è scritto nel Deuteronomio:
Non desiderare la casa del tuo prossimo, né il suo campo (da qui)
se esistesse, un dio avrebbe fulminato un bel po' di israeliani 119 volte, sicuro.
Probabilmente è un record: ieri il
villaggio beduino palestinese di Al Araqib, nel deserto del Naqab, sud dello
Stato di Israele, è stato demolito per la 119esima volta in sette anni. La
prima distruzione da parte dei bulldozer israeliani risale al luglio 2010: da
allora si sono susseguite con frequenza regolare e senza sosta.
La popolazione di Al Araqib resiste, con difficoltà: delle 35
famiglie che vivevano nel villaggio,
già ampiamente ridotto dalla Nakba e da decenni di abbandono da parte dello
Stato – sebbene si tratti di cittadini israeliani – ne sono rimaste una ventina, circa 220
persone. Al loro posto, gradualmente, il Jewish National
Found – organizzazione sionista che dal 1901 opera per impossessarsi delle
terre nella Palestina storica – pianta alberi, attività che porta avanti
dall’inizio del secolo scorso e che ha permesso in molti casi di cancellare le
tracce dei villaggi palestinesi distrutti nel 1948.
Al Araqib è uno
dei target: ieri mattina, alle 7.15, i bulldozer si
sono ripresentati al villaggio, scortati dalle forze armate e dalla polizia
antisommossa. Hanno distrutto le strutture presenti, tende e poco più, vista
l’impossibilità di costruire edifici permanenti: “Hanno
perquisito e distrutto tutto, ogni edificio, ogni casa”, ha detto a Al Jazeera Siyah al-Touri, uno dei leader della
comunità.
“Vogliono
cacciarci con la forza e non capiscono che siamo cittadini dello Stato. Non ci
riconoscono e se lo fanno non garantiscono i nostri diritti”, ha aggiunto
ricordando che le prime costruzioni risalgono al 1914, dunque tre decenni prima
della nascita dello Stato di Israele, e che i sei pozzi storici della comunità
sono inutilizzabili perché chiusi dalle autorità.
Oltre a
ricostruire, Al Araqib
si è rivolta anche alla giustizia, ma i ricorsi sono stati rigettati: la corte
non riconosce la proprietà delle terre. A monte la confisca di massa che fu
attuata negli anni Cinquanta, quando i villaggi e le città palestinesi in
Israele vennero dichiarati zone militari chiuse. Ma anche la
particolare mappatura che le neonate autorità israeliane fecero del territorio:
la prima missione di funzionari e ingegneri israeliani, poco dopo il 1948,
disegnò le mappe ufficiali di una terra che il nuovo Stato non conosceva,
registrando zone agricole, fiumi, montagne, zone industriali, villaggi. Delle comunità palestinesi rimaste in
piedi, circa 300, ne registrarono la metà, 150. E quando fu realizzata una
seconda mappatura, pochi anni dopo, Israele accusò i 150 villaggi non
registrati di essere illegali, costruiti dopo la fondazione dello Stato.
Da allora sono villaggi non riconosciuti, da sette decenni privati
di qualsiasi tipo di servizio pubblico – dall’acqua all’elettricità, dalla raccolta
rifiuti al sistema fognario – e di piano infrastrutturale. Al loro posto demolizioni e trasferimenti forzati che
colpiscono in modo particolarmente duro i beduini del Naqab, 200mila persone di
cui quasi la metà è oggetto dell’interesse del piano Prawer, programma di
ricollocazione di 45 villaggi non riconosciuti in sette township, al momento
sospeso dopo le tante proteste palestinesi e internazionali.
L’ultima
“beffa” è stata raccontata dalla stampa locale nelle ultime settimane, sebbene
si tratti di un fenomeno in essere da almeno sette anni, nel silenzio quasi
totale: Israele sta revocando la cittadinanza di
migliaia di beduini palestinesi, parlando di un errore commesso tra il 1948 e
il 1952 quando quella cittadinanza, agli avi, non andava riconosciuta. Di
spiegazioni non ne vengono date, ma sarebbero – secondo
l’associazione Adalah, che tutela la minoranza araba in Israele – già 2.600 i
beduini palestinesi privati della cittadinanza.
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