C’è qualcosa di imbarazzante che ogni insegnante fa centinaia di volte:
sbagliare i nomi. Spesso di fronte a un accento sbagliato o a una pronuncia
ridicola ripetuta per anni, gli studenti alla fine si arrendono. Quando in
classe ci sono ragazzi stranieri capita sempre più spesso. Alla fine lasciano
stare: va bene prof, Volodymir o Vladimir è uguale, Ashraf o Asra, Gherson o
Gerzon, non importa. Alzano le spalle, accettano la storpiatura. Chiamateci
come vi pare.
La pavidità e l’ignoranza che sono mescolate nella decisione di chi oggi in
parlamento non vuole votare la legge sullo ius soli somiglia alla mancanza di
attenzione da parte di un docente che non si prende nemmeno la briga di capire
il nome giusto di chi ha di fronte. Una mancanza di riconoscimento dovuta solo
a uno sguardo pieno di colpevole indifferenza.
La scuola italiana è spesso questa, con alunni da primo banco e quelli da
ultimo banco. Classista e settaria, ce l’hanno raccontata in tanti, i Garrone e i
Franti di Edmondo De Amicis, i Gianni e i
Pierini di don Lorenzo Milani.
Chiunque capitasse nelle classi italiane capirebbe che la legge sullo ius
soli non è un obiettivo ma una condizione
Ma per fortuna la storia della scuola è stata anche costellata da grandi
riforme inclusive, che hanno creato le condizioni che oggi ci sembrano
scontate, dalle classi miste agli insegnanti di sostegno; dai programmi
personalizzati per dislessici ai mediatori culturali per i ragazzi stranieri;
dalla riforma Coppino, che nell’ottocento ha voluto le elementari per tutti, a
quella della scuola media unica del 1962 che aboliva l’avviamento
professionale; fino alle varie leggi che negli ultimi decenni hanno eliminato
le scuole o le classi differenziali per coloro che un tempo anche a scuola si
chiamavano handicappati: se c’è un filo luminoso che mostra i grandi
cambiamenti di civiltà del nostro paese, passa da lì.
Per questo l’assurdo per chi insegna è quello che evidenziava Franco
Lorenzoni in un articolo di
un paio di settimane fa: “Io non posso accettare di avere in classe ragazzi
cittadini e ragazzi che cittadini non saranno mai. È per un motivo educativo e
perfino didattico che mi ribello alla non cittadinanza, perché quella
condizione mina alla base il mio mestiere”.
Facciamo educazione alla cittadinanza a ragazzini che non sono e magari non
saranno cittadini italiani. Che presa in giro è?
Chiunque capitasse nelle classi italiane capirebbe che la legge sullo ius
soli – in realtà una legge timida rispetto a molti altri paesi europei, come ricordava
Annalisa Camilli, che punta sullo ius soli temperato e sullo ius
culturae – non è un obiettivo de iure, ma è la
condizione de facto con cui si fa scuola
tutti i giorni. I docenti non distinguono – non lo vogliono fare, non ha senso
che lo facciano da un punto di vista educativo, ma nemmeno potrebbero farlo –
tra bambini o ragazzi italiani e stranieri. Eppure con calma in questi giorni
sono costretti a togliere un’ora dai programmi per approfondire la questione. A
chiedere: chi di voi non ha la cittadinanza italiana? Che è come dire, chi di
voi sotto i vestiti nasconde una macchia? Per poi provare a chiarire la
differenza tra le varie forme di accesso alla cittadinanza, citare le norme degli
altri paesi europei, definire bene le sottigliezze di una proposta
di legge tutt’altro che radicale.
La fatica che fanno i docenti nello spiegare le questioni legate alla legge
(pensate se si addentrassero nell’esporre le contorte posizioni di Alfano o dei
cinquestelle!) nasce anche dal fatto che nessuno degli studenti che si trovano
di fronte si immaginerebbe mai oggi qualcosa di così anacronistico come lo ius
sanguinis, i diritti di cittadinanza legati al sangue. Un gruppo di
parlamentari di sessanta o settant’anni che decidono per quelli che potrebbero
essere i loro nipoti e che ancora provano a non regolamentare una realtà che è
già ordinaria è ai loro occhi qualcosa di distopico.
Esercizi in classe
Spesso nelle mie classi, con vari ragazzi stranieri o di origine straniera, faccio fare un esercizio: si devono, in coppia, scrivere i nomi degli stati e delle capitali su una cartina muta dell’Europa e del Mediterraneo. Ogni volta sono ore molto istruttive, ogni compagno di banco corregge o fa sbagliare l’altro: “Ma perché ci sono tre pallini sull’Italia?”, “Reykjavik come si scrive?”, “Perché l’Irlanda è divisa in due?”. Seguire venti o trenta ragazzini che cercano di orientarsi nel mondo, confondendo la Slovenia e la Romania, la Serbia con la Svizzera, o ricordandosi le capitali in base a dove ha giocato la Roma in Champions League (“Non le sai perché la Lazio non gioca le coppe!”), o ascoltare il ragazzino d’origine egiziana che dice in romanaccio: “Ahò, questo è l’Egitto, lo saprò dove sta! Ci sono nato!”: tutto questo rivela come è complesso diventare cittadini come vorrebbe la costituzione, essere italiani, romani, europei, o semplicemente contemporanei.
Spesso nelle mie classi, con vari ragazzi stranieri o di origine straniera, faccio fare un esercizio: si devono, in coppia, scrivere i nomi degli stati e delle capitali su una cartina muta dell’Europa e del Mediterraneo. Ogni volta sono ore molto istruttive, ogni compagno di banco corregge o fa sbagliare l’altro: “Ma perché ci sono tre pallini sull’Italia?”, “Reykjavik come si scrive?”, “Perché l’Irlanda è divisa in due?”. Seguire venti o trenta ragazzini che cercano di orientarsi nel mondo, confondendo la Slovenia e la Romania, la Serbia con la Svizzera, o ricordandosi le capitali in base a dove ha giocato la Roma in Champions League (“Non le sai perché la Lazio non gioca le coppe!”), o ascoltare il ragazzino d’origine egiziana che dice in romanaccio: “Ahò, questo è l’Egitto, lo saprò dove sta! Ci sono nato!”: tutto questo rivela come è complesso diventare cittadini come vorrebbe la costituzione, essere italiani, romani, europei, o semplicemente contemporanei.
D’altra parte ai miei studenti, come a chiunque frequenti la scuola, è
evidente che questa è una sfida che si gioca tutta nell’educazione. Una mia
studentessa cinese di qualche anno fa, anche lei senza diritto di cittadinanza,
viveva in Italia da cinque anni e aveva idee molto più elaborate di me su cosa
significasse oggi un’identità legata a un mondo in grande trasformazione: “Io
mi sento cinese in Italia, e italiana in Cina”. E replicava in modo argomentato
quando leggevamo i brani tratti dagli scritti mazziniani del Risorgimento o
dall’Idea di nazione di Federico Chabod. E i miei
studenti che non sono nati in Italia si mettono a ridere o si agitano davanti
al concetto di “tornare al proprio paese”: la ritengono una palese assurdità
che può risultare un’ipotesi da incubo per chi conosce a malapena la lingua o
non sa nulla della situazione culturale e sociale del suo paese d’origine.
Per questi studenti essere cittadini italiani non dev’essere una conquista,
ma una tutela di diritti che hanno già.
Qualche tempo fa spiegavo John Locke in classe e i fondamenti dello stato
liberale. Poi citavo l’articolo 2 della costituzione: “La repubblica riconosce
e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”. Vedete, dicevo, lo stato non li
crea i diritti, voi li avete già, lo stato può solo prenderne atto,
riconoscerli e tutelarli, garantirli. Era logico che quando qualche settimana
dopo abbiamo parlato in classe del dibattito sullo ius soli, qualcuno alzasse
la mano e mi chiedesse conto: prof, ma qui non è l’opposto di quello che
dicevamo l’altra volta?
Se non passa questa legge, ogni lezione di quest’anno, e anche dei
prossimi, sarà piena di queste domande imbarazzanti, alle quali possiamo far
finta di rispondere con un’indifferenza alla quale questi stessi ragazzi
reagiranno con un’indifferenza speculare. Come quando sbagliamo i loro nomi e
ci dicono che non importa, ma sappiamo già quanto stiano imparando a
disprezzare.
da qui
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