1.No, qui non parleremo di squali che divorano
naufraghi, e di squali dell’informazione che contribuiscono
ad accrescere l’indifferenza degli italiani.Magari cerchiamo di comprendere
come si continui a morire in mare, sulla rotta del Mediterraneo centrale,
mentre le ONG sono state allontanate per la maggior parte e il numero delle
persone che riescono a raggiungere le nostre coste è in sensibile calo. Appare
ormai evidente come gli accordi con le
autorità di Tripoli conclusi il 2 febbraio scorso, e
poi ratificati dalla Conferenza de La Valletta
a Malta il giorno successivo, abbiano avuto l’effetto di
consentire alla Guardia costiera tripolina di estendere la sua area di
intervento alle acque internazionali, con un ripristino unilaterale della zona
SAR ( ricerca e salvataggio) che in passato spettava allo stato libico, e con
una serie impressionante di interventi di soccorso, sovente costellati di
“incidenti” e vittime, con operazioni che in realtà si
traducevano nella riconduzione dei migranti nei porti libici della Tripolitania.
Dove i “naufraghi”venivano accolti da uomini armati, ma anche da uno
schieramento di operatori tra i quali spiccavano le uniformi dell’OIM,
per essere successivamente internati nei centri di
detenzione, in attesa di una loro espulsione dalla Libia.
Rimpatri volontari ma anche espulsioni vere e proprie. Magari verso il Niger verso il
quale si convogliavano ingenti risorse europee al fine di favorire le politiche
di deportazione. Anche queste sostenute dall’Italia, nel quadro del Processo di Khartoum.
Dopo la condanna subita dall’Italia con la sentenza
della Corte europea dei diritti
dell’Uomo sul caso Hirsi Jamaa del 23 febbraio 2012 ( per i
respingimenti eseguiti il 6/7 maggio 2009 dalla Guardia di finanza, con l’unità
Bovienzo che nel porto di Tripoli riconsegnava alla polizia libica decine di
migranti soccorsi in acque internazionali), i diversi governi italiani, con la
sola eccezione del governo Letta e dell’operazione Mare Nostrum nel 2014,
hanno costantemente tentato di eludere il divieti stabiliti dalla Convenzione
Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo ( in particolare dagli articoli 3
e 13 e dall’art. 4 del Quarto Protocollo allegato alla stessa CEDU, concernente
il divieto di respingimenti collettivi). Nel 2010 si era trovata un intesa con
le autorità di Tripoli aventi ad oggetto il trasbordo in acque internazionale
dei migranti soccorsi da unità militari italiane e riconsegnati alle
motovedette nel frattempo fornite ai libici. Più di recente questi tentativi di
elusione si sono concretizzati con gli accordi contenuti
nel Memorandum d’intesa del 2 febbraio 2017, che
seguono a precedenti intese del 2012 e del 2016, rivolti ad esternalizzare il
controllo delle acque internazionali, che i libici non hanno mai presidiato in
corrispondenza alla zona SAR che sulla carta veniva indicata di loro competenza
.
Gli accordi firmati tra
Gentiloni e Serraj quest’anno delegano alla Guardia costiera libica, chiamata
ad intervenire sulla base di un più stretto coordinamento operativo stabilito
da un comitato misto
italo-libico, una buona parte degli interventi di soccorso in
acque internazionali, che lo scorso anno venivano effettuati dalle navi delle
ONG, sotto il coordinamento della Guardia Costiera italiana. Per raggiungere
questo risultato si è dovuto prima allontanare le navi umanitarie e dividere il campo delle
ONG, con la imposizione di un codice di condotta
predisposto dal ministero dell’interno. Si è poi portato
avanti un lavoro di criminalizzazione degli operatori della solidarietà, che si
è concretato in furiose campagne giornalistiche, ancora di recente
riattivate, e in iniziative giudiziarie, come il sequestro
della nave Juventa della ONG Jugend rRettet a Trapani, con
il successivo avviso di garanzia a comandante della nave Vos Hesta di Save The
Children, nave che, dopo avere assolto il ruolo di Sar Coordinator sulla rotta
del Mediterraneo centrale, veniva ritirata anche a seguito di una perquisizione
effettuata sulla stessa nave nel porto di Catania.
Sono note a tutti, ormai, le sorti dei migranti
riportati in Libia, molti dei quali, una volta usciti o
trasferiti dai centri di detenzione ufficiali, incappano nelle bande di
miliziani che controllano ogni commercio illecito, di esseri umani, come
di armi e petrolio, per finire nelle “connecting house” o
nei centri informali, gestiti direttamente dalle milizie. Non occorrevano certo
le inchieste dei giornalisti della CNN, erano
anni che gli operatori umanitari
italiani denunciavano inascoltati le sevizie inflitte a tutti i migranti in
transito in Libia. Sarebbe tempo che il governo di Tripoli,
se davvero controlla un qualsiasi territorio, nel quale comunque ci sono
migliaia di internati, tra questi anche donne e minori, sia tenuto a
rispondere del mancato rispetto dei
diritti umani delle persone che contribuisce a bloccare in mare ed a detenere a
terra, ridotte sempre più spesso a merce di scambio. Una
responsabilità condivisa, questa della riconduzione a terra, come si vedrà, con
le autorità dei paesi titolari delle zone SAR confinanti con la pretesa zona
SAR libica.
La situazione dei migranti intrappolati in Libia, che
non appare certo risolvibile con l’invio di
alcune ONGembedded italiane, per
umanizzare il disumano, per “migliorare” la
condizione delle persone trattenute in qualche centro di detenzione (tre),
dovrebbe costituire un primo parametro per cancellare definitivamente la
distinzione tra migranti economici e richiedenti asilo, nella prospettiva ( che
respingiamo) della esternalizzazione del diritto di (chiedere) asilo. Cosa fa davvero
l’Italia per porre fine alla condizione di detenzione arbitraria e di abusi ai
danni dei migranti intrappolati in Libia ?
La stessa situazione, ogni giorno più grave, di
sevizie inflitte ad uomini, donne e bambini, oggetto di stupri sistematici e
di torture senza fine, per
estorcere il prezzo del riscatto, o altrimenti oggetto di un vero e proprio
mercato, tra le diverse milizie, deve essere richiamata per qualificare
le prassi di cooperazione operativa, ormai stabilite a regime, tra la
cd.Guardia Costiera libica, che risponde al governo Serraj , la Marina militare
italiana, il Comando centrale della Guardia costiera (MRCC). Appare evidente
che gli accordi bilaterali tra governo Gentiloni e governo Serraj non possono
avere trasformato i porti libici in quel “place of safety”
che le convenzioni internazionali sul diritto del mare impongono come luogo di
sbarco per i migranti soccorsi in acque internazionali. Nessuno oggi può
ritenere che il governo Serraj sia in grado di garantire l’incolumità delle
persone che la sua Guardia costiera ferma in mare e riporta a terra, spesso
dopo una serie impressionante di incidenti, avvenuti guarda
caso sempre quando sopraggiunge la motovedetta tripolina che
dovrebbe portare i “soccorsi”. I corsi di
formazione svolti ai libici a bordo delle navi dell’Operazione Sophia di
EUNAVFOR MED, e poi perfezionati con la Guardia di finanza
italiana, non sembra abbiano sortito quel salto di professionalità necessario
per un effettivo e soprattutto tempestivo rispetto degli obblighi di soccorso
specie in acque internazionali, come risulta di tutta evidenza che le sei
motovedette che sarebbero state ripristinate dagli italiani, e restituite ai
libici, non possono che garantire una parziale copertura di una parte assai
limitata delle acque costiere libiche. E’ altresì un fatto notorio che dopo
la disfatta delle milizie
che controllavano la zona di Sabratha, una volta principale
punto di partenza, e per qualche mese, dopo gli accordi con le autorità
italiane, luogo di blocco, le partenze sono riprese con una frequenza sempre
più intensa da una serie di punti d’imbarco che si è allargata per centinaia di
chilometri ad est e ad ovest di Tripoli.
Sembra dunque accertata, persino all’interno delle
acque territoriali la incapacità della Guardia costiera libica ad operare
interventi di ricerca e salvataggio in conformità alle prescrizioni delle
Convenzioni internazionali. Eppure, con gli accordi del 2 febbraio scorso,
proprio con quella Guardia costiera le autorità italiane hanno stretto intese,
fornito assistenza tecnica e instaurato un rapporto di stretta cooperazione
operativa, incentrato su una unità di coordinamento
italo-libica, basata nel porto di Tripoli. Questa Unità di
coordinamento interagisce con il Comando centrale del Corpo delle
capitanerie di porto (MRCC), autorità competente per gli interventi SAR nelle
acque internazionali ricadenti nella zona SAR italiana, ma anche nelle zone SAR
confinanti, libica e maltese, quando sia localizzato un mezzo carico di persone
in situazione di pericolo, dunque con elevato rischio di affondamento. Un mezzo
che andrebbe soccorso con la massima tempestività al fine di salvaguardare la
vita umana in mare, qualora sia evidente che i mezzi dei paesi che sarebbero
responsabili per la propria zona SAR non sono in grado di intervenire nei tempi
richiesti, per evitare tragedie con morti e dispersi, come quelle che si
continuano a verificare.
Negli ultimi giorni abbiamo assistito a due episodi
che confermano la gravità delle conseguenze delle intese
di cooperazione operativa concluse con la Guardia costiera di Tripoli a febbraio,
e successivamente perfezionate con l’invio di una nave militare italiana nel
porto di Tripoli, con funzione di manutenzione tecnica delle motovedette
restituite nel frattempo ai libici, ma anche con una evidente destinazione di
coordinamento delle attività SAR che si delegavano alla stessa Guardia costiera
tripolina al di fuori delle acque territoriali (12 miglia).
Prima, una imbarcazione della
ONG SOS Meditarreneè, nave Aquarius, è stata bloccata in acque internazionali,
mentre si stava accingendo ad operare, con la tempestività richiesta dal caso,
un soccorso di alcune imbarcazioni, partite dalla costa
libia, intercettate in acque internazionali, per le quali si è atteso l’arrivo
di una motovedetta libica che a più riprese ha ricondotto i migranti a terra,
sotto gli occhi della nave umanitaria,
costretta ad assistere al “soccorso”. Che in realtà ha richiesto
molto più tempo di quanto sarebbe occorso per portare in sicurezza i migranti,
se si fosse consentito alla nave Aquarius la prosecuzione delle attività SAR
che erano già state intraprese sotto il coordinamento del Comando centrale
della guardia costiera di Roma. Si può dire dunque che i migranti nelle prime
fasi di queste attività in acque internazionali erano sotto la giurisdizione
esclusiva delle autorità italiane,e che in una seconda fase sono stati
“passati” alla Guardia costiera di Tripoli.
Negli stessi giorni si verificava un naufragio
dalle circostanze molto sospette, davanti alle coste di Garabouli, località
ad est di Tripoli, ormai diventata un’altro punto di imbarco dei disperati che
diverse organizzazioni criminali, ben confuse tra le milizie, fanno partire a
scadenze periodiche, approfittando del miglioramento del tempo, o più spesso,
del diradamento dei controlli a terra, come in mare. Se il naufragio è avvenuto
in acque internazionali, non si può escludere che il compito di coordinamento
spettava all’unità mista italo-libica basata nel porto di Tripoli, di concerto
con il Comando MRCC della Guardia costiera di Roma. Se
lo stesso naufragio fosse avvenuto in acque territoriali ( i principali media
riferiscono circa venti chilometri dalla costa, che guarda caso sono circa
dodici miglia dalla costa) costituirebbe l’ennesima prova della incapacità
della Guardia costiera libica a garantire la salvaguardia della vita umana in
mare, o quanto meno ad intervenire tempestivamente e con mezzi
appropriati. Quando intervengono i
libici non sono predisposte quelle attrezzature di salvataggio,
come gommoni di servizio e giubbetti salvagente, che invece sono impiegati su larga scala
dalle ONG e dalla Guardia costiera italiana, con una serie di
procedure che consentono di ridurre al minimo il numero delle vittime. Non si può
negare poi che i migranti “soccorsi” dalle motovedette libiche, con la
prospettiva di essere rigettati nei centri di detenzione nei quali già hanno
subito ogni genere di violenza, preferiscano mettere a
rischio la vita gettandosi in mare, piuttosto che essere
riportati al’inferno.
Questi i fatti, dal punto di vista del diritto
internazionale, pesantissime le
responsabilità per tutti coloro che non garantiscono un soccorso immediato, nel
più breve tempo possibile, una volta che sia individuata, meglio che
intercettata, una imbarcazione carica di persone in pericolo.E
che si tratti di mezzi inidonei a proseguire la navigazione, oltre che in
imminente pericolo di affondare, non può essere escluso da nessuno, né dai
procuratori della Repubblica, né dai vertici della Guardia costiera, quando
bloccano l’intervento di una nave di soccorso delle ONG che si trova più
vicina, per dare tempo ad una motovedetta libica di raggiungere il mezzo
intercettato, ormai fermo in acque internazionali. L’obiettivo di riportare
indietro a terra un certo numero di migranti in fuga dalla Libia non può
prevalere sullo scrupoloso rispetto delle regole di diritto internazionale che
impongono a tutti, militari e civili, di operare gli interventi di soccorso in
acque internazionali nel più breve lasso di tempo possible. E se nelle
acque territoriali libiche non fossero garantiti soccorsi altrettanto
tempestivi costituirebbe reato, non tanto l’ingresso nelle acque territoriali,
quanto il mancato soccorso tempestivo, che potrebbe comunque configurare una
omissione ( di soccorso) vera e propria.
Quando il comando di
interruzione delle attività SAR in acque internazionali viene impartito ad una
nave privata di una ONG che si trova più vicina al mezzo da
soccorrere, o che addirittura che ha già intrapreso la stessa attività di
soccorso, sulla base di una precedente sollecitazione ricevuta dal Comando
centrale MRCC di Roma, allora non si può escludere che in quella fase le
persone a bordo del battello da soccorrere, come le persone a bordo della nave
umanitaria, si trovino sotto esclusiva competenza e giurisdizione italiana. La
circostanza che le stesse persone, bloccate a bordo di un gommone ormai non più
nelle condizioni di proseguire la rotta, o di fare ritorno al punto di partenza
sulla costa, vengano poi “prese in carico” dal mezzo della Guardia costiera
libica che sopraggiunge successivamente, costituisce di fatto una “riconsegna”
di quelle stesse persone dalle autorità italiane alle autorità libiche, e
dunque un vero e proprio respingimento
collettivo, vietato dall’art. 4 del Quarto Protocollo allegato alla Convenzione
Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, alla
quale l’Italia rimane comunque soggetta, anche quando i suoi agenti operano in
acque internazionali, o come nel caso Hirsi, nel territorio di uno stato terzo.
2.Gli accordi bilaterali
conclusi tra Italia ed autorità libiche di Tripoli, al di là della dubbia
legittimità formale, non possono modificare la portata cogente delle
Convenzioni internazionali che regolano le attività di ricerca e soccorso in
mare. Quegli accordi che violino quanto prescritto dalle Convenzioni sarebbero
illegittimi e determinerebbero la responsabilità di chi li ha sottoscritti e vi
ha dato esecuzione. Resta da chiarire, e se ne dovrà fornire documentazione, la
configurazione della catena di comando che lega le autorità SAR di Roma e l’unità di coordinamento
italo-libica, basata a Tripoli, per quanto sembrerebbe, a bordo della nave
Tremiti della Marina militare italiana. Un coordinamento
operativo già previsto dai Protocolli Italia-Libia
del dicembre 2007, poi ulteriormente specificato nelle
intese concluse il 2 febbraio 2017, seppure
con il governo Serraj, che ha una caratterizzazione
territoriale ben diversa da quella dello stato libico al tempo di
Gheddafi, in origine contraente con l’Italia. Circostanza che dovrebbe
fare riflettere molto sulla correttezza delle procedure seguite per giungere
alle ultime intese e sulla parzialità dei risultati che si potranno attendere.
Il ricorrente richiamo alla Convenzione ONU contro il
crimine transnazionale firmata a Palermo nel 2000 , ed ai Protocolli allegati
alla stessa, contro il traffico di esseri umani e contro la tratta, non
permette di derogare con accordi bilaterali Convenzioni internazionali di rango
superiore, come le Convenzioni internazionali di diritto del mare e le
Convenzioni a salvaguardia dei diritti della persona, come la CEDU. Una
argomentazione, quella della derogabilità delle Convenzioni per effetto
di accordi bilaterali, già utilizzata dal governo italiano nel 2012,
davanti alla Corte Europea dei diritti
dell’Uomo sul caso Hirsi,concluso poi con un totale rigetto
delle tesi difensive italiane e dunque con la condanna. Una condanna che oggi
si cerca di aggirare.
Secondo l’art. 98 della Convenzione ONU sul diritto
del mare (UNCLOS) che sancisce gli obblighi di prestare soccorso
1. Ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri:
a) presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo;
b) proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto, nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa;
c) presti soccorso, in caso di abbordo, all’altra nave, al suo equipaggio e ai suoi passeggeri e, quando è possibile, comunichi all’altra nave il nome della propria e il porto presso cui essa è immatricolata, e qual è il porto più vicino presso cui farà scalo.
2. Ogni Stato costiero promuove la costituzione e il funzionamento permanente di un servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima e aerea e, quando le circostanze lo richiedono, collabora a questo fine con gli Stati adiacenti tramite accordi regionali.
1. Ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri:
a) presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo;
b) proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto, nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa;
c) presti soccorso, in caso di abbordo, all’altra nave, al suo equipaggio e ai suoi passeggeri e, quando è possibile, comunichi all’altra nave il nome della propria e il porto presso cui essa è immatricolata, e qual è il porto più vicino presso cui farà scalo.
2. Ogni Stato costiero promuove la costituzione e il funzionamento permanente di un servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima e aerea e, quando le circostanze lo richiedono, collabora a questo fine con gli Stati adiacenti tramite accordi regionali.
Il suddetto obbligo prescinde dal regime giuridico
della zona di mare in cui viene prestato il soccorso, nel senso che lo stesso
può esplicarsi tanto in alto mare quanto nella zona economica esclusiva o nella
zona contigua di uno stato diverso da quello di bandiera. Il soccorso a persone
o navi in pericolo è altresì possibile nelle acque territoriali straniere (art.
18 co. 2 Conv. UNCLOS), operando, quindi, una sorta di deroga al principio del
“passaggio continuo e rapido” previsto dal regime del transito inoffensivo, e
ciò ferma restando la competenza esclusiva dello Stato costiero sia per il
coordinamento delle operazioni di soccorso sia per l’intervento di mezzi
specificatamente adibiti a prestare assistenza a navi in difficoltà
Gli accordi regionali ai
fini delle attività SAR devono essere orientati esclusivamente alla salvaguardia della vita
umana in mare e non all’obiettivo di ricondurre verso il porto di partenza il
maggior numero di persone per impedire loro magari, se soccorse da mezzi battenti
bandiera diversa da quella libica, di essere sbarcati in un porto europeo, in
particolare in un porto del paese che ha coordinato le operazioni di ricerca e
salvataggio(SAR). In nessun caso la ridefinizione delle zone SAR tra
stati confinanti può incidere sul diritto al libero passaggio in acque
internazionali, e persino territoriali, che spetta a qualsiasi nave, purché non
persegua scopi illeciti. Appare comunque evidente che una modifica delle zone
SAR deve essere notificata all’IMO, circostanza che nei rapporti tra Italia e
Libia non risulta da alcun documento, e che gli accordi del 2 febbraio 2017
stipulati dall’Italia, con i precedenti accordi e protocolli che vi sono richiamati,
tra la parte libica e la parte italiana, non modificano le zone SAR segnate
sulle carte dell’IMO.
Basta leggere le intese stipulate tra Italia e Libia
nel febbraio del 2017 e le intese operative che
richiamano, risalenti addirittura al dicembre del 2007, poi
ratificate dal Trattato di amicizia tra
Berlusconi e Gheddafi dell’agosto del 2008, per cogliere come la
finalità principale perseguita dai diversi governi italiano era costituita
dalla esternalizzazione delle attività di ricerca e soccorso alle autorità libiche,
autorizzate impropriamente ad intervenire in acque internazionali, anche
senza avere ottenuto un riconoscimento ufficiale da parte dell’IMO
(Organizzazione marittima internazionale) della zona SAR di propria competenza.
Non si può realisticamente ritenere che il governo di Tripoli sia legittimato a
rappresentare l’intero stato libico, ormai praticamente spezzato in almeno due
parti costiere, per quanto riguarda la delimitazione di una zona SAR e la predisposizione delle relative attività di ricerca e salvataggio. Sono
purtroppo le stragi che continuano a ripetersi nelle acque territoriali libiche
o, nei casi di intervento della guardia costiera di Tripoli ,in acque
internazionali, che confermano la inesistenza di una vera zona Sar libica, che
non può certo essere frutto di un accordo bilaterale che non ha ricevuto
neppure ratifica dai rispettivi parlamenti nazionali.
Abbiamo peraltro assistito a documentati casi di intervento violento della
Guardia costiera libica in acque internazionali, con grave pregiudizio degli
operatori umanitari già impegnati in attività di soccorso e dei migranti, che
in alcune occasioni venivano materialmente sequestrati, pur di impedire di
raggiungere il mezzo che li stava soccorrendo. Rimane da accertare in questi
singoli casi quale sia stato e se ci sia stato un coordinamento operativo
italo-libico, o se questi casi si siano verificati proprio per il sovrapporsi
dei livelli decisionali, conseguenza dell’assenza di regole obiettive
riconosciute o riconoscibili dagli organismi internazionali della navigazione
(IMO) . Certo l’addestramento dei
libici i Italia non sembra garantire significativi progressi nella tutela dei
diritti fondamentali delle persone intercettate in alto mare.
Occorre a tale riguardo soffermarsi sulla Convenzione
di Amburgo del 1979 sulla ricerca ed il salvataggio in mare. In particolare, al
punto 2.1.1. la Convenzione stabilisce che le parti contraenti provvedano
affinché vengano prese le disposizioni necessarie al fine di fornire alle
persone in pericolo in mare i servizi di ricerca e di salvataggio. Al punto
2.1.4 la Convenzione prevede che le zone di ricerca e di salvataggio vengano
delimitate mediante accordo tra le Parti contraenti. Al punto 2.1.7 della
Convenzione si legge che la delimitazione delle regioni di ricerca e
salvataggio non è legata a quella delle frontiere esistenti tra gli Stati e non
pregiudica in alcun modo dette frontiere. Al punto 2.1.9. la Convenzione stabilisce
che nel caso in cui le Parti contraenti vengano informate che una persona è in
pericolo in mare, in una zona in cui una parte contraente assicura il
coordinamento generale delle operazioni di ricerca e di salvataggio, le
autorità responsabili di detta parte adottano immediatamente le misure
necessarie per fornire tutta l’assistenza possibile. Al punto 2.2.1. la
Convenzione stabilisce che le Parti contraenti adottano le misure necessarie al
coordinamento dei mezzi richiesti per fornire dei servizi di ricerca e
salvataggio al largo delle loro coste.
Lo svolgimento del servizio di ricerca e soccorso
disciplinato dal DPR 662/1994 con cui è stata recepita la Convenzione di
Amburgo rientra nella competenza primaria del Ministero delle Infrastrutture e
trasporti (MIT) che si avvale del Corpo delle Capitanerie di Porto/Guardia
Costiera (Corpo che, come noto, “dipende dalla Marina Militare”) secondo quanto
previsto anche dall’art. 134, 2, b del Codice dell’Ordinamento Militare (COM).
Lo stesso DPR attribuisce al Comando Generale del Corpo
delle Capitanerie di Porto(Maricogecap) la qualifica di organismo
nazionale che assicura il coordinamento generale deiservizi di soccorso
marittimo (IMRCC — Italian Maritime Rescue Coordination
Center nell’ambito dell’intera regione di interesse italiano
sul mare (Zona SAR) e tiene contatti con i centri
di coordinamento del soccorso degli altri Stati.I
Le autorità di uno Stato costiero competente sulla
zona di intervento in base agli accordi regionali stipulati, le quali abbiano
avuto notizia dalle autorità di un altro Stato della presenza di persone in
pericolo di vita nella zona di mare S.a.r. di propria competenza, sono tenute
ad intervenire immediatamente senza tener conto della nazionalità o della
condizione giuridica di dette persone (punto 3.1.3 Conv. Amburgo). L’Autorità
competente così investita della questione deve accusare immediatamente ricevuta
della segnalazione e indicare allo Stato di primo contatto, appena possibile,
se sussistono le condizioni perché sia effettuata l’intervento (3.1.4 conv.).
Sarà l’autorità nazionale che ha avuto il primo contatto con la persona in
pericolo in mare a coordinare le operazioni di salvataggio tanto nel caso in
cui l’autorità nazionale competente S.A.R. dia risposta negativa alla
possibilità di intervenire in tempi utili quanto in assenza di ogni riscontro
da parte di quest’ultima. La cessione della competenza ad operare interventi
SAR in acque internazionali non si può tradurre nel pregiudicare gravemente i
destini e le stesse vite delle persone che si devono soccorrere.
In precedenza la Convenzione SOLAS del 1974 aveva
previsto che gli Stati parte organizzassero meccanismi
di comunicazione e coordinamento in situazione di distress in mare nelle loro «rispettive aree di responsabilità» e per il salvataggio di persone in pericolo «intorno alle loro coste» (Cap. V, regola 7). Nonostante la nozione di distress sia chiaramente definita a livello convenzionale, alcuni Stati come Malta esprimono tuttavia divergenti interpretazioni sugli obblighi SAR in casi in cui un’imbarcazione sia priva di requisiti di navigabilità ma non avanzi richiesta di soccorso. Non risulta che la Libia di Gheddafi, e tantomeno il governo Serraj abbiano ratificato questi emendamenti, e dunque mancano le basi per una delega alle autorità libiche di attività SAR da parte delle competenti autorità italiane (MRCC), soprattutto con intese bilaterali che non vengono ratificate da organismi internazionali come l’IMO e che rimangono sul piano degli accordi di polizia per la cooperazione operativa nelle attività di contrasto dell’immigrazione irregolare.
di comunicazione e coordinamento in situazione di distress in mare nelle loro «rispettive aree di responsabilità» e per il salvataggio di persone in pericolo «intorno alle loro coste» (Cap. V, regola 7). Nonostante la nozione di distress sia chiaramente definita a livello convenzionale, alcuni Stati come Malta esprimono tuttavia divergenti interpretazioni sugli obblighi SAR in casi in cui un’imbarcazione sia priva di requisiti di navigabilità ma non avanzi richiesta di soccorso. Non risulta che la Libia di Gheddafi, e tantomeno il governo Serraj abbiano ratificato questi emendamenti, e dunque mancano le basi per una delega alle autorità libiche di attività SAR da parte delle competenti autorità italiane (MRCC), soprattutto con intese bilaterali che non vengono ratificate da organismi internazionali come l’IMO e che rimangono sul piano degli accordi di polizia per la cooperazione operativa nelle attività di contrasto dell’immigrazione irregolare.
L’I.M.O. (International Marittime Organisation) nel
maggio 2004 ha adottato due emendamenti alla Convenzione internazionale per la
sicurezza della vita in mare del 1974 (SOLAS) ed a quella di Amburgo (SAR):
emendamenti entrati in vigore il 1.7.2006 con lo scopo di integrare l’obbligo
del comandante di prestare assistenza con un corrispondente obbligo a carico
degli Stati competenti per la regione SAR di cooperare nelle operazioni di
soccorso e di prendersi in carico i naufraghi individuando e fornendo al più
presto, la disponibilità di un luogo di sicurezza (place of safety) inteso
come luogo in cui le operazioni di soccorso si intendono concluse e la
sicurezza dei sopravvissuti garantita.
Come si vede si tratta di meccanismi assai complessi,
di notifica e di presa in carico da parte di un paese, piuttosto che di un
altro, delle responsabilità di ricerca e soccorso. Meccanismi che con
imbarcazioni che possono affondare in pochi attimi hanno avuto e continuano
avere un costo umano elevatissimo. In passato anche tra stati appartenenti
all’Unione Europea queste trafile hanno comportato una perdita di tempo che è
costata la vita a centinaia di persone, come nel caso del naufragio dell’11 ottobre
2013 a sud di Malta, per il quale si sta procedendo a Roma
contro i più alti vertici del tempo della Guardia costiera e della Marina
italiana.
L’istituzione di una zona SAR è intrinsecamente
subordinata alla circostanza che lo Stato parte della Convenzione sia in grado
di garantire l’operatività continua ed efficace dei servizi SAR nell’area di
propria competenza. In particolare, lo Stato si impegna a istituire un Centro e
dei Sotto-centri di coordinamento,
a designare delle unità costiere di soccorso, a disporre di strutture, mezzi navali e aerei, centri di telecomunicazione di soccorso e personale adeguato (da un punto di vista quantitativo e qualitativo).
La Convenzione di Amburgo chiarisce che un servizio SAR, per essere efficace, deve essere gestito e sostenuto adeguatamente oltre a essere integrato in uno specifico contesto normativo. La Libia, o meglio il governo di Triplo soddisfano queste condizioni ? Se non le soddisfano con quale legittimazione internazionale si può dare esecuzione agli accordi stipulati tra il governo Serraj ed il governo Gentiloni il 2 febbraio 2017 ed ai precedenti Protocolli operativi che richiamano ? La Convenzione di Amburgo 1979 non precisa quali debbano essere i limiti spaziali delle zone SAR ma pone in risalto, in linea con l’Unclos, che deve esservi un rapporto
tra l’estensione delle zone SAR e le capacità dei servizi SAR del Paese responsabile. La Libia di Serraj non controlla che una minima parte delle coste libiche, e questo deve incidere sulla interpretazione dei rapporti convenzionali esistenti, perché se si ritenesse ancora la Libia come un paese unitario, sfuggirebbero le prospettive non solo della Libia, ma anche dei paesi europei del Mediterraneo centrale ( Malta ed Italia), con ripercussioni su tutti gli altri.
a designare delle unità costiere di soccorso, a disporre di strutture, mezzi navali e aerei, centri di telecomunicazione di soccorso e personale adeguato (da un punto di vista quantitativo e qualitativo).
La Convenzione di Amburgo chiarisce che un servizio SAR, per essere efficace, deve essere gestito e sostenuto adeguatamente oltre a essere integrato in uno specifico contesto normativo. La Libia, o meglio il governo di Triplo soddisfano queste condizioni ? Se non le soddisfano con quale legittimazione internazionale si può dare esecuzione agli accordi stipulati tra il governo Serraj ed il governo Gentiloni il 2 febbraio 2017 ed ai precedenti Protocolli operativi che richiamano ? La Convenzione di Amburgo 1979 non precisa quali debbano essere i limiti spaziali delle zone SAR ma pone in risalto, in linea con l’Unclos, che deve esservi un rapporto
tra l’estensione delle zone SAR e le capacità dei servizi SAR del Paese responsabile. La Libia di Serraj non controlla che una minima parte delle coste libiche, e questo deve incidere sulla interpretazione dei rapporti convenzionali esistenti, perché se si ritenesse ancora la Libia come un paese unitario, sfuggirebbero le prospettive non solo della Libia, ma anche dei paesi europei del Mediterraneo centrale ( Malta ed Italia), con ripercussioni su tutti gli altri.
Nel caso dei rapporti con il governo di Tripoli la
questione è ancora dubbia perché non si comprende in base a quale pretesa i
libici ( Governo Serraj), dopo gli accordi del 2 febbraio scorso, avevano inizialmente
annunciato di estendere la propria zona SAR fino a 80 miglia dalla costa,
minacciando qualunque nave che avesse provveduto entro quel limite a compiere
attività SAR. In una seconda fase, a partire dal mese di settembre, senza che
gli accordi del 2 febbraio fossero modificati, sembra che il Comando della
Guardia Costiera (MRCC) di Roma abbia riaffermato la sua giurisdizione quanto
meno su quella parte delle acque internazionali distanti almeno trenta miglia
dalla costa libica, ma gli incidenti non sono mancati per la diffusa incertezza
su quale fosse l’autorità SAR competente a gestire i diversi interventi. Come
non sono chiari i rapporti, che andrebbero appurati in sede di indagine
internazionale, tra l’Unità di coordinamento italo libica basata a Tripoli, le
diverse milizie a terra, ed il Comando centrale della Guardia Costiera di Roma
(MRCC).
In ogni caso, i poteri-doveri d’intervento e
coordinamento da parte degli apparati di un singolo Stato nell’area SAR di propria
competenza non escludono, sulla base delle norme su indicate, che unità navali
di diversa bandiera possano iniziare il soccorso quando l’imminenza del
pericolo per la vita umana lo richieda. E che tutte le persone imbarcate a
bordo dei gommoni fatti salpare dalla costa libica si trovino in imminente
pericolo di vita lo confermano quasi tremila vittime che si sono registrate
quest’anno, malgrado la relativa diminuzione delle partenze e degli sbarchi. Se
una unità navale privata in acque internazionali inizia una attività di ricerca
e soccorso sotto il coordinamento del Comando centrale di Roma (MRCC), questa
attività non si può interrompere per il sopraggiungere di una motovedetta
libica. Che potrà semmai contribuire alle attività SAR, ma trattandosi di
oooperazione coordinata dalle autorità SAR italiane, va esclusa qualsiasi
possibilità di diversione dalla rotta e di riconduzione dei migranti in Libia.
L’esercizio delle prerogative di intervento per
attività SAR e nel controllo delle frontiere marittime non può prescindere in
nessun caso dall’assoluto rispetto nel diritto internazionale dei rifugiati ed,
in particolare, nel divieto di refoulement previsto
dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra. Se nelle attività di ricerca e
salvataggio si verifica una fase nella quale le persone individuate in una
situazione di distress si trovino in acque
internazionali, e siano le autorità italiane ad avere ricevuto la chiamata di
soccorso ed avere assunto la responsabilità dell’intervento SAR, magari
indirizzando una nave civile o una nave umanitaria di una ONG, la chiamata per
la “presa in carico” di unità navali appartenenti ad un paese terzo, ancorché
non firmatario della Convenzione di Ginevra, come la Libia, seppure nella più
limitata articolazione territoriale del governo di Tripoli, configura un grave
illecito internazionale a carico delle autorità italiane. In questo modo
infatti si espongono persone già duramente vessate o torturate nel paese
dal quale sono salpate, alla concreta possibilità di essere respinte nelle
stesse località, ed in mano alle stesse milizie dalle quali hanno subito gli
abusi più terribili. Le “garanzie diplomatiche” eventualmente offerte dal
governo Serraj non possono effettivamente assicurare che le persone riportate
in Libia non subiscano ancora gli abusi più gravi, attesa la ridotta fetta di
territorio libico che le autorità di Tripoli riescono a controllare,
soprattutto dopo l’avanzata delle milizie riconducibili al generale Haftar.
Si deve quindi ribadire che, a fronte dei moduli e
degli assetti operativi discendenti dalle intese stipulate il 2 febbraio del
2017 tra il governo di Tripoli ed il governo italiano, occorre continuare con
la raccolta di testimonianze, tra le persone che hanno subito uno o più
respingimenti,delegati alle motovedette libiche, e che magari, dopo diversi
tentativi, sono riusciti a raggiungere il territorio italiano. In base a queste
testimonianze, ed a quelle eventualmente raccolte in Libia, se le organizzazioni
umanitarie smetteranno di assecondare i governi e daranno veramente voce alle
vittime, come avvenne nel 2009 sul caso Hirsi/Italia, si potranno redigere uno
o più atti di accusa da rivolgere ai tribunali internazionali, come la Corte
Europea dei Diritti dell’Uomo, se sarà possibile promuovere ricorsi
individuali, per violazione dell’art, 3 e 13 della CEDU e dell’art. 4 del
Quarto protocollo allegato alla CEDU (Divieto di respingimenti collettivi), o
alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, per violazione dell’art. 19 della
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Divieto di respingimenti
collettivi). Non si tratta semplicemente di riaffermare diritti che sono stati
violati, spesso a costo della vita di centinaia di persone, occorre arrivare ad
una sanzione esemplare che impedisca che questi comportamenti abusivi
proseguano in futuro con un costo sempre più elevato in termini di vite umane.
A fronte di una opinione pubblica che ormai appare indifferente, se non
apertamente complice, rispetto alla morte in mare, alle torture ed agli abusi
di ogni genere inflitti ai migranti “soccorsi” in acque internazionali e
ripresi dalle diverse milizie libiche, dopo l’intervento della Guardia costiera
di Tripoli. Una “presa in carico” richiesta sempre più spesso dalle autorità
italiane, come i fatti e le denunce di queste ultime settimane stanno
provando.. Nessuno può stare ad assistere a tutto questo, senza diventare
complice.
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