Intervista
di Dacia Maraini a Giorgio Antonucci
La
Stampa, 26.7., 29 e 30.12.’78 [Questa intervista è stata fatta nel 1978 dalla
scrittrice Dacia Maraini a Giorgio Antonucci allora responsabile del reparto
"agitate" dell’Ospedale Psichiatrico (cioè il Manicomio) di Imola;
Giorgio Antonucci aveva appena finito –in cinque anni- di togliere dalla
clausura e liberare dai metodi coercitivi tali donne; la legge ‘Basaglia’ 180
era stata promulgata da pochi mesi; il luogo de "la Festa" descritta
nella seconda parte dell’intervista è l’ex reparto "agitate"; riferimenti
su Giorgio Antonucci in fondo ]
LA
CONVERSAZIONE
"Gli
istituti psichiatrici chiusi sono dei luoghi di tortura, delle
sepolture...".
Giorgio
Antonucci non ha niente del medico tradizionale, indaffarato, autoritario,
privo di abbandoni che siamo abituati a conoscere. La sua faccia triste esprime
una dolcezza morbida, acuta, quasi dolorosa. I suoi occhi sono pieni di una
timida assorta attenzione.
"Ma
la nuova legge, la riforma ha cambiato qualcosa?", gli chiedo.
"Certo,
ha cambiato in meglio... Ma i medici sono sempre gli stessi di prima e hanno
un’idea punitiva e inquisitiva della psichiatria".
"Quindi
è un po’ come per l’aborto: fatta la legge non si riesce ad applicarla per
l’ostruzionismo di chi tiene il potere negli ospedali".
"E
così infatti... Nel mio caso quei sepolti vivi che dopo cinque anni di lavoro
durissimo avevo riportato alla vita, rischiano di tornare in stato di
prigionia".
"Puoi
raccontare cos’è successo?".
"L’ospedale
in cui lavoro, l’Istituto psichiatrico di Imola, sta cambiando struttura in
seguito alla riforma. E il lavoro che abbiamo fatto coi degenti rischia di
saltare per aria per l’ostilità dei nuovi dirigenti".
"Ma
prima chi ti appoggiava?".
"Io
sono stato chiamato a Imola da Cotti (direttore dell’Istituto) che voleva
cambiare le strutture tradizionali. Ma presto ci trovammo tutti contro, medici
e personale".
"Cosa
facevi di così scandaloso?".
"Per
prima cosa chiesi di lavorare nel reparto dei più pericolosi, i cosiddetti
‘irrecuperabili’ ".
"Irrecuperabili
cioè non guaribili, è questo che vuol dire?"
"Per
i medici tradizionali queste persone hanno un difetto nel cervello quello che
viene chiamato malattia mentale, un difetto che non gli permette di avere una
vita sociale accettabile. Secondo la legge, che ora è stata abolita, erano
segregati perché pericolosi a se stessi e agli altri, propensi a creare
scandalo pubblico".
"Malattia
mentale quindi qualcosa di fisiologico, di interno ?".
"Sì,
più o meno un guasto al cervello, derivante da una debolezza congenita. Secondo
me invece i degenti non hanno assolutamente niente di diverso dagli altri, solo
che si sono trovati in situazioni sociali difficili, di svantaggio nei riguardi
del potere".
"Quindi
per te la cosiddetta malattia mentale è esclusivamente un prodotto
sociale".
"E
nel ‘68 che si è cominciato a discutere pubblicamente sull’esistenza o meno
della malattia mentale. Io ho lavorato con Basaglia nel ‘69. Lui la malattia
mentale la vede come una cosa dinamica che investe le persone meno resistenti.
Per me la psichiatria è un’ideologia che nasconde i problemi reali delle
persone ricoverate. Freud stesso diceva che occupandosi dei conflitti nevrotici
aveva smesso di fare il medico e si era messo a fare il biografo".
"E
cosa pensi di quei conflitti arcaici che si pensa superino i problemi sociali e
mettano radici nel profondo dell’inconscio ?".
"Non
si possono applicare le categorie di Freud ai braccianti calabresi perché Freud
analizza i borghesi dell’Ottocento".
"Quindi
non credi all’universalità del complesso di Edipo, per esempio?".
"No,
decisamente... Il complesso di Edipo, nasce in un certo tipo di famiglia, in
una data situazione, in una data cultura".
"E
quali sono i tuoi metodi di lavoro a cui i medici sono così ostili?".
"Ti
faccio un esempio, quando arrivai a Reggio Emilia incontrai una donna, Santina,
di 40 anni, che lavorava nelle montagne reggiane, era moglie di un muratore,
aveva tre figli, era stata ricoverata molte volte. Per i medici aveva qualcosa
di guasto da curare. Le facevano gli elettroshock. Io andai a parlare con la
famiglia, con lei, col marito. Venne fuori una storia drammatica; Santina era
figlia di contadini, giovanissima aveva fatto la domestica a Genova subendo una
serie di esperienze traumatiche. Poi era tornata al paese, si era sposata. Ma
ogni volta che aspettava un figlio stava male e il marito l’accompagnava
all’ospedale. Qui la riempivano di psicofarmaci e le applicavano gli elettrodi.
Per la famiglia quel suo uscire e entrare dall’ospedale era normale".
"E
guarita poi Santina?".
"Sì...
Intanto ho eliminato gli psicofarmaci e l’elettroshock, poi ho parlato col
marito, col sindaco del paese, coi vicini. Col marito ho avuto una discussione
dura, una lite. Ma dopo le cose sono cambiate. Santina non è più stata
ricoverata e quando è rimasta di nuovo incinta non è stata più male".
"Quindi
analisi della situazione reale in cui vive la persona che sta male più che del
suo inconscio".
"L’atteggiamento
del medico è importantissimo. Non si può avere rapporti di fiducia con persone
che non consideri uguali a te. I medici trattano i ricoverati come degli
inferiori e loro rispondono con la violenza o l’apatia".
"Mi
dicevi che hai lavorato soprattutto in reparti di donne...".
"Le
donne spesso sono dentro per ragioni di costume, per avere trasgredito la
morale comune. A Imola ho liberato una donna che era stata internata perché
ragazza madre. Da 26 anni stava legata al letto. Le ho chiesto perché l’avevano
chiusa. E lei mi ha detto: "Perché sono schizofrenica". Ho insistito
chiedendole perché secondo lei era stata chiusa. E alla fine mi ha detto:
"Perché mi piacciono gli uomini". Testuale. Dopo un anno di lavoro
l’ho dimessa. Il problema spesso è di trovare qualcuno che le accolga. Lei per
fortuna aveva un fratello che l’amava e l’ha accolta in casa.
"Da
un libro che è uscito nelle Edizioni delle donne infatti risulta che la maggior
parte delle donne vengono internate per trasgressioni ai doveri sessuali o
casalinghi, cioè per rifiuto del ruolo tradizionale".
"Quando
io entrai nel reparto delle irrecuperabili i medici mi ridevano dietro. C’erano
donne legate da dieci, venti anni, che non erano più capaci di parlare, di
camminare, di mangiare. Io le slegai. Tutti si aspettavano la catastrofe. Fra
l’altro c’era stato il precedente di un medico che aveva dato l’ordine di
slegarle e poi se ne era andato. Le donne, abituate alla costrizione, con tutta
l’angoscia che avevano dentro, appena slegate hanno cominciato a picchiarsi. E
subito naturalmente le avevano rilegate".
"E
tu come hai fatto?".
"Io
le ho slegate, ma non tutte insieme, due per volta e poi stando
presente,
parlando con loro, con le infermiere. Poi feci aprire le porte,
levare
le inferriate. Il reparto era
chiuso
come una fortezza. Infine fra lo scandalo dell’istituto, le feci uscire nel
parco. Il lavoro più duro era, giorno per giorno, ridare loro la fiducia in sé,
la capacità di essere indipendenti".
"E
ci sei riuscito?".
"Dopo
tanti anni di letto, legate mani e piedi da cinture di pelle, la camicia di
forza e qualche volta, come ho visto addosso a una contadina che aveva
l’abitudine di sputare una specie di museruola di plastica che le chiudeva la
bocca, si facevano tutto addosso, non volevano vestirsi, non camminavano. Non
riuscivano neanche a mangiare—molte avevano i denti davanti spezzati sia per
gli elettroshock che per l’uso dello scalpello quando si rifiutavano di aprire
la bocca—avevano i muscoli atrofizzati. Era come fare rivivere dei morti".
"E
il personale come reagiva?".
"Le
infermiere prima avevano paura, paura delle malate—abituate ad essere legate
come cani quando venivano slegate in effetti mordevano—paura dei medici che le
consideravano delle serve e anche le usavano come terreno di caccia. Da
principio quindi hanno fatto difficoltà ma poi credo che sia stato un sollievo
anche per loro".
"E
quanti reparti hai aperto con questo sistema?".
"Dopo
il 14, il più difficile, ho aperto il l0 e poi il 17 maschile, anche quello
considerato irrecuperabile. Nel frattempo è cambiato qualcosa, altri reparti
provavano ad aprirsi, anche se a metà".
"E
ora?".
"Ora
con la riforma, Cotti non è più direttore dell’Istituto psichiatrico, le
sezioni dipendono dal primario. E questo primario non crede assolutamente ai
metodi che uso io. Lui è per i vecchi sistemi dell’elettroshock, della camicia
di forza, degli psicofarmaci e i centoquarantasette degenti che ora stanno
slegati rischiano di tornare in cattività".
"Cosa
si può fare per evitarlo?".
"Parlarne,
fare sapere alla gente come stanno le cose. Quando io ho detto alla madre di
quella donna che stava legata da 20 anni che sua figlia non avrebbe mai dovuto
essere ricoverata, si è messa a piangere: "A me nessuno mi aveva mai detto
una cosa simile". La gente non sa si affida ai medici e non immagina che
la maggior parte dei casi sono dovuti a conflitti facilmente risolvibili. I
medici, anziché guarirli, li puniscono, li legano, li rendono
inoffensivi...".
"Fanno
i poliziotti insomma anziché i guaritori".
"Legare
una donna per venti anni a un letto vuol dire ucciderla. . . ".
"Quindi
queste donne dimostrano una grande forza non facendosi distruggere del
tutto...".
"Infatti...
Se le avessi viste quando sono uscite nel parco la prima volta... Rovinate Come
sono, coi denti rotti, i muscoli atrofizzati, la lingua inarticolata... Erano
felici ed esprimevano questa felicità con grande vitalità. Tornare a legarle sarebbe
un crimine".
Credo
che non ci sia bisogno di commenti a questo dialogo con Antonucci. Io stessa
l’anno scorso qui a Roma ho seguito un esperimento di un gruppo di ragazzi che
hanno "liberato" degli handicappati. Costoro prima (chiusi e
rimpinzati di pillole) non parlavano, non mangiavano da soli, e non potevano
uscire. Dopo un anno di lavoro in comune giravano il quartiere da soli,
andavano a lavorare, discutevano, partecipavano, decidevano come gestire i
soldi, ecc... E non si tratta di beneficenza ma di una migliore convivenza di
tutti. Rinchiudere e legare chi appare diverso è come chiudere e legare una
parte di noi, forse la migliore, certamente la più carica di originalità e di
sensibilità.
LA
FESTA
E’
un sabato freddo. La neve spalata ai bordi della strada si scioglie lentamente
colando acqua nera. A Imola ci sono tre gradi sotto zero. Le gomme della
macchina scivolano sopra uno strato di brina ghiacciata. Chiedo dell’ospedale
della Scaletta. Mi indicano un alto muro dietro al quale si alzano dei blocchi
gialli. Chiedo del padiglione 10. E laggiù, mi dicono. Imbocco un vialetto
corto e largo fiancheggiato da grossi ippocastani e posteggio accanto ad un
autobus celeste.
Una
volta aperta la porta del reparto mi trovo in una sala lunga e stretta affollata
di gente. In fondo sotto un affresco di mari ondosi su cui navigano barche
dalle vele rosse, ci sono i ragazzi dell’Aquila venuti qui per suonare. Fra
l’orchestra e la porta tante sedie con tanti ricoverati donne e uomini. La
festa l’hanno organizzata loro, con l’aiuto del dottor Antonucci e degli
infermieri.
Una
donna vestita di giallo e di lilla mi abbraccia e mi bacia sulle due guance.
Un’altra donna magra, senza denti, i capelli scarmigliati, gli occhi
splendenti, un sorriso mesto, si siede accanto a me e mi spiega, con gesti e
parole scombinate ma piene di entusiasmo, cosa ha sognato la notte scorsa. La
musica di Mozart, con la sua armonia esplosiva dilata gli spazi, entra in
queste facce contratte segnate dalle torture trasformando la bruttezza in
bellezza, si fa liquido delicato piacere.
I
ragazzi dell’orchestra con le loro barbe, i loro blue jeans, i loro capelli
lunghi suonano, impetuosamente brandendo i corni, i violoncelli gli oboi.
Alcuni dei degenti si mettono a ballare. Altri ascoltano a bocca aperta,
facendosi cullare dalla meraviglia di quelle note. Una donna mi invita a
ballare. E’ bassa, robusta, ha i capelli neri ispidi che le circondano la
faccia dai tratti marcati. Le mancano i denti davanti, come a tante altre; ha
gli occhi brillanti, un’espressione di testarda ilarità che la rendono
infantile nonostante i suoi anni.
Balliamo
come due orsi, in un abbraccio goffo e pesante. Più tardi saprò che questa
donna è stata legata per anni, e che quando il reparto era chiuso non riusciva
a parlare, a mangiare da sola, sputava addosso a chiunque le si avvicinasse,
rifiutava i vestiti e le scarpe. Ora balla, parla, mangia, cammina come una
persona qualsiasi.
Nessuno
aveva pensato in tanti anni che proprio nel suo sputare stava il segno della
sua integrità: anziché diventare un vegetale come volevano i medici, si
accaniva a protestare, nel solo modo che le era ormai possibile, contro la
prigionia. Sottoposta agli elettroshock (ne ha fatti più di 50), piena di
psicofarmaci, legata mani e piedi col bavaglio sulla bocca, era oggettivamente
una "idiota". Ora è tornata ad essere una persona intelligente.
Passa
una infermiera con un vassoio pieno di paste. Gli occhi dei ricoverati si
fissano avidi su quei pasticcini. Come per tutti i reclusi il cibo è diventato
sacro: nel cibo si cerca affetto. soddisfazione sessuale, magia. Il cibo,
soprattutto i dolci ricordano al recluso che il suo corpo esiste anche per
provare dei piaceri, che la sua pancia non è solo un sacco in cui si cacciano
le minestre e le medicine per mantenersi in vita, ma è anche un posto dove
lasciare scivolare qualcosa di assolutamente inutile, forse anche dannoso, ma
quanto capriccioso, tenero e amabile! Un ricoverato che stava per uscire torna
indietro, posa religiosamente la giacca su una sedia e aspetta con pazienza che
il vassoio arrivi da lui. Una donna si asciuga la bocca con cura meticolosa,
posa il bicchiere di carta pieno di aranciata sotto la sedia, si sporge in
avanti, pronta a ricevere la sua parte.
Piero
Colacicchi, uno degli artisti che collaborano col dottor Antonucci, mi chiede
se voglio fare un giro per gli altri padiglioni. Dico di sì. Usciamo nel freddo
di un crepuscolo celeste e argento. Camminiamo in mezzo agli ippocastani, ai
tigli, alle acacie profumate fra i fabbricati tutti uguali dell’ex ospedale
psichiatrico. Molte finestre sono illuminate. Dietro le finestre si intravedono
delle facce bianche, attonite. Bussiamo a una porta. Ci viene ad aprire una
infermiera con un grosso mazzo di chiavi alla vita. Nella sala ci sono una
quarantina di donne chiuse dentro grembiuli grigi tutti uguali. Ci assale un
tanfo di disinfettante, misto a cibo ordinario e sudore che dà il capogiro. Tre
infermiere robuste, pratiche, piene di buon senso e di allegria ci mostrano il
dormitorio con i letti perfettamente puliti, allineati uno accanto all’altro,
il refettorio con le tavole coperte da tovaglie di plastica a quadri. Qui
dormono, qui mangiano, qui si riposano. Tre grandi sale in cui convivono
quarantacinque donne di tutte le età. I gabinetti sono 4, i bagni due, i
lavandini 6. La porta di ingresso è chiusa a chiave. Le finestre sono sbarrate.
La differenza coi reparti aperti si sente subito. Lì i ricoverati si sentono
padroni di sé, qui sono proprietà di coloro che li controllano, li puniscono.
Lì sono vestiti di tutti i colori con roba che hanno scelto loro; qui portano
divise che mortificano i loro corpi e li rendono tutti uguali. Lì sono
ascoltati come persone che hanno avuto delle difficoltà con l’ambiente in cui
vivevano ma non per questo hanno perso la capacità di capire e sentire: qui
sono trattati con la bonomia paternalistica di chi decide per loro, agisce per
loro, pensa per loro. Le infermiere non possono non fare ciò che i medici
dicono loro di fare. La loro personalità viene fuori clandestinamente nei
rapporti a tu per tu con le degenti, e sono rapporti fatti di crudeltà e di
dolcezza come tutti i rapporti non liberi. Esse si fanno volentieri mamme a
volte tenerissime e cordiali, a volte violente e sadiche. Non possono, perché
non gli è permesso e nessuno gliel’ha insegnato, avere un rapporto da pari a
pari. In un altro padiglione chiuso di soli uomini noto che il movimento
avviene tutto per linee orizzontali. Mentre le donne girano in cerchio gli
uomini vanno su e giù tracciando delle parallele sul pavimento logoro. Un
ragazzo mi mostra una scatola di cartone in cui tiene chiuso il suo segreto.
Vuole che tocchi la scatola ma non devo aprirla. Ha le orecchie come due
riccioli di carne. E sordo e muto. E guarda con due occhi dolorosi e lontani.
Un altro si presenta compito, saluta, si ravvia i capelli, dice alcune frasi
cerimoniose, risaluta, si allontana. Hanno qualcosa di spettrale, di spento
che, ora capisco, è dovuto soprattutto agli psicofarmaci. Dal padiglione
maschile chiuso passiamo a quello aperto. L’atmosfera è subito diversa:
confusione, vocio, disordine, colori. Ci viene incontro un uomo mezzo nudo che
si muove a quattro zampe. Il peso del corpo gravita tutto sulle due grosse mani
callose. Le spalle sono da lottatore; le gambe, atrofizzate, molli e
rattrappite, se ne stanno ciondoloni senza forza. Quest’uomo è stato chiuso e
legato da quando aveva otto anni. Oggi ne ha quaranta e solo da poco è libero
di muoversi come vuole. Si guarda intorno torvo e risoluto; il candore gli
illumina le guance. Nello sguardo c’è il ricordo truce di chi è stato costretto
a farsi scimmia per sopravvivere. Torniamo alla festa nel padiglione aperto
delle donne. Ora molti dei ricoverati chiacchierano con quelli dell’orchestra
facendo ressa attorno agli strumenti, toccandoli provandoli. La maggior parte
delle seggiole solo vuote. Il pavimento è cosparso di bicchieri di carta. C’è
un’atmosfera di eccitazione languida di fine festa, un calore diffuso che
appanna i vetri e lustra le guance dei ricoverati.
Prima
di andare via, ormai è l’ora di cena, visitiamo il dormitorio dove alcune donne
sono rimaste a letto perché malate. Ci accolgono con battute scherzose,
allegramente, salvo una che soffre di acuti dolori alla pancia e mugola piano
rannicchiata nel suo cantuccio. Le pareti sono coperte di stampe colorate,
disegni, fiori, stelle. Una ragazza in vestaglia va e viene portando dei dolci.
Mentre
i ragazzi del Gruppo da camera dell’Aquila rinfoderano i loro strumenti e i
pittori che collaborano alle iniziative culturali (fra cui Luca Bramanti che ha
dipinto molti degli affreschi qui) si preparano a tornare a casa, faccio
qualche domanda ad Antonucci. Per prima cosa gli chiedo perché, visto il buon
risultato che lui ha ottenuto, non si fa la stessa cosa negli altri padiglioni.
"Prima
di tutto perché è molto faticoso - risponde Antonucci con la sua voce quieta,
dolce - mi ci sono voluti cinque anni di lavoro durissimo per ridare fiducia a
queste donne; cinque anni di conversazioni, di presenza anche notturna, di
rapporto a tu per tu. Però non si tratta di una tecnica, ma di un diverso modo
di concepire i rapporti umani " . "In che consiste questo metodo
nuovo per quanto riguarda i cosiddetti malati psichici?"
"Per
me significa che i malati mentali non esistono e la psichiatria va
completamente eliminata. I medici dovrebbero essere presenti solo per curare le
malattie del corpo. Storicamente da noi la psichiatria è nata nel momento in
cui la società si organizzava in modo sempre più rigido, e aveva bisogno di
grandi spostamenti di mano d’opera. Durante queste deportazioni fatte in
condizioni difficili, ostili molte persone rimanevano disturbate, confuse, non
producevano più bene e quindi c’era l’esigenza di metterle da parte. Rosa
Luxemburg dice: "Con l’accumulazione del capitale e lo spostamento delle
persone si allargano i ghetti del proletariato". Nel ‘600 in Francia
quando si forma la monarchia assoluta (lo Stato), i manicomi venivano chiamati
"luoghi di ospizio per persone povere che disturbano la comunità". La
psichiatria è venuta dopo come copertura ideologica. Nel trattato di
psichiatria di Bleuler che è l’inventore del termine schizofrenia è detto che
schizofrenici sono coloro che soffrono di depressioni, che si immobilizzano o
girano intorno ossessivamente per il cortile. Ma che altro potevano fare così
reclusi? Infine Bleuler conclude senza volere, comicamente: "Sono così
strani che alle volte assomigliano a noi". "Insomma tu dici che la
malattia mentale non esiste ma esistono dei conflitti sociali di fronte a cui
alcune persone più fragili o più oppresse soccombono."
"Sono
i medici spesso che fanno il malato. Ti faccio un esempio che mi è capitato
recentemente a Firenze. Un bambino mancino viene sgridato dalla maestra perché
"diverso" dagli altri. Il maestro di musica fa notare che l’allievo
non batte bene il tempo. Il bambino comincia a sentirsi inferiore agli altri si
rifiuta di andare a scuola. La madre ne parla con la maestra che le dice:
"Suo figlio è anormale, lo faccia vedere da un medico" e la manda al
Centro di igiene mentale. Lì uno psichiatra le dice che il figlio ha dei
disturbi di "lateralità", che va curato. Per caso a questo punto
vengono da me. Dico alla madre che il bambino è sanissimo e ha il diritto di
scrivere con la mano che vuole. Così lei va dalla maestra e finalmente difende
i diritti del bambino".
"Era
un bambino ricco o povero?
"Il
fatto è proprio questo: il bambino era di una famiglia che non conta e gli
insegnanti avevano un atteggiamento di discriminazione sociale. Ti faccio un
altro esempio: una donna sposata con un operaio, ha due bambini, fa la
casalinga, non si intende bene col marito, comincia a soffrire di insonnia, di
angosce, di paure. Sta male, dimagrisce, è nervosa. Il medico le consiglia di
andare al Centro di igiene mentale. Lei si rifiuta di prendere gli psicofarmaci
che le propongono; e allora la mandano all’ospedale civile dove gli
psicofarmaci è costretta a prenderli per forza. Il trattamento sanitario è una
violenza non serve a niente".
"Alla
Scaletta si fanno ancora gli elettroshock?". "Non più. Da quando
Cotti è entrato come direttore sono stati eliminati l’elettroshock e altre
forme più vistose di tortura" . "E gli psicofarmaci e il letto di
contenzione?". "Gli psicofarmaci sono ancora usati largamente. In
quanto al letto di contenzione, se il ricoverato non disturba viene lasciato a
se stesso ma se disturba, lo si lega. Nei miei reparti (sono tre) ho abolito da
tempo sia gli psicofarmaci che la contenzione. Da me se due litigano, li si
lascia litigare. Da dieci anni che lavoro non ho mai fatto un ricovero
obbligato, per me il ricovero obbligato è una deportazione". "E la
nuova legge in che modo ha cambiato le cose qui dentro?". "Di fronte
alla legge ora si verificano tre situazioni diverse: la prima riguarda quelli
che già sono dentro le istituzioni psichiatriche, i lungodegenti; verso costoro
la legge permette l’uso di vecchi metodi repressivi (quasi ovunque ancora si
usano elettroshock, corsetti, detenzione e psicofarmaci); la seconda riguarda
le persone al centro di conflitti nel territorio, per le quali la legge ammette
l’uso di psicofarmaci per renderle innocue (vedi le ragazze che vengono rimpinzate
di tranquillanti perché non escano la sera o perché non si droghino, o non
pratichino il sesso); la terza riguarda le persone che non si riescono a
controllare con psicofarmaci e per cui la legge prevede che vengano mandate
all’ospedale civile dove saranno sottoposte al trattamento sanitario
obbligatorio. In tutti i casi la linea del metodo psichiatrico è di tenere le
persone sottomesse sotto controllo".
"Qual
è secondo te l’alternativa?".
"L’alternativa
sta nell’identificare i diritti individuali delle persone nella situazione
sociale e storica in cui vivono e nell’ottenere il consenso e la partecipazione
attiva della comunità attraverso i comitati di quartiere, i consigli di
fabbrica, le scuole". "Insomma sei d’accordo con Pirella (*) quando dice
che ‘bisogna adottare iniziative precise per la formazione professionale dei
ricoverati, occorre garantire loro il diritto di avere una casa’ ".?
"Certo sono d’accordo. Però mi sembra che il discorso di Pirella non è del
tutto chiaro. Mi sembra di capire che lui comunque vuole mantenere un certo
tipo di assistenza psichiatrica. Mentre io sono per abolirla del tutto".
(*)
[Nota attuale di No!Pazzia]: Agostino Pirella, braccio destro di Franco
Basaglia a Trieste, poi direttore del manicomio di Arezzo che ha 'aperto';
figura di spicco di 'Psichiatria Democratica' negli anni 80-00, non ha mai
-insieme del resto a tutti gli epigoni basagliani- sostanzialmente messo in
discussione la psichiatria medica - che noi fossimo 'malati' da 'medicare'-;
quasi sempre i malati sono stati trattati - nei loro reparti psichiatrici ma
anche fuori dalle dislocazioni sul territorio cioè a casa - a dosi più o meno
massicce di farmaci antipsicotici a tempo indeterminato, quasi sempre di fatto
a vita, di fatto avvilenti la volontà e deterioranti il corpo e la mente. Non
guariti ma drogati !
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