Mi ero ripromesso di non partecipare,
possibilmente nemmeno assistere, alle polemiche anti-curde seminate in rete da
certi sedicenti anti-imperialisti; talvolta di destra, sia dichiarata che
mascherata (“rosso-bruni”) ma altre volte di sinistra. Di sinistra? Sì,
diciamolo pure, talvolta anche di sinistra; del resto abbiamo visto anche di
peggio, nella sinistra, vera o presunta.
Polemiche che stanno però amareggiando la
mente e il cuore di chi deve assistere suo malgrado a questa indecente
propaganda anti-curda e, in secondo ordine, anti-libertaria. Prese di posizione
quantomeno sospette, pretestuose. Polemiche che si autoalimentano con il “botta
e risposta”. Meglio non concimarle, mi dicevo; meglio non farsi trascinare nel
fango e nel tanfo.
Offese incomprensibili – a chi giovano? –
nei confronti di chi sta in prima linea contro il neofascismo (islamico e non).
Come quelle in merito alla partecipazione di anarchici (elegantemente definiti
“piccoli delinquenti”), libertari e lesbiche – ma Ivana Hoffman, andata a
morire eroicamente contro l’Isis, cos’era? – nelle nuove brigate internazionali
che combattono a fianco dei curdi contro l’Isis. (*)
Nel testo di un autoproclamato
“Osservatorio Anticapitalista” si coglieva l’occasione per evocare
maldestramente lo spettro del povero Mackno accusato nientemeno che di
“sionismo” (nel 1920-21?). Dovrebbero spiegarsi meglio, visto che uno dei loro
teorici di riferimento dell’Osservatorio, cioè Leon Trotski, aveva
ripetutamente accusato «il bandito Nestor Mackno» di «antisemitismo».
Delle due l’una. O forse nessuna. (**)
VADA PER I “ROSSO-BRUNI” MA ORA ANCHE
CERTI TROTSKISTI?
C’è un limite a tutto. Dopo le variegate
insulsaggini sparse al vento (in particolare su curdi e anarchici) da siti
irrilevanti, sostanzialmente autoreferenziali, a farmi desistere dal proposito
di non immischiarmi è stato un intervento – peraltro speditomi dagli interessati
– del PDAC (sezione italica della LIT Quarta Internazionale). Qui i curdi del
Rojava vengono accusati di non essersi opposti abbastanza al regime di Assad e
anche di aver conservato una struttura «stalinista-maoista» sostanzialmente
gerarchica, autoritaria; quasi un imprevisto richiamo alla democrazia diretta e
allo spirito libertario.Provenendo dagli epigoni di chi ha poco elegantemente
«buttato nella spazzatura della Storia» i marinai di Kronstadt e i macknovisti
farebbe anche sorridere, se pur amaramente…
Metodi talvolta “autoritari” quelli
adottati da YPG e PKK? Ma perfino i compagni della Colonna Durruti, nel bel
mezzo di un conflitto come quello del 1936-39 in Spagna, si videro talvolta
costretti a usare metodi non filologicamente “democratici”: ma i miliziani
anarchici si trovavano nel mezzo del ferro e del fuoco di una guerra di
liberazione, come appunto i curdi in Rojava e Bakur. E sappiamo bene come si
comportano i reazionari in caso di vittoria: dai massacri indiscriminati di cui
furono vittime i comunardi fino a quelli operati da Franco nel lungo
“dopoguerra”, quello è il loro stile.
Non è di secondaria importanza che
entrambi (sia gli antifranchisti che i curdi) stessero e stiano –
rispettivamente – operando per il superamento di una società fondata sullo
sfruttamento, sull’oppressione, sulla gerarchia, sostanzialmente sul potere (di
capitalisti e burocrati ma anche di commissari politici o cekisti).
Nello stesso articolo diffuso dal PDAC si
ironizza sulla virgolettata da loro «democrazia di base» in Rojava riprendendo
un’intervista a Joseph Daher (un sostenitore dei “ribelli” siriani anti-Assad).
Con argomenti analoghi a quelli già utilizzati dal sopracitato “Osservatorio
Anticapitalista” (magari con intenti diametralmente opposti) questi trotskisti
nostrani mostravano di condividerne il sostanziale disprezzo per il
Confederalismo democratico adottato dalla resistenza curda. Vagamente surreale
poi l’accusa al PYD di aver esautorato i Consigli (l’equivalente dei Soviet)
che prima in Rojava quasi non esistevano se non come aspirazione, tendenza
tradizionale all’autogoverno delle popolazione locali. Quelli della LIT-Quarta
Internazionale per me (dal mio modesto punto di vista sostanzialmente
ecumenico) rimangono a sinistra. Però non posso fare a meno di sottolineare
come la loro accusa nei confronti dei curdi (non essersi opposti abbastanza al
regime siriano di Assad) sia diametralmente opposta alla condanna senza appello
già emessa dal severissimo “Osservatorio Anticapitalista” cioè di non essersi
decisamente schierati a fianco di Assad (ritenuto baluardo di antimperialismo e
antisionismo).
Forse qualcuno (mi consolo: non solo io)
ha le idee un tantino confuse.
Qualche precisazione.
Le brigate di ispirazione anarchica e
libertaria operanti in Rojava – e anche in Bakur – sono organiche a quelle dei
marxisti-leninisti turchi del MLKP (comunisti, fino a prova contraria) a cui si
deve la costituzione nel 2015 della Brigata Internazionale della Libertà (in
collaborazione con le Forze unitarie per la Libertà, il fronte rivoluzionario
MLSPB e Reconstruccion Comunista, quest’ultima spagnola). Quindi perché
polemizzano solo con le componenti libertarie? Cos’è? Coazione a ripetere?
Se la fossero presa soltanto con gli
anarchici, forse avrei lasciato perdere: non sono anarchico e credo non serva
loro un avvocato d’ufficio. Inoltre, forse per ragioni anagrafiche, non coltivo
più troppe speranze sui “domani che cantano”. Eppure, quando qualcuno prova a
rimettere in discussione «lo stato di cose presente» (e il suo indispensabile
corollario: lo Stato) non posso che augurargli la vittoria. Resto convinto che
un giorno, magari fra cento anni, di molti Stati, sistemi economici, ideologie
– e ovviamente anche religioni – perfino il ricordo sarà disperso. Invece
resteranno, non ho dubbi, i popoli. Alcuni almeno, quelli che faticosamente
hanno saputo sopravvivere come Nazioni anche senza Stato. I curdi, appunto. E
magari anche i baschi e gli irlandesi.
Come ha sottolineato recentemente Ali
Çiçek Debattenblog parlando della «terza rivoluzione» (per la cronaca: è con
questa medesima denominazione che i marinai di Kronstadt avevano battezzato la
loro nuova insurrezione nel 1921): «La teorica politica Hannah Arendt nel suo
studio “Sulla Rivoluzione” analizza la rivoluzione francese, quella
americana e altre ancora, per determinare “le caratteristiche fondamentali
dello spirito rivoluzionario”. Le riconosce nella possibilità di iniziare
qualcosa di nuovo, nell’agire comune delle persone. Affronta soprattutto la
questione del perché questo “spirito” non ha trovato una “istituzione” e si è
perso nelle rivoluzioni».
In «Potere e Violenza» Hannah
Arendt aveva poi scritto: «Se io dico: nessuna delle rivoluzioni, delle quali
tuttavia ognuna ha rovesciato una forma di Stato e l’ha sostituita con
un’altra, è stata in grado di scuotere il concetto di Stato, con questo intendo
qualcosa che ho spiegato nel mio libro sulla rivoluzione: dalle rivoluzioni del
18° secolo in effetti ogni grande sconvolgimento ha sviluppato uno spunto di
forma di Stato che indipendentemente da tutte le teorie si determinava a
partire dalla rivoluzione stessa, ossia dall’esperienza dell’agire insieme e
del voler decidere insieme. Questa nuova forma di Stato è il sistema dei
Consigli che, come sappiamo, ogni volta è andato distrutto, annientato o
direttamente dalla burocrazia degli Stati Nazione o dai burocrati di partito».
Concludendo così: «A me però pare l’unica alternativa che sia comparsa nella
storia e che continua a verificarsi».
Effettivamente la formazione spontanea di
Consigli appare come una costante di quasi ogni Rivoluzione, almeno di quelle
autentiche e non manipolate: da quella francese del 1789 alla Comune del 1871;
da quella russa (sia nel 1905 che nel 1917 e poi nel 1921) a Germania e Austria
alla fine della Prima Guerra Mondiale; e in quella ungherese del 1956 che
iniziò dal Consiglio operaio di una fabbrica di lampadine. Ogni volta
spontaneamente, quasi inconsapevolmente. Come se prima di allora eventi simili
mai fossero accaduti.
Ali Çiçek Debattenblog non ha dubbi:
«Annovero la rivoluzione in Kurdistan, con la sua carica esplosiva che ha per
via della sua posizione geograficamente centrale, ma soprattutto per via della
sua concezione di rivoluzione e del suo paradigma sociale, nella serie delle
grandi rivoluzioni dell’umanità». Ma rispetto alle rivoluzione analizzate da
Arendt individua alcune differenze. Innanzitutto il «cambio di paradigma»
operato dal movimento di liberazione curdo e dal suo ideologo Apo Ocalan per
cui «il PKK è riuscito a scuotere il concetto di Stato ed è riuscito a trovare
una “istituzione” per lo “spirito rivoluzionario”, il confederalismo
democratico». Inoltre la formazione di consigli nel Rojava «non si è creata
spontaneamente, ma è stata una decisione consapevole di una forza organizzata».
Per concludere che «il sistema dei Consigli previsto dal movimento curdo si
basa su tradizioni rivoluzionarie consapevoli del Medio Oriente e a livello
globale e su una teoria, ossia quella del socialismo democratico».
Tra le fonti che hanno maggiormente
irrigato l’elaborazione del Confederalismo democratico va ricordato sicuramente
il pensatore libertario Murray Bookchin, in particolare con il suo saggio sulla
Terza rivoluzione: “The Third Revolution: Popular Movements in the
Revolutionary Era”, volume 3. (***) Per Bookchin «la prima
rivoluzione» inizia con l’insurrezione delle masse popolari che scacciano il
vecchio regime. Subentra poi la «seconda rivoluzione» quando la forza politica
si concentra in uno Stato centrale mentre coloro che avevano realizzato la
prima rivoluzione vengono allontanati dai processi decisionali. Fin qui
un’analisi che collima con quanto scriveva nel 1937 il comunista anarchico
Jaime Balius, esponente de Los amigos de Durruti. Non solo. Sembra della stessa
opinione anche Andreu Nin, spesso citato sia dal PDAC che dall’Osservatorio
Anticapitalista. Citato magari indebitamente visto che Nin ancora nel 1934
aveva rotto con Trotski. Fondatore con Joaquin Maurin del POUM, Andreu Nin finì
con il condividere nella sostanza il duro giudizio di Balius sulla
soppressione, di fatto se non di nome, dei Soviet in Russia nel 1921
(repressione di Kronstadt e dei maknovisti). Questo almeno è quanto emerge da
alcuni scritti di Nin. Per esempio su “La Batalla” del 4 marzo 1937 dove
Nin riporta un articolo di Jaime Balius che aveva paragonato la situazione
catalana a quella della rivoluzione francese «quando si chiedeva a gran voce la
sospensione dei Club, e a quello vissuto in Unione Sovietica, quando si reclamò
la soppressione dei Soviet». Sottolineo che Nin riprendeva testualmente,
condividendole, le parole (e i timori) di Balius. Solo due mesi dopo, i noti
eventi di Barcellona in cui vennero assassinati dagli stalinisti sia Nin che
molti militanti della CNT (perfino un fratello di Ascaso) e gli anarchici
italiani Camillo Berneri e Francesco Barbieri.
Tornando a Murray Bookchin, forse il
grande libertario statunitense in materia di “rivoluzioni” peccava leggermente
di ottimismo. Riteneva infatti che dopo la «seconda» dovesse arrivarne (quasi
automaticamente) anche una «terza».
Quando «l’organizzazione democratica delle
società tentava di riconquistare la forza politica perduta». O tentava almeno
di arrestare il Termidoro, l’involuzione burocratica, la militarizzazione… lo
stato di polizia o quantaltro. Questo movimento costituisce appunto la «terza
rivoluzione». Come appunto nel caso di Kronstadt che nel 1921 si rivoltò contro
il monopolio del potere bolscevico rilanciando la parola d’ordine «Tutto il
potere ai Soviet!».
Secondo Ali Çiçek Debattenblog
l’originalità di Abdullah Ocalan consiste nell’aver saputo ridefinire il ruolo
del PKK come «propulsore della terza rivoluzione». Superando la concezione
leninista del partito con «un programma che ha come obiettivo la trasformazione
in una società democratica, libera e ugualitaria, una strategia comune per
tutti i raggruppamenti sociali che hanno interesse in questo programma, e con
una tattica che persegue un’organizzazione ampia di gruppi della società
civile, ambientalisti, femministi e culturali e in questo non trascura la
legittima autodifesa» (di Öcalan vedi «Oltre lo Stato, il Potere e la
Violenza»).
Per quanto mi riguarda sostanzialmente
concordo. Al momento non vedo altre vie d’uscita (realistiche e praticabili)
dalla barbarie del liberismo capitalista nella sua “fase suprema” ormai
dilagante. Sempre che fuoriuscirne sia ancora possibile, naturalmente.
CHI SPARA SUI CURDI SPARA SULLA
RIVOLUZIONE (ANCHE SE FORSE NON LO SA)
Allora chi oggi spara sui curdi e sul
Confederalismo democratico (per ora a salve, ma il maggio 1937 di Barcellona
non lo abbiamo dimenticato) a chi sta sparando in realtà?
Spara sull’esperimento sociale che, qui e
ora, rappresenta forse il tentativo più significativo, tra quanto è umanamente
possibile, di abbattere e superare radicalmente – nei fatti, non solo nelle
intenzioni – l’oppressione, la discriminazione, lo sfruttamento (non solamente
dell’uomo sull’uomo e sulla donna, ma anche sul Pianeta che vive, sulla
“natura” per capirci…). In sostanza: contro le gerarchie e il potere, comunque
inteso.
Questo fuoco incrociato (sia da destra che
da sinistra) è rivolto sul diritto all’autodeterminazione, all’autogoverno,
all’autogestione.
Chi spara sui curdi dunque spara anche sui
Consigli della rivoluzione tedesca; sui Soviet del 1905, del 1917, del 1921;
sulla Telefonica di Barcellona, su Berneri e Nin (maggio 1937), sulle collettività
dell’Aragona (quelle represse da Lister nell’agosto 1937). Spara sugli
zapatisti (sia quelli storici di Emiliano che su quelli di Marcos); sui Lakota
di Cavallo Pazzo e sugli eretici ribelli di Gioacchino da Fiore; sulle donne di
Barcellona sepolte al Fossar (1714), sui proletari asturiani del 1934 e sui
gudaris baschi che si batterono contro Franco. Spara sui ragazzi irlandesi del
Bogside a Derry e su quelli di Falls Road a Belfast; sui palestinesi di Sabra e
Shatila (1982) e anche su quelli di Tel al-Zaatar (1976, per chi ha dimenticato
come andarono le cose). Un elenco pressoché infinito di ribelli caduti
insorgendo contro l’esistente reificato. Non avendo altro da perdere che le
proprie catene e forse qualche illusione… (****)
E spara anche su milioni di vittime
indifese e inermi che non poterono nemmeno ribellarsi. Al massimo tentare,
invano, di fuggire… Come Anna Frank, Sara Gesses e, appunto, Walter Benjanim (*****).
In compenso sparando (sempre
metaforicamente) sui curdi si rischia di alimentare il fatalismo e la
rassegnazione di chi ritiene di dover sempre e comunque affidare servilmente le
proprie sorti, personali e collettive al Potere, a uno Stato (e quindi a
militari, burocrati, capi, guardie, preti, dirigenti, commissari…).
Non credo proprio che questi “cecchini”
anticurdi stiano rendendo un buon servizio alla Rivoluzione sociale comunque
intesa. Tanto meno all’umanità oppressa, umiliata e offesa che, almeno in
Kurdistan, ha osato sollevare la testa.
(*) Ultimamente si è parlato, anche troppo
e talvolta a sproposito delle Brigate LGBT. Ritengo che tale eccessiva
“spettacolarizzazione” (intesa, alla Debord, come forma di mercificazione)
mediatica di queste vere o presunte “Brigate LGBT”, possa fare il paio con
quella sulle donne curde combattenti (tutte “giovani e belle”, eroiche…e poi
dimenticate) di un paio di anni fa. The Queer Insurrection and Liberation Army
(TQILA) era nata come componente di International People’s Guerrilla Forces
(Forze Guerrigliere Internazionali Rivoluzionarie Internazionali). Tale IRPGF è
membro di International Freedom Battalion, la Brigata Internazionale della
Libertà. In turco: Enternasyonalist Özgürlük Taburu; in curdo:Tabûra Azadî ya
Înternasyonal. Questa è l’unità combattente di volontari stranieri (comunisti,
anarchici, socialisti, antifascisti… perfino qualche nostalgico di Enver Hoxha,
ma non formalizziamoci) che ha operato a fianco delle Unità di Protezione
Popolare (YPG) contro le bande dei fascisti islamici dell’Isis. Ripeto: la
Brigata Internazionale della Libertà è stata costituita nel 2015 dal Partito
Comunista Marxista Leninista (MLKP), delle Forze Unitarie per la Libertà (BÖG),
del Fronte Rivoluzionario MLSPB, della formazione spagnola Reconstrucción
Comunista. Quindi, ricordo ancora ai detrattori di cui sopra, originariamente
l’International Freedom Battalion venne organizzata non da anarchici ma
soprattutto da comunisti (marxisti-leninisti) turchi e dichiaratamente si
ispirava alle Brigate Internazionali che combatterono contro il franchismo. Da
segnalare (negativamente) l’intervento di Maurizio Blondet, uno che per 40 anni
ha collaborato con l’editoria di destra. Cristiano integralista e romanista
(non in senso calcistico). Senza remore, Blondet spande carriolate di disprezzo
nei confronti dei militanti di The Queer Insurrection and Liberation Army
definendoli «finocchi». In realtà, a ben guardare, il suo disprezzo va
soprattutto ai comunisti; non sembra essersene ancora accorto chi lo mantiene
come contatto fisso nel suo blog. Questo mentre cita ripetutamente gli
articoli (spesso imprecisi, surreali) del gay dichiarato Thierry Meyssan.
Lapsus rivelatore? E che dire dell’ammirazione per Jorg Haider? Ho visto che in
alcuni articoli Blondet ha legittimamente celebrato la «Giornata del martirio e
dei martiri» in memoria delle vittime cristiane in Siria. Forse bisognerebbe
ricordargli le migliaia di cristiani iracheni che avevano trovato rifugio nel
Kurdistan “iracheno” e quelli salvati dai combattenti del PKK scesi dalle
montagne. Chi ha versato sangue per portare in salvo popolazioni minorizzate
(non mi piace “minoritarie”), sia yazidi che cristiani e alawiti, strappandole
alle grinfie degli integralisti? YPG e PKK hanno difeso anche villaggi
turcomanni, pur essendo stati i turcomanni spesso la longa manus di
Ankara contro i curdi (vedi il massacro nel campo profughi di Atrush nel 1997).
Paradossalmente in questo caso l’Isis, ugualmente alleato di Ankara, li stava
attaccando in quanto… sciiti!?! Quanto al fatto che talora alcune affermazioni
dei personaggi citati siano magari condivisibili, ci riporta all’ovvietà per
cui anche l’orologio rotto due volte al giorno segna l’ora giusta.
(**) In merito all’accusa di
“sionismo” dispensata talvolta gratuitamente e con eccessiva facilità, osservo
soltanto che anche Walter Benjamin (riferimento ricorrente nel sito citato)
prese seriamente in considerazione l’ipotesi di trasferirsi in
Palestina…“Sionista” pure lui? E Primo Levi allora? Del resto c’è chi sospetta
che anche Anna Frank in realtà fosse una “sionista”, magari a sua insaputa.
(***) Un inciso personale. Bookchin
l’avevo ascoltato, sotto al tendone allestito dai compagni anarchici di Mestre,
al Convegno internazionale anarchico di Venezia nel 1984. Avevo poi scambiato
anche qualche battuta (un’amica faceva da interprete, ricordo) ma all’epoca non
lo avevo preso adeguatamente in considerazione. Nella polemica di allora tra
«ecologia profonda» e la sua «ecologia sociale» mi schieravo con la prima.
Peccavo di presunzione ovviamente e mi persi quella che poteva essere una delle
interviste più significative della mia vita.
(****) Per qualche ulteriore
chiarimento, per quanto parziale, vedi su UIKI onlus:http://www.uikionlus.com/guerra-giusta/ ;
e vedi su «Umanità Nova»:http://www.umanitanova.org/2017/10/01/fallacie-e-fandonie/ ma
anchehttp://www.umanitanova.org/2017/10/15/quando-il-mio-nemico-e-nemico-del-mio-nemico/.
Mi vedo costretto a pubblicizzare anche due dei documenti anti-curdi
sopracitati; mi affido al buon senso di chi
legge:http://zecchinellistefano.blogspot.it/2017/10/gli-anarchici-provocatori-e-teppisti-al.html e
https://www.alternativacomunista.it/content/view/2492/1/
(*****) Su Walter Benjamin
suggerisco due letture: «Hannah Arendt -Walter Benjamin, L’angelo della Storia
– Testi, lettere, documenti» e «I Benjamin» di Uwe-Karsten.
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