(L’ultimo editoriale di Alessandro Leogrande)
Quando nel
2014, dopo anni di gestazione, uscì Belluscone. Una storia
siciliana di Franco Maresco, un film sommamente inattuale su quella
che potremmo definire la rottura antropologica berlusconiana avvenuta in
Sicilia e in Italia, una rottura antropologica che attraversa – anche se in
modi diversi – il sottoproletariato della Vucciria o delle feste di borgate in
cui impazzano i neomelodici tanto quanto la borghesia di viale della Libertà,
in molti dissero che si trattava di un film sul passato. Poco più che un
esercizio di archeologia, dal momento che Berlusconi era già politicamente finito
nel 2011, fuori dal Senato dal 2013, e niente più che un rudere nell’Italia del
renzismo trionfante. “Chi si direbbe oggi berlusconiano?”, chiedevano i critici
di Maresco e – su altro versante – buona parte dei nostri politici, saliti sul
carro del nuovo vincitore o rimasti al cospetto dei suoi bordi.
E invece Maresco aveva ragione e loro torto, perché, in un paese come l’Italia, può capire davvero le sue mutazioni politiche, anche da una posizione radicalmente impolitica, solo chi ne fa antropologia. Chi la riduce a cronaca, a una successione di fatti slegati e messi insieme, nel solito eterno presente che gravita all’interno dei palazzi romani, non riesce più a interpretarla.
Maresco aveva ragione. È stato impossibile non pensarlo, ad esempio, ascoltando una trasmissione di Radio24 sul dopo-voto delle regionali siciliane vinte dal centrodestra raccolto intorno a Musumeci, una trasmissione a microfono aperto in cui molti ascoltatori, nello spazio di pochi minuti, hanno chiamato o scritto in onda per dire: “Io ho votato a Berlusconi. Ho votato a Belluscone”. Musumeci, e le alchimie post-elettorali, erano un semplice dettaglio.
Il voto siciliano (così come quello del microcosmo di Ostia) ha il merito di rivelare in anticipo, e in maniera ancora più estremizzata, ciò che accadrà alle prossime elezioni politiche. Tuttavia, prima di parlare del ritorno di Berlusconi, o del semplice fatto che il carattere berlusconiano non si era mai estinto, bensì si è solo trasformato, occorre fare alcune premesse.
Questa legislatura, quelle delle larghe intese, dell’ingresso del Movimento cinque stelle nelle istituzioni, dell’ascesa e caduta di Renzi, non ha fatto altro che aggravare il distacco tra una società incarognita e ingrigita e la debolezza della politica. Il primo dato da considerare è che la metà degli elettori non va a votare, mentre per l’altra metà che va a votare il primo partito è il Movimento cinque stelle, votato ancora oggi innanzitutto perché è percepito come il partito anti-casta. Quando sarà percepito come usurato anche il M5s, quel voto di protesta prenderà direttamente la strada dell’estrema destra (come avvenuto a Ostia) perché percepita come unica forza anti-sistema – e ancora più anti-sistema, proprio perché apertamente xenofoba e razzista.
L’altra premessa riguarda l’irrilevanza a cui si è ormai condannato il Partito democratico. O meglio, l’entourage renziano. Renzi ha perso il referendum del 4 dicembre 2016 per almeno tre motivi. I primi due di carattere sociologico: il suo linguaggio è stato percepito come distante anni luce in tutte le regioni del Sud Italia, e altrettanto distante dall’elettorato giovanile. Il terzo di natura politica: si è dimostrato incapace di andare al di là della semplicistica idea dell’autosufficienza della propria cerchia ristretta o di un partito sempre più ridimensionato, da controllare da cima a fondo. Quando ha capito che avrebbe dovuto stringere altre alleanze, era ormai troppo tardi: la possibilità di un progetto politico più ampio era già evaporata. Così si sono create le condizioni per il ritorno di Berlusconi. O quanto meno, perché le due forze in grado di contendersi la vittoria siano la destra e i Cinque stelle.
Ma anche qui, sulla scorta del risultato siciliano, occorre fare almeno altre due precisazioni.
La prima riguarda la natura di questo berlusconismo senescente. Berlusconi probabilmente riuscirà a vincere le elezioni esattamente come nel 1994, nel 2001 e nel 2008, mettendo cioè insieme pezzi di centro e di destra talmente diversi tra loro da rendere poi difficile l’elaborazione di una comune azione di governo. Sentire parlare di Salvini al Ministero dell’interno, fa tremare i polsi per le conseguenze che può avere sulla gestione del pacchetto immigrazione, del Mediterraneo, dei centri per i rifugiati, ma in fondo Berlusconi non sta facendo altro che riproporre un meccanismo noto: tenere la presidenza del consiglio per Forza Italia e dare il ministero dell’interno alla Lega.
A essere cambiato non è lo schema, ma la natura del leghismo e del berlusconismo rispetto a vent’anni fa. È come se entrambi avessero perso gli elementi propulsivi di cui comunque si erano nutriti (la rivoluzione televisiva e la politica-spettacolo da una parte; l’autonomismo locale dall’altra) per trincerarsi nell’alveo più conservatore, chiuso, rancoroso del proprio progetto politico: la destra che insegue il sempiterno ventre molle del paese da una parte; il lepenismo anti-stranieri dall’altro. In questo, il berlusconismo che ritorna privo di sogni, ma carico di paure da agitare, riesce a essere ancora una volta specchio fedele del volto più profondo del paese. Il punto è che anche quel volto è cambiato, ed è molto più incarognito, impaurito, chiuso in se stesso più di due decenni fa.
Tuttavia, anche qualora il centrodestra vincesse, con il nuovo sistema elettorale sarà costretto a ulteriori alleanze. E a tali alleanze sarebbero costretti anche gli altri contendenti (Cinque stelle o Centrosinistra), qualora a vincere fossero loro.
Ciò ci dice che la legislatura sarà subito posta davanti a un aut aut: o un nuovo scioglimento, o la creazione di ancora più deboli e sfilacciate larghe intese che non faranno altro che allargare lo iato. Insomma, quello che si delinea – in modo ancora più radicale rispetto all’ultimo decennio – è un crollo del sistema, davanti al quale è sempre più difficile intravedere possibili argini.
Fuori dalla cronaca politica, il crollo era pienamente pronosticabile se solo si fosse spostata l’analisi sul piano culturale. Siamo ormai arrivati al giro di boa dell’estinzione delle culture politiche e post-politiche che avevano fatto la prima e la seconda repubblica. Questo vuoto è stato in parte riempito (con esiti nefasti) dal berlusconismo, in parte da una vera e propria marmellata della comunicazione politica quotidiana da cui è stata bandita ogni forma di pensiero a lungo raggio. Ciò non è accaduto solo in Italia, ovviamente. Ma basta fare un giro in Europa, per accorgersi di come in Italia sia più grave che altrove. Facciamo un esempio: è davvero ipotizzabile che ci possa essere nei prossimi mesi un serio dibattito su cosa l’Italia debba fare o non fare nel Mediterraneo o in Libia? No, non ci sarà niente del genere.
E allora non è poi così irrealistico pensare che la maschera di Berlusconi torni ancora una volta a coprire il vuoto. Ora è facile ipotizzarlo. Era più difficile guardare nelle viscere dell’Italia tre anni fa, quando Franco Maresco l’ha fatto in totale solitudine.
da qui
E invece Maresco aveva ragione e loro torto, perché, in un paese come l’Italia, può capire davvero le sue mutazioni politiche, anche da una posizione radicalmente impolitica, solo chi ne fa antropologia. Chi la riduce a cronaca, a una successione di fatti slegati e messi insieme, nel solito eterno presente che gravita all’interno dei palazzi romani, non riesce più a interpretarla.
Maresco aveva ragione. È stato impossibile non pensarlo, ad esempio, ascoltando una trasmissione di Radio24 sul dopo-voto delle regionali siciliane vinte dal centrodestra raccolto intorno a Musumeci, una trasmissione a microfono aperto in cui molti ascoltatori, nello spazio di pochi minuti, hanno chiamato o scritto in onda per dire: “Io ho votato a Berlusconi. Ho votato a Belluscone”. Musumeci, e le alchimie post-elettorali, erano un semplice dettaglio.
Il voto siciliano (così come quello del microcosmo di Ostia) ha il merito di rivelare in anticipo, e in maniera ancora più estremizzata, ciò che accadrà alle prossime elezioni politiche. Tuttavia, prima di parlare del ritorno di Berlusconi, o del semplice fatto che il carattere berlusconiano non si era mai estinto, bensì si è solo trasformato, occorre fare alcune premesse.
Questa legislatura, quelle delle larghe intese, dell’ingresso del Movimento cinque stelle nelle istituzioni, dell’ascesa e caduta di Renzi, non ha fatto altro che aggravare il distacco tra una società incarognita e ingrigita e la debolezza della politica. Il primo dato da considerare è che la metà degli elettori non va a votare, mentre per l’altra metà che va a votare il primo partito è il Movimento cinque stelle, votato ancora oggi innanzitutto perché è percepito come il partito anti-casta. Quando sarà percepito come usurato anche il M5s, quel voto di protesta prenderà direttamente la strada dell’estrema destra (come avvenuto a Ostia) perché percepita come unica forza anti-sistema – e ancora più anti-sistema, proprio perché apertamente xenofoba e razzista.
L’altra premessa riguarda l’irrilevanza a cui si è ormai condannato il Partito democratico. O meglio, l’entourage renziano. Renzi ha perso il referendum del 4 dicembre 2016 per almeno tre motivi. I primi due di carattere sociologico: il suo linguaggio è stato percepito come distante anni luce in tutte le regioni del Sud Italia, e altrettanto distante dall’elettorato giovanile. Il terzo di natura politica: si è dimostrato incapace di andare al di là della semplicistica idea dell’autosufficienza della propria cerchia ristretta o di un partito sempre più ridimensionato, da controllare da cima a fondo. Quando ha capito che avrebbe dovuto stringere altre alleanze, era ormai troppo tardi: la possibilità di un progetto politico più ampio era già evaporata. Così si sono create le condizioni per il ritorno di Berlusconi. O quanto meno, perché le due forze in grado di contendersi la vittoria siano la destra e i Cinque stelle.
Ma anche qui, sulla scorta del risultato siciliano, occorre fare almeno altre due precisazioni.
La prima riguarda la natura di questo berlusconismo senescente. Berlusconi probabilmente riuscirà a vincere le elezioni esattamente come nel 1994, nel 2001 e nel 2008, mettendo cioè insieme pezzi di centro e di destra talmente diversi tra loro da rendere poi difficile l’elaborazione di una comune azione di governo. Sentire parlare di Salvini al Ministero dell’interno, fa tremare i polsi per le conseguenze che può avere sulla gestione del pacchetto immigrazione, del Mediterraneo, dei centri per i rifugiati, ma in fondo Berlusconi non sta facendo altro che riproporre un meccanismo noto: tenere la presidenza del consiglio per Forza Italia e dare il ministero dell’interno alla Lega.
A essere cambiato non è lo schema, ma la natura del leghismo e del berlusconismo rispetto a vent’anni fa. È come se entrambi avessero perso gli elementi propulsivi di cui comunque si erano nutriti (la rivoluzione televisiva e la politica-spettacolo da una parte; l’autonomismo locale dall’altra) per trincerarsi nell’alveo più conservatore, chiuso, rancoroso del proprio progetto politico: la destra che insegue il sempiterno ventre molle del paese da una parte; il lepenismo anti-stranieri dall’altro. In questo, il berlusconismo che ritorna privo di sogni, ma carico di paure da agitare, riesce a essere ancora una volta specchio fedele del volto più profondo del paese. Il punto è che anche quel volto è cambiato, ed è molto più incarognito, impaurito, chiuso in se stesso più di due decenni fa.
Tuttavia, anche qualora il centrodestra vincesse, con il nuovo sistema elettorale sarà costretto a ulteriori alleanze. E a tali alleanze sarebbero costretti anche gli altri contendenti (Cinque stelle o Centrosinistra), qualora a vincere fossero loro.
Ciò ci dice che la legislatura sarà subito posta davanti a un aut aut: o un nuovo scioglimento, o la creazione di ancora più deboli e sfilacciate larghe intese che non faranno altro che allargare lo iato. Insomma, quello che si delinea – in modo ancora più radicale rispetto all’ultimo decennio – è un crollo del sistema, davanti al quale è sempre più difficile intravedere possibili argini.
Fuori dalla cronaca politica, il crollo era pienamente pronosticabile se solo si fosse spostata l’analisi sul piano culturale. Siamo ormai arrivati al giro di boa dell’estinzione delle culture politiche e post-politiche che avevano fatto la prima e la seconda repubblica. Questo vuoto è stato in parte riempito (con esiti nefasti) dal berlusconismo, in parte da una vera e propria marmellata della comunicazione politica quotidiana da cui è stata bandita ogni forma di pensiero a lungo raggio. Ciò non è accaduto solo in Italia, ovviamente. Ma basta fare un giro in Europa, per accorgersi di come in Italia sia più grave che altrove. Facciamo un esempio: è davvero ipotizzabile che ci possa essere nei prossimi mesi un serio dibattito su cosa l’Italia debba fare o non fare nel Mediterraneo o in Libia? No, non ci sarà niente del genere.
E allora non è poi così irrealistico pensare che la maschera di Berlusconi torni ancora una volta a coprire il vuoto. Ora è facile ipotizzarlo. Era più difficile guardare nelle viscere dell’Italia tre anni fa, quando Franco Maresco l’ha fatto in totale solitudine.