espressi da “soggetti contigui, diventati punti nodali del
network economico delle cosche, ma anche da giovani leve, espressione familiare
delle stesse organizzazioni, progredite culturalmente e perfettamente integrate
nel tessuto sociale ed imprenditoriale del Paese”.
L’idea delle mafie come estranee ad un
tessuto sociale sano, a piccole entità aliene facilmente allontanabili, non
permette comprensione e contrasto.
Le mafie sempre più sono presenti nelle
stanze dei bottoni, dirigono amministrazioni pubbliche e governano interi
settori economici. Se fino a pochi anni fa si poteva ancora tentare di parlare
di una lotta tra Stato e anti-Stato, oggi quell’illusione è completamente
spazzata via.
Scrisse Roberto Scarpinato nel libro Il ritorno del Principe – la criminalità dei potenti in Italia (giugno 2008) “il mondo degli assassini comunica attraverso
mille porte girevoli con insospettabili salotti e con talune stanze ovattate
del potere” e che “in Italia la storia nazionale, quella con la S maiuscola, è
inestricabilmente intrecciata con quella della criminalità di settori
significativi della sua classe dirigente, tanto che in taluni tornanti
essenziali non è dato comprendere l’evoluzione dell’una senza comprendere i
nessi con la seconda”.
La relazione della DIA
sul primo semestre 2016 riporta che Mafia Capitale è riuscita “a creare una
sinergia illecita tra ambienti criminali ed istituzionali, avvalendosi della
forza di intimidazione e della corruzione per ottenere commesse pubbliche”.
Passaggi ancora più espliciti nella
relazione successiva dove si afferma che l’organizzazione “sarebbe riuscita ad
imporsi sulla scena criminale romana, condizionando anche vasti settori
dell’attività amministrativa della Capitale.
Il sodalizio avrebbe, peraltro, avuto
interessi nell’usura, nelle estorsioni e nel commercio di armi, dedicandosi,
parallelamente, all’acquisizione di pubbliche commesse in favore di società e
cooperative di riferimento.
La terza tranche delle indagini che si è
conclusa nel mese di luglio 2016, ha confermato la forza di condizionamento
degli apparati amministrativi e istituzionali del gruppo in parola”.
Secondo gli investigatori “avvalendosi
dello storico legame con esponenti dell’estrema destra romana, alcuni dei quali
divenuti esponenti politici o manager pubblici, il sodalizio si è gradualmente
dimensionato in un’organizzazione di tipo evoluto, dedita alla sistematica
infiltrazione del tessuto economico ed istituzionale, con una struttura
tipicamente mafiosa ed un apparato in grado di gestire i diversificati
interessi illeciti”.
Nasce da qui la definizione data dalla
procura romana di fascio mafia, nell’intreccio che
comprende anche ex Nar e personaggi riconducibili anche alla Banda della
Magliana.
Carminati in aula nei mesi scorsi
rivendicò di essere “un vecchio fascista degli Anni Settanta” e di essere
“contentissimo” di esserlo. Un anno fa Lirio Abbate in un’inchiestasu L’Espresso accusò
Carminati di aver posto le basi per un “grande ricatto” dopo il furto del 1999
al caveau del Tribunale di Roma, “colpendo magistrati, avvocati, funzionari
della Giustizia” grazie a 147 cassette “connessi con i più grandi misteri
d’Italia: dalla strage di Bologna alla
P2, dal delitto Pasolini all’omicidio
Pecorelli, dalla Banda della Magliana a Cosa nostra”.
Nel rapporto annuale
presentato il 12 aprile scorso la Procura Nazionale Antimafia, come ha evidenziato il giornalista
d’inchiesta Nello Trocchia, chiariva che espressioni come ecomafia sono
superati, non descriverebbero più l’attualità dell’impresa criminale.
Il fulcro, leggiamo nel rapporto, non si
trova “nelle ingerenze della criminalità mafiosa nello specifico settore, bensì
nelle deviazioni dal solco della legalità, per puro e vile scopo
utilitaristico:
a) delle imprese svolgenti attività generatrici di rilevanti quantitativi di rifiuti, il cui corretto smaltimento avrebbe dovuto avere un posto di riguardo nella organizzazione aziendale;
b) nonché delle imprese svolgenti attività nello specifico settore della gestione dei rifiuti”.
a) delle imprese svolgenti attività generatrici di rilevanti quantitativi di rifiuti, il cui corretto smaltimento avrebbe dovuto avere un posto di riguardo nella organizzazione aziendale;
b) nonché delle imprese svolgenti attività nello specifico settore della gestione dei rifiuti”.
“Tutta la storia della gestione
illegale dei rifiuti – scrive Nello Trocchia – della devastazione ambientale
anche riferibile al caso campano e anche in presenza di infiltrazione dei clan
è una faccenda di soldi. Se si torna indietro tutto iniziò con le dazioni di
denaro a politici e funzionari compiacenti, corrotti in cambio delle
autorizzazioni a scaricare”.
E’ la sintesi perfetta degli ultimi
venti-trent’anni. Dalle inchieste sulle cave abbandonate nell’Abruzzo interno
degli Anni Novanta a Resit, la discarica di Cipriano Chianese su cui indagò
Roberto Mancini e di cui abbiamo già scritto l’anno scorso in
occasione della condanna in primo grado, tutte raccontano di corruzione a politici
e funzionari per scaricare rifiuti di ogni tipo di industrie soprattutto del
Nord Italia.
Nella discarica Resit
tra il 1987 e il 1991 furono smaltite almeno 30.600 tonnellate di rifiuti
provenienti dalla bonifica dell’Acna di Cengio, un’azienda savonese di
coloranti.
Lo stesso Cipriano Chianese era un
avvocato vicino ad ambienti di altissimo livello e la “immonda e sconcia storia
criminale e camorristica” della discarica Resit non sarebbe esistita – denunciarono Nello Trocchia e Luca Ferrari nella
biografia di Roberto ManciniIo morto per dovere – “senza l’appoggio
di importanti figure della borghesia affaristica” politici, infedeli servitori
dello Stato, professionisti e imprenditori.
La Terra dei Fuochi, come lo stesso Nello
Trocchia ha raccontato a Vasto nel maggio
scorso, per quanto in Campania sta svelando tutta la sua
devastazione criminale e assassina “non è un perimetro geografico ma un modello
di sviluppo economico” che coinvolge sfere imprenditoriali e politiche che
governano tutto il Paese.
Nel luglio scorso
un’inchiesta, partita dalle indagini su un incendio alla Trailer Rezzato,
provincia di Brescia, e che ha coinvolto anche dipendenti di Herambiente, A2A e
Aral, ha portato all’emersione di un enorme traffico di rifiuti tombati o
bruciati illecitamente in Piemonte e Lombardia.
Secondo il NOE solo nello stabilimento di
Rezzato sarebbero stati stoccati mille tonnellate di rifiuti solidi urbani.
In un’intervista a Nello Trocchia
per Nemo (Rai 2) Nunzio Perrella ha dichiarato che in Campania
“la camorra è la manovalanza della politica” e che lui è stato attivo nel
traffico dei rifiuti perché “la munnezz’ è oro”.
Secondo Perrella il bresciano è “messo
peggio” della Campania: in discariche “legali” della provincia lombarda (cita
Montichiari, Ospitaletto, Castegnato e Rovato, aggiungendo “fino a Mantova
siamo arrivati”) almeno dal 1989 al 1992 (ma ci sarebbero, secondo la sua
testimonianza, anche situazioni precedenti) lui stesso avrebbe smaltito scorie.
“Rifiuti tossici, tutto il nord ne è pieno, pieno. Li ho seppelliti anche sotto
le strade in provincia di Roma”, le sue testuali parole.
E nel Nord Italia non è possibile non
citare la vicenda della discarica Pitelli a La Spezia. Discarica sequestrata
nel 1996 e che ha portato a chiudere senza condanne il processo penale nel
2011.
Per la giustizia italiana un tribunale ha
sancito che “il fatto non sussiste”. Andrea Palladino nel libro Trafficanti – sulle piste di veleni, armi e rifiutiraccontò Pitelli come “la più grande discarica d’Italia, forse
d’Europa.
Quattro immense
vasche, costruite l’una nell’altra che tagliano la collina di Pitelli. Alcune
società dove si incrociavano i maggiori gruppi italiani ed europei hanno
sversato centinaia di migliaia di tonnellate di scorie pericolosissime per
vent’anni.
Vent’anni di silenzi, di complicità, di
autorizzazioni bizzarre, di lauti compensi versati ad amministratori pubblici,
militari della Marina, politici di destra e di sinistra”.
La città ligure, raccontò Palladino, “fu
una prolifica meta turistica per pezzi di armamenti e rifiuti tossici italiani
recuperati nel Libano in piena guerra civile. Due investigatori dell’antimafia
di Genova, nel 1997 sostennero che il vestito di mittente del materiale
bellico, proveniente dall’area del corno d’Africa e dalla Somalia, fu indossato
dai massoni spezzini, il ciò non è garanzia di eleganza. Tali massoni si
accordavano con i signori della guerra, in una città, che assumeva ormai le
forme di una serpe armata, la cui bocca, pallottola ansimante di prestigio,
sputava veleno”.
Un traffico, di cui la discarica di
Pitelli era il centro, che giunse fino alla Romania di Ceauşescu dove
arrivarono anche le diossine dell’Icmesa. Nella discarica, segnala Wikipedia,
“è stata segnalata la presenza di 18mila tonnellate di scorie prodotte dagli inceneritori
dell’AMSA, con concentrazioni di sostanze clorurate, diossine e furani
sufficienti a classificarle come rifiuti tossico-nocivi. A ciò si aggiungono
4800 tonnellate di ceneri provenienti dal forno dell’Azienda Comasca Servizi
Municipalizzati, 383 tonnellate di ceneri e scarti d’alluminio da un’industria
di Mortara, tonnellate di fanghi di depurazione da un complesso
chimico-farmaceutico di Ceriano Laghetto, scorie alcaline da Settimo Milanese,
migliaia di litri di scarti medicinali di una fabbrica milanese descritti come
segature, macerie contenenti amianto da imprese edili di Calusco d’Adda e
Cogliate”.
In un’intervista al Secolo XIX pubblicata
il 14 febbraio 2014 Carmine Schiavone parlò di un coinvolgimento del clan
Nuvoletta e di come anche in Liguria erano stati sepolti veleni.
“Armi caricate dai servizi
segreti, cocaina nascosta anche dentro le palme in arrivo dal Sud America,
rifiuti tossici e nucleari dal Nord, movimentati da Licio Gelli e dall’avvocato
Cipriano Chianese, transitavano dalla Liguria, nei porti di Genova, e Spezia”
le sue parole riportate dal quotidiano.
A La Spezia si stava recando Natale De Grazia quando fu
assassinato. E anche le sueinchieste sulle navi dei
veleni portano dritti sempre in Est Europa.
Un simbolo delle indagini
di De Grazia sulle navi dei veleni sicuramente è la Jolly Rosso, ma
sono probabilmente 90 circa le navi
affondate.
Le navi dei veleni
restano una delle vicende più misteriose e
torbide della storia italiana.
Una vicenda nella quale compaiono sulla
scena camorra e servizi segreti. Rifiuti, armi, servizi segreti. Inchieste per
le quali furono assassinati in Somalia anche
Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.
“Ilaria indagava sul traffico di
rifiuti e cercava risposte sullo scandalo che coinvolgeva il nostro ministero
degli Esteri, quello della Difesa, i nostri Servizi, le società coinvolte nello
scambio armi-rifiuti. Noi fomentavamo una guerra che eravamo andati a placare,”
ha dichiarato la madre Luciana
a La Repubblica nel 2014.
Nella stessa intervista la signora Alpi
dichiarò di essere convinta che “la fonte di Ilaria fosse Li Causi”, riporta
l’articolo ex “uomo dei Servizi militari italiani e per un certo tempo attivo
nella struttura segreta Gladio (creata per fronteggiare un’invasione del blocco
sovietico, ndr) a Trapani”, assassinato in un agguato nel novembre 1993 in
Somalia. Un agguato su cui non si è mai potuta fare luce.
Di “navi dei veleni” si parla sempre al
passato, ci si riferisce ad un fitto mistero ormai consegnato alla storia della
Repubblica delle trame e degli intrighi. Ma è veramente così? Nell’intervista di Toni Mira
su Avvenire dell’8 gennaio di quest’anno al presidente della
commissione parlamentare ecomafie Alessandro Bratti leggiamo queste frasi:
“c’è ancora un traffico di
rifiuti verso Paesi stranieri? Sicuramente sì […] Abbiamo verificato che esiste
un traffico di rifiuti pararegolare, che riguarda numerosi porti europei verso
il Nordafrica. Si tratta di traffici ‘regolari’, ma che poi, come abbiamo
verificato, in alcuni casi regolari non sono. Vengono denunciati come materie prime
e seconde e in realtà sono veri e propri rifiuti. […] Stiamo facendo una
relazione proprio su questo traffico di rifiuti transfrontaliero dove
racconteremo tutto. Ma non ci sono solo questi traffici. Di cosa vi state
ancora occupando? – Dell’esportazione del Cdr, il combustibile da rifiuto
prodotto in Italia, non smaltito nei nostri cementifici ma che va all’estero.
Ci sono delle filiere verso il Marocco, il Portogallo, la Romania. Anche in
questo caso ci sono state situazioni in cui i Paesi ‘riceventi’ hanno chiesto
di fare delle ulteriori analisi perché hanno sospettato che il materiale non
corrispondesse veramente alla descrizione cartacea, che invece di Cdr fosse
rifiuto vero e proprio. […] Come si è globalizzata l’economia, così il
malaffare. Il traffico di rifiuti, lecito e illecito, va ben oltre i confini,
non è più un problema nord-sud Italia”.
Il giorno prima su Avvenire venne
pubblicata un’intervista ad un ex agente dei servizi dove si sostiene che tra
Mauritania e Mali sono in azione “gli stessi personaggi” dei tempi del capitano
Natale De Grazia e che enormi traffici bellici stanno spargendo l’ex arsenale
di Gheddafi in “mezza Africa”.
Leggendo queste frasi il dubbio viene: le
“navi dei veleni” sono forse ancora attive? Ci sono ancora organizzazioni
criminali che proseguono l’attività su cui stavano indagando De Grazia e Alpi?
Chi sta lucrando? Chi li appoggia? Chi è coinvolto? Al di là di questo e
venendo alle possibili irregolarità a cui fa riferimento Bratti, ci sono stati
riscontri? Qualcuno è stato sanzionato?
Mafie e Africa. Un binomio che non può che
ricondurre allo sfruttamento del dramma dei migranti. Storia di vent’anni di
violenze, abusi, diritti negati e lucro sulla pelle dei
migranti, dai silenzi sulla strage di
Natale del 1996 al Regina Pacis di Lecce, due delle grandi lotte del compianto
Dino Frisullo, fino alle denunce contro il CARA
di Mineo.
Proprio nell’articolo in cui si ricordava
la strage di Natale nel maggio scorso si sottolineava che “dai tempi
dell’accordo di Berlusconi con Gheddafi sono infinite le prove (vere e reali) e
le testimonianze (vere e reali) dei trattamenti disumani e brutali che i
migranti subiscono in Libia (l’ultima denuncia dell’OIM è di questi giorni),
così come delle connivenze e gestioni comuni tra “Guardia Costiera libica”,
altre milizie e trafficanti (qua l’ultima inchiesta di Enrico Piovesana)” e si
riportava che inchieste diInternazionale e della giornalista Nancy
Porsia denunciavano che “l’accordo tra Italia e Libia potrebbe favorire il
traffico di migranti”.
Sono passati mesi ed ormai sono diversi
gli organismi internazionali (tra cui Oxfam,Unhcr e Medu)
e i reportage che documentano il realizzarsi dei timori peggiori possibili.
Una realtà definita su Avvenire con
“numeri da Terzo Reich” in centri di detenzione inumani. Una realtà chiara
e denunciata già nel giugno
scorso in tutta la sua interezza.
Il 7 dicembre dell’anno scorso la DDA di
Reggio Calabria rende note le conclusionidell’inchiesta Ecosistema, al
cui centro vi erano le accuse di scambio (poi non avvenuto) tra appoggio
politico e concessione di appalti nel settore rifiuti ad una ditta considerata
vicina a clan di ‘ndrangheta.
Un’inchiesta della DIA di
Catania nel marzo scorso ha portato a quattordici arresti (7 in carcere e 7 ai
domiciliari) e al sequestro preventivo di sei imprese valutate almeno 50
milioni di euro.
Traffico illecito di rifiuti, estorsione e
rapina, usura, corruzione, falso in atto pubblico e traffico di influenze
illecite i reati contestati. Secondo la Procura enormi guadagni sarebbero stati
ricavati dal trattamento di tonnellate di rifiuti di varia provenienza (persino
dall’ILVA di Taranto), da parte di imprenditori che sarebbero riconducibili al
clan Santapaola e corrompendo pubblici funzionari.
Ma quando sta
emergendo negli ultimi anni e viene denunciata nella relazione della Procura
Nazionale Antimafia è una vicenda che ha radici lontane.
Pippo Fava, il fondatore de I Siciliani, già negli Anni
Ottanta denunciò i “cavalieri dell’apocalisse”, imprenditori
contigui alle cosche e che lucrarono su appalti e commesse anche fuori dalla
Sicilia (Gaetano Graci vinse l’appalto per la costruzione di alcune barriere
frangiflutto sulla costa abruzzese e una società ricondotta a Carmelo Costanzo
fu coinvolta nella costruzione di un lotto universitario a L’Aquila), sulle
connessioni tra mafie e banche (due dossier furono pubblicati nell’aprile e nel
maggio 1984), la sfera politica e la massoneria.
Nell’intervista rilasciata ad Enzo Biagi
pochi giorni prima di essere assassinato, Pippo Fava dichiarò:
“i mafiosi stanno in Parlamento,
i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono
quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione. Se non si chiarisce
questo equivoco di fondo, cioè non si può definire mafioso il piccolo delinquente
che arriva e ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale. Questa
è roba da piccola criminalità che credo faccia parte ormai, abiti in tutte le
città italiane, in tutte le città europee. Il problema della mafia è molto più
tragico e più importante, è un problema di vertice della gestione della nazione
ed è un problema che rischia di portare alla rovina, al decadimento culturale
definitivo l’Italia”.
Scrivere che queste
parole sono profetiche e hanno anticipato il futuro italiano, descrivendo
trenta anni prima trame e intrecci criminali, deserto e omologazione culturale
e sociale, odierni non è retorica.
L’inchiesta Mammasantissima in Calabria e
Mafia Capitale ne sono la plastica rappresentazione.
La prima ha svelato un sistema di
potere che lega insieme ‘ndranghetisti, politici,
imprenditori, massoni di altissimi livelli.
E anche su rapporti e intrecci tra mafie,
massoneria e politica la prima voce storicamente si levò da I Siciliani:
fu infatti il Prof. Giuseppe D’Urso, fondatore della storica associazione I Siciliani,
il primo a denunciare l’esistenza di masso mafie.
(*) RIPRESO da http://www.qcodemag.it
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