L’avevamo capito sulla pelle di Salsedo e Pinelli che gli
anarchici non sanno volare. Ora abbiamo anche scoperto che i Mapuche non sanno
nuotare. Quantomeno ci resta una conferma: che la creatività degli stati, a
qualsiasi latitudine e tempo, è davvero inesauribile.
Tra malori attivi,
improvvise perdite d’equilibrio, suicidi e congetture politico-mediatiche di
ogni sorta, non sarebbe quindi azzardato pensare a un’inedita forma di governo:
lo stato dell’arte.
A
77 giorni dalla scomparsa di Santiago Maldonado, avvenuta lo scorso 1 agosto
2017, in occasione di una protesta organizzata dalla comunità indigena Mapuche
Pu Lof di Cushamen, nella provincia di Chubut in Argentina, e duramente
repressa dall’intervento violento di un contingente armato della Gendarmeria
Nazionale, il corpo di un uomo è stato trovato galleggiare proprio sulle acque
del fiume Chubut, tra le radici di un salice in lacrime, come un’improbabile
Ofelia patagonica.
Nessuna conferma ancora sull’identità del cadavere, e per
prima la famiglia del giovane ragazzo scomparso chiede prudenza e soprattutto
rispetto per il dolore che sta vivendo in questi momenti così delicati.
Diversi
indizi, tuttavia, lasciano intendere che si tratti proprio della salma di
Santiago Maldonado: anzitutto il luogo del ritrovamento, su cui ancora non
esiste una versione ufficiale precisa, ma che sarebbe a poche centinaia di
metri dalla comunità Mapuche dove per l’ultima volta è stato avvistato
Maldonado; poi gli abiti, una felpa azzurra, come quella che il giovane
attivista indossava il giorno della protesta; e soprattutto, una carta
d’identità, con le generalità di Santiago Maldonado.
Sarà
l’autopsia prevista per oggi a Buenos Aires, tuttavia, a cercare di stabilire
“l’identità, la data, la causa e la dinamica del decesso del corpo umano
ritrovato”, così come esplicitamente richiesto dal giudice Gustavo Lleral, a
capo delle indagini del caso di “sparizione forzata” relativo al giovane
argentino.
Dopo
l’apertura del fascicolo Maldonado in seguito alla sua improvvisa scomparsa, la
Procura di Esquel (Chubut) aveva infatti deciso di riclassificare il caso sotto
la dicitura “sparizione forzata”, in ragione di molteplici elementi sospetti.
Secondo
le dichiarazioni di alcuni testimoni oculari, infatti, il ragazzo era stato
fermato e caricato su un mezzo della Gendarmeria nel corso degli scontri
avvenuti quel primo agosto, anche se la stessa Arma e le autorità politiche
hanno sempre negato tale detenzione e, più in generale, qualsiasi
coinvolgimento nella vicenda della scomparsa.
Le
versioni ipotizzate dai media vicini al governo, così come quelle ventilate
dallo stesso presidente Macri o dalla ministra per la sicurezza Bullrich, sono
state sin dall’inizio estremamente sospette quando non sfacciatamente
menzognere, con l’evidente proposito di depistare le indagini e, soprattutto,
l’opinione pubblica, screditando in modo vergognoso la figura di Santiago Maldonado.
Inizialmente
si cercò di sostenere che l’attivista pro-Mapuche non si trovasse alla
manifestazione di protesta insieme agli altri membri della comunità Pu Lof;
poi, quando alcune immagini video mostrarono il contrario, la stessa ministra
Bullrich difese l’operato della Gendarmeria definendo i militari come “persone
rispettate e molto benvolute” e sostenendo dunque la totale estraneità
dell’Arma alla scomparsa di Santiago Maldonado, dal momento che nessun arresto
era stato effettuato in quell’occasione.
Successivamente,
il quotidiano La Nación mise sul tavolo la possibilità che effettivamente
Maldonado potesse essere stato ucciso, ma le responsabilità dell’omicidio
venivano incredibilmente fatte ricadere sugli stessi Mapuche. O ancora, si
riferì che Santiago Maldonado fosse fuggito in Cile, o che proprio lì fosse
stato ritrovato il suo cadavere. Infine si arrivò a sostenere la sua
appartenenza all’esercito delle FARC, le Forze Armate Rivoluzionarie
Colombiane, e che per questo si era dato alla clandestinità.
Solo
a metà settembre si ipotizzò l’eventualità che Santiago Maldonado potesse
essere affogato cadendo nel fiume Chubut; un’eventualità, tuttavia, che gli
stessi esperti impiegati nelle ricerche avevano prontamente scartato.
Le
caratteristiche delle acque del rio Chubut, nel tratto limitrofo al luogo dove
presumibilmente potrebbe essere accidentalmente caduto Santiago Maldonado, sono
tali che il corpo non avrebbe potuto discendere la corrente per più di 200
metri, restando inevitabilmente impigliato nei rami o nelle radici degli alberi
che ne costeggiano la riva.
Eppure,
secondo le fonti a disposizione, il ritrovamento del cadavere è avvenuto a 300
metri a monte di Pu Lof, risalendo la corrente. Ma, soprattutto, è avvenuto in
zone perlustrate più volte nel corso di questi 77 giorni, tanto dai
sommozzatori della Prefettura Navale quanto dai membri della comunità Mapuche
che assicurano come quel corpo, appena tre giorni fa, non si trovasse lì.
“L’impressione
– afferma Ariel Garzi, amico di Maldonado e teste nella causa – è che se
sfortunatamente quel corpo appartiene a Santiago, ciò significa che ce l’hanno
portato loro”.
Anche
Adolfo Pérez Esquivel, premio Nobel per la Pace argentino, è scettico a tal
proposito, ed esprime forte preoccupazione per un ritrovamento sospetto che fa
seguito a quasi tre mesi di montaggi, distrazioni e depistaggi messi in atto in
maniera rocambolesca dal governo Macri.
Un
ritrovamento, inoltre, che fa seguito anche, e forse soprattutto, a una serie
di mobilitazioni e pressioni internazionali da parte della società civile,
oltre che di vari organismi per i diritti umani, divenute sempre più scomode e
difficili da gestire per un paese con alle spalle una dittatura militare che ha
contato almeno 30mila desaparecidos tra il 1976 e il 1983, riaprendo così una
cicatrice forse mai del tutto chiusa.
Impossibile
qui in Italia non pensare allora al caso del nostro Giulio Regeni, il cui corpo
martoriato, segnato da torture atroci, fu trovato lungo una strada deserta alle
periferie del Cairo. “Incidente stradale”, si disse prima. “Regolamento di
conti” per questioni di sesso o droga, si corressero poi. I maestri dello Stato
dell’arte, occorre riconoscerlo, sono sempre al lavoro.
da qui
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