venerdì 6 ottobre 2017

Il villaggio di Al Araqib (novello Sisifo) demolito per la 119° volta

è scritto nel Deuteronomio:
Non desiderare la casa del tuo prossimo, né il suo campo (da qui)

se esistesse, un dio avrebbe fulminato un bel po' di israeliani 119 volte, sicuro.



Probabilmente è un record: ieri il villaggio beduino palestinese di Al Araqib, nel deserto del Naqab, sud dello Stato di Israele, è stato demolito per la 119esima volta in sette anni. La prima distruzione da parte dei bulldozer israeliani risale al luglio 2010: da allora si sono susseguite con frequenza regolare e senza sosta.
La popolazione di Al Araqib resiste, con difficoltà: delle 35 famiglie che vivevano nel villaggio, già ampiamente ridotto dalla Nakba e da decenni di abbandono da parte dello Stato – sebbene si tratti di cittadini israeliani – ne sono rimaste una ventina, circa 220 persone. Al loro posto, gradualmente, il Jewish National Found – organizzazione sionista che dal 1901 opera per impossessarsi delle terre nella Palestina storica – pianta alberi, attività che porta avanti dall’inizio del secolo scorso e che ha permesso in molti casi di cancellare le tracce dei villaggi palestinesi distrutti nel 1948.
Al Araqib è uno dei target: ieri mattina, alle 7.15, i bulldozer si sono ripresentati al villaggio, scortati dalle forze armate e dalla polizia antisommossa. Hanno distrutto le strutture presenti, tende e poco più, vista l’impossibilità di costruire edifici permanenti: “Hanno perquisito e distrutto tutto, ogni edificio, ogni casa”, ha detto a Al Jazeera Siyah al-Touri, uno dei leader della comunità.
“Vogliono cacciarci con la forza e non capiscono che siamo cittadini dello Stato. Non ci riconoscono e se lo fanno non garantiscono i nostri diritti”, ha aggiunto ricordando che le prime costruzioni risalgono al 1914, dunque tre decenni prima della nascita dello Stato di Israele, e che i sei pozzi storici della comunità sono inutilizzabili perché chiusi dalle autorità.
Oltre a ricostruire, Al Araqib si è rivolta anche alla giustizia, ma i ricorsi sono stati rigettati: la corte non riconosce la proprietà delle terre. A monte la confisca di massa che fu attuata negli anni Cinquanta, quando i villaggi e le città palestinesi in Israele vennero dichiarati zone militari chiuse. Ma anche la particolare mappatura che le neonate autorità israeliane fecero del territorio: la prima missione di funzionari e ingegneri israeliani, poco dopo il 1948, disegnò le mappe ufficiali di una terra che il nuovo Stato non conosceva, registrando zone agricole, fiumi, montagne, zone industriali, villaggi. Delle comunità palestinesi rimaste in piedi, circa 300, ne registrarono la metà, 150. E quando fu realizzata una seconda mappatura, pochi anni dopo, Israele accusò i 150 villaggi non registrati di essere illegali, costruiti dopo la fondazione dello Stato.
Da allora sono villaggi non riconosciuti, da sette decenni privati di qualsiasi tipo di servizio pubblico – dall’acqua all’elettricità, dalla raccolta rifiuti al sistema fognario – e di piano infrastrutturale. Al loro posto demolizioni e trasferimenti forzati che colpiscono in modo particolarmente duro i beduini del Naqab, 200mila persone di cui quasi la metà è oggetto dell’interesse del piano Prawer, programma di ricollocazione di 45 villaggi non riconosciuti in sette township, al momento sospeso dopo le tante proteste palestinesi e internazionali.
L’ultima “beffa” è stata raccontata dalla stampa locale nelle ultime settimane, sebbene si tratti di un fenomeno in essere da almeno sette anni, nel silenzio quasi totale: Israele sta revocando la cittadinanza di migliaia di beduini palestinesi, parlando di un errore commesso tra il 1948 e il 1952 quando quella cittadinanza, agli avi, non andava riconosciuta. Di spiegazioni non ne vengono date, ma sarebbero – secondo l’associazione Adalah, che tutela la minoranza araba in Israele – già 2.600 i beduini palestinesi privati della cittadinanza.



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