(appare qui con due mesi di ritardo, purtroppo è sempre vero)
La “Nuova Scuola”: la base per fabbricare cretini
Un elenco sufficientemente completo delle
novità che attendono studenti, insegnanti e lavoratori della scuola nell’anno
scolastico 2017-2018 lo ha pubblicato Il Sole 24 ore. Un
meritorio articolo di
Claudio Tucci ci ricorda, in ordine alfabetico, che, dall’Abilitazione all’insegnamento ai Vaccini obbligatori l’anno scolastico
appena iniziato dovrebbe essere un tourbillon di cose nuove,
talune inedite, altre conseguenza diretta di più di quindici anni di cosiddette
“riforme”.
Ad esempio, proseguirà, con
incremento dei fondi disponibili, l’“alternanza scuola-lavoro”.
Non piace né agli studenti né agli insegnanti? C’è qualche insegnante
retrogrado che afferma che diminuire le ore di insegnamento a causa
dell’alternanza va a danno di ciò che si apprende? Vaste schiere di studenti
lamentano l’inconcludenza dei loro stage lavorativi?
Pazienza, a tutto si cercherà di ovviare.
Allo stesso modo, nonostante le molte e
ragionevoli critiche, continuerà il Bonus al merito: il giornalista ci informa
che “lo scorso anno i premi sono stati un po’ troppo di manica larga:
hanno ottenuto un bonus tra i 600 e i 700 euro oltre 247mila prof, il 35%
dell’intero corpo docente”. Va da sé che, qualora la
percentuale di insegnanti “meritevoli” fosse davvero del
35%, le scuole imploderebbero domani stesso. Ogni altra
considerazione sull’insensatezza di un bonus “al merito”
l’abbiamo già fatta e sono certa che i colleghi, in larga maggioranza, pensano
che a scuola conti la
collaborazione e non la corsa al “bonus”.
Alla voce Esami,
novità per gli esami di terza media (la più rilevante è il fatto che la prova
Invalsi venga scorporata dall’esame e collocata in corso d’anno), ma ancora
nulla di nuovo per la Maturità, che cambierà soltanto nel 2018/2019. La discussa
prova Invalsi diviene requisito per l’ammissione all’Esame di Stato ma non
influisce sul voto finale.
Quest’anno continua il
tormentone delle scuole aperte anche di pomeriggio: a tal fine
sono stati stanziati 187 milioni, cui sono da aggiungere parte dei fondi (830
milioni) stanziati per 10 bandi per una scuola “più aperta, inclusiva e
innovativa”. Che begli aggettivi!
Altri 150 milioni di euro vengono stanziati per la scuola digitale; abbiamo recentemente appreso che si cercherà anche di
regolamentare, a colpi di circolari, l’uso di smartphone e
di cellulari in possesso degli studenti. Rispetto a questo punto il ministro
(la ministra, pardon) Fedeli si è già
luminosamente espressa: Il telefonino “è uno stumento che facilita
l’apprendimento”, “una straordinaria opportunità
che deve essere governata”. Se proprio non vogliamo essere tranchant come Luca Pisano, psicoterapeuta ed
esperto di cyberbullismo (che afferma: “la
scuola tecnologica delega la funzione del pensare a un oggetto. Questa è la
base per fabbricare cretini a scuola…”), qualche dubbio in più
della nostra ministra noi insegnanti ce l’abbiamo. Sappiamo da anni che il
cellulare è tra i nostri peggiori nemici, un’arma di distrazione potentissima,
contro la quale può ben poco l’appealdell’insegnante.
Personalmente considererei altri legalize it meno
pericolosi della legalizzazione del telefonino a scuola: messo su un piatto
della bilancia tutto quello che i “nativi digitali”
sanno fare e sull’altro quello che non sanno più fare, mi pare che il risultato
sia preoccupante. Spero soltanto che le boutadedi una ministra poco
competente smuovano una riflessione seria sul mito delle nuove tecnologie
applicate alla didattica.
Così come spero che la sperimentazione
della riduzione a quattro anni del percorso di istruzione superiore sia
un flop. In quattro anni non si impara quello che si impara in cinque e
la tendenza a mettere tra parentesi il fattore “tempo” quando si
parla di educazione ed apprendimento è quanto mai perniciosa. D’altra
parte, un
Paese con un tasso di disoccupazione al 40,1% nella fascia compresa tra i 15 e
i 24 anni (dati di fine dicembre 2016) che urgenza ha (fatta
eccezione per un netto risparmio sulla spesa per l’istruzione: si calcola che
la riduzione a quattro anni porterebbe a tagliare 40.000 cattedre) di fare uscire prima
dalla scuola superiore i ragazzi? Sottolineo che la
riduzione delle superiori a quattro anni è un vecchio progetto, iniziato in
sordina ai tempi di Gelmini e poi proseguito in modo carsico attraverso gli
anni, per approdare infine alla sperimentazione Fedeli.
Chiudono le “novità” di quest’anno i vaccini obbligatori: che tristezza! La penosa e pietosa vicenda che vede l’Italia
capofila dal 2014 per le strategie e le campagne vaccinali nel mondo, secondo
la decisione del Global Health Security Agenda, è
un esempio di protervia ed insensatezza governativa cui hanno fatto da contorno
compiacenti giornalisti e sedicenti scienziati che hanno escluso il dubbio
dalle loro pratiche mentali. Fare in modo che la disputa opponesse la fazione
dei pro-vax ai no-vax ha determinato il fatto che si perdesse di vista il buon
senso, che non si richiedessero collettivamente, come invece si doveva fare,
motivazioni per il passaggio da 4 (quattro) vaccini obbligatori a 10 (dieci!).
Cosa dobbiamo pensare noi cittadini? Che sino ad ieri l’Italia fosse un Paese
del terzo mondo, privo di copertura vaccinale per importanti malattie
epidemiche? A me pare che un incipit giusto
per riflettere autonomamente su questa vicenda sia rivedere la ministra
Lorenzin che, a “Porta a Porta” (2014) afferma che
a Londra morirono per morbillo 270 bambini; nel 2015, a “Piazza pulita” dirà che i bambini morti a Londra sono
più di duecento, che forse sono da sommare ai 270 o forse no; la ministra
confonde date e dati, ma, in fondo, ha fatto soltanto il liceo classico,
poverina! Magari sa tradurre Plutarco ad apertura di libro (per gli scettici
vedere qui).
Però sto andando fuori tema, in quanto ci
si proponeva di evidenziare le “novità” dell’anno
scolastico appena iniziato. Che un ministro della Repubblica sostenga vaccinazioni di massa
probabilmente inutili e forse dannose non è affatto una novità.
Torniamo al lontano 1991:
“Entro il 2004 sarà
completamente sconfitta l’ epatite B, il pericoloso killer responsabile in
Italia di novemila morti ogni anno. Da ieri la vaccinazione contro la malattia
è diventata obbligatoria per tutti i neonati nel primo anno di vita e per tutti
gli adolescenti nel dodicesimo anno. Lo stabilisce un disegno di legge
approvato dalla commissione Sanità del Senato in sede legislativa. Finalmente,
dopo anni ce l’abbiamo fatta, esplode di soddisfazione il professor Giuliano Da
Villa che era stato incaricato due anni fa dal ministro della Sanità De Lorenzo
di preparare il provvedimento” (Stefano Costantini, da La Repubblica.it, 10 maggio 1991).
Si scoprì poi che De Lorenzo era
stato convinto dalla Glaxo
SmithKline, unica azienda produttrice del vaccino, con ottimi argomenti: una
tangente di 600 milioni di euro, ammessa dalla stessa casa
farmaceutica.
Ma torniamo alla scuola: sul tema
vaccini esprimo
solidarietà a tutto il personale scolastico che dovrà occuparsi della faccenda.
Il personale stesso sarà tenuto ad una autodichiarazione: immagino che, però,
potremo dignitosamente difenderci dietro ad un “non ricordo”, vista
l’età media altissima. Un ultra-cinquantenne non è tenuto a ricordare il trauma del vaccino,
non è tenuto a fare una ricerca d’archivio nelle carte di casa e spesso non ha
nemmeno la possibilità, ahimè, di interrogare i propri genitori sulla
questione. Può quindi mandare al diavolo con animo sereno l’ennesima pensata
ministeriale che, invece di semplificarci l’esistenza, ce la complica
gratuitamente.
In conclusione, il nuovo anno scolastico
ci porta poche novità, che perlopiù non sono davvero tali. In compenso,
restano, granitici, i problemi “vecchi”, annosi,
mai risolti: l’età
media altissima degli insegnanti, le cui conseguenze non
interessano nessuno, le condizioni indecorose delle nostre scuole, nonostante
lo stanziamento renziano di 9 miliardi di cui non si vedono però gli
effetti, il
contratto vergognosamente fermo al 2009, la inqualificabile
intesa pre-referendum con la quale governo e sindacati maggiormente
rappresentativi (rappresentativi di chi?) hanno stabilito un aumento medio e
lordo di 85 euro per gli statali, un vero insulto nei confronti di tre milioni
di lavoratori. Il disagio tangibile di studenti ed insegnanti, che fa delle
nostre scuole troppo spesso un luogo in cui la sofferenza sociale si esprime in
modo deviato non è argomento che valga la pena affrontare e quindi viene
spavaldamente ignorato dai vertici ministeriali.
Prepariamoci quindi a comprare
l’almanacco nuovo e ad affrontare l’anno che verrà: come nel dialogo leopardiano ci auguriamo che non
somigli a nessuno degli anni passati.
Dedico all’anno scolastico 2017/2018 tre
quadretti: nel primo ricordo, a mo’ di augurio e di speranza, un pedagogista
catalano libertario la cui fine crudele fece scendere in piazza, anche in
Italia, migliaia e migliaia di lavoratori, nel secondo mi occupo di “fantascienza scolastica”, nel terzo dimostro che la
realtà spesso supera l’immaginazione.
Quando gli operai scioperavano in favore di un pedagogista
Oggi, in tempi attraversati tanto dalla
casualità della violenza quanto da una sorta di assopimento sociale che sembra
paralizzare qualsiasi moto di rivolta contro il conformismo e la piega
reazionaria che la nostra società sta prendendo, è difficile immaginare
un’Europa scossa dall’indignazione e in rivolta a causa della condanna a morte
di un pedagogista libertario. Il fatto che interi quartieri
operai torinesi scendano in piazza e scioperino in massa per l’ingiustizia
subita da un intellettuale spagnolo ha, ai nostri occhi, qualcosa di
incredibile. La fucilazione di Francisco Ferrer y Guardia, pedagogista catalano, fondatore della Escuela moderna,
avvenne il 13 ottobre del 1909. Ferrer veniva accusato, peraltro ingiustamente,
di essere l’ideatore delle rivolte operaie scoppiate in Spagna contro la guerra
dichiarata al Marocco, che avevano trovato la loro massima espressione nella “Settimana tragica” (26 luglio-1 agosto 1909). La
notizia dell’arresto e della condanna di Ferrer destò scalpore anche in Italia.
A Torino, per esempio, le barriere operaie insorgono e scoppia la protesta per
la condanna di Ferrer:
Sul finire dell’estate del 1909
il movimento libertario è alla testa delle forti proteste che, come nel resto
d’Europa, prendono corpo anche in Italia, specie a Torino, in Toscana e nelle
Marche, contro la condanna a morte in Catalogna del pedagogista libertario
Francisco Ferrer y Guardia, iniziatore dell’educazione integrale razionalista,
nuova teoria e pratica formativa radicale e rivoluzionaria, antiautoritaria,
antistatale e anticlericale, basata sulla libertà dell’individuo e sulla
laicità e autonomia del pensiero quali strumenti di emancipazione sociale delle
classi subalterne. (articolo di
Paolo Papini su A rivista anarchica, anno 46 n.
411, “Quella scuola laica e libertaria”).
Giovanni Pascoli distribuiva a Bologna,
il giorno dopo l’esecuzione di Ferrer, volantini con una epigrafe dedicata al
maestro (la si può leggere qui). Lo “scoppio di fucili” che uccide Ferrer riecheggia nelle
“scuole della terra” e rimbomba “nelle officine del mondo”; “i pensatori levarono gli occhi dal libro / e i lavoratori alzarono
il pugno dall’incudine…”: così scrive Pascoli nel 1909. Ma più
dell’intellettuale che apprezza l’intellettuale colpisce l’indignazione di
intere masse operaie. La scuola che Ferrer immaginava era una scuola all’insegna del “razionalismo umanitario”
…. che consiste
nell’infondere nell’infanzia il desiderio di conoscere l’origine di tutte le
ingiustizie sociali, perché conoscendole, essa possa a sua volta opporvisi e
combatterle. Il nostro Razionalismo
Umanitario combatte le guerre fratricide interne ed esterne, lo sfruttamento
dell’uomo sull’uomo, la schiavitù della donna; combatte tutti i nemici dell’armonia
umana, ignoranza, vizio, cattiveria, orgoglio ed altre brutture che tengono gli
uomini divisi in oppressori e oppressi. (vedi qui)
Ecco, in estrema sintesi, la descrizione
della Escuela moderna di Francisco Ferrer y Guardia;
una scuola attenta ai valori di libertà dell’individuo e di giustizia sociale,
una scuola attenta alla Natura e volta a formare negli studenti una mentalità
critica:
Si insegni storia o
agricoltura, letteratura o chimica, algebra o greco, risulterà sempre che si
sarebbe potuto farlo in due modi; uno che irrobustisce il giudizio, l’altro che
lo atrofizza e lo falsa al suo nascere; uno che fissa per sempre all’alunno
l’ordine delle nozioni che si presentano al suo esame per la prima volta;
l’altro che lo disgusta per sempre. La pedagogia consiste esattamente nel
conoscere, formulare e applicare nella misura del possibile il primo di questi
metodi.
Queste parole venivano scritte più
di un secolo fa,
in un contesto sociale radicalmente diverso ed in cui era chiaro per tutti
che la scuola aveva un valore emancipatorio e che l’uscita dall’ignoranza era
il primo passo verso la costruzione di una umanità nuova. Ad
apertura di un nuovo anno scolastico mi chiedo cosa sia rimasto di una simile
tensione nei pedagogisti ministeriali, nel corpo docente, negli stessi
studenti. E la risposta è scontata: ben poco. Eppure è da quella tensione che
bisogna ripartire se non vogliamo che le nostre scuole somiglino a quella
descritta nel racconto di “fantascienza scolastica”
che viene presentato qui di seguito.
Un racconto profetico: un insegnante per 40.000 studenti
Il Trendex compare in un racconto di
fantascienza scolastica scritto da Lloyd Biggle jr. negli ultimi anni
Cinquanta, che il lettore italiano può leggere su un numero antologico di Urania del 1968 oppure nella interessante
raccolta di racconti di fantascienza e horror scolastico
curata da Vincenzo Campo per Sellerio (Il compito di latino. Nove
racconti e una modesta proposta, a cura di Vincenzo Campo, Palermo,
Sellerio 1999). Tenuto conto che La professoressa marziana è
stato scritto circa sessant’anni fa, ci troviamo di fronte ad un caso di
fantascienza scolastica ed anche profetica.
Dunque, il “Trendex” è un “indice di gradimento” degli insegnanti che,
nella scuola immaginaria della metà del XXI secolo (e qua sta uno dei pochi
punti di debolezza dell’immaginazione fantascientifica: la proiezione in avanti
è sempre fatta cautamente, così succede che arrivi il 1984 ed il mondo presenti,
almeno in apparenza, un aspetto più umano di quello immaginato da Orwell), una
scuola “a distanza”, in cui le lezioni,
registrate in uno studio televisivo, vengono seguite dagli studenti (che sono
quarantamila per ogni insegnante, altro che “classi-pollaio”!) serve a misurare la capacità degli
insegnanti:
“Ogni due settimane eseguiamo un
migliaio di sondaggi sugli allievi del professore. Se tutti i campioni da noi
prelevati seguono, come dovrebbero fare, le lezioni assegnate, il Trendex del
professore è 100. Se soltanto la metà segue, il Trendex è di cinquanta. Il
Trendex di un buon insegnante è all’incirca di 50. Se il Trendex scende
al di sotto di 20, il professore viene licenziato per scarso rendimento”.
La povera professoressa proveniente da
Marte ed approdata sulla Terra per ragioni di salute deve quindi fare i conti
con l’insegnamento a distanza e con il Trendex per evitare di essere licenziata
in tronco. Scoprirà che i colleghi più seguiti dagli studenti usano mezzi assai poco
ortodossi per conquistare l’attenzione degli allievi: una
bella ragazza bionda che insegna Inglese mette in scena ad ogni lezione, un
mezzo strip-tease (a questo
aspetto del racconto è dedicata la copertina di Urania, creata dal mitico disegnatore Karel Thole: in
primo piano vediamo una telecamera, sullo sfondo una lavagna e al centro una
bella ragazza bionda nell’atto di completare uno strip-tease), un prestante giovanotto (Trendex 45) si
esibisce in una serie di imitazioni e tiene il gesso sul naso come un giocoliere, un’altra
insegnante, dotata di estro pittorico, schizza una caricatura dopo
l’altra. Insomma, per alzare il Trendex gli insegnanti sono pronti a tutto,
e non si preoccupano di far calare vertiginosamente la qualità del loro
insegnamento. D’altra parte, della qualità dell’insegnamento non importa nulla a chi è ai vertici
della “Nuova
Scuola”:
“… un altro fattore determinante
per l’adozione dei nuovi sistemi di insegnamento è il risparmio di denaro che
essi comportano. Anziché avere migliaia di costosi edifici scolastici, è sufficiente un
unico studio TV. Inoltre si risparmia sugli
stipendi degli insegnanti, perché basta un insegnante
per varie migliaia di studenti, anziché
uno ogni trenta-quaranta allievi. I ragazzi intelligenti impareranno da soli,
anche se l’insegnamento è insufficiente, e d’altronde la nostra civiltà non
esige di più: pochi elementi ben preparati, in grado di costruire macchine
efficienti”.
La signorina Boltz, l’insegnante marziana
di mezza età legata all’insegnamento tradizionale, non si rassegna. Mitemente
ma ostinatamente condurrà la sua battaglia per riportare gli studenti in classe
e per ricostruire un rapporto educativo concreto; ne uscirà vittoriosa, grazie
all’aiuto di altri che, come lei, hanno compreso i gravi limiti della “Nuova Scuola”.
Che è una scuola in cui
non esiste il problema della disciplina, in cui non ci sono compiti
da correggere, in cui le tasse scolastiche sono basse e non si assegnano compiti a casa.
Peccato che la “Nuova Scuola” sia una sorta di Paese dei Balocchi da cui si esce tanto ignoranti quanto
lo si era quando ci si è entrati.
Se il lettore ha colto qualche analogia
tra la scuola immaginaria e la scuola italiana dei nostri giorni, vuol dire
che, probabilmente, di mestiere fa l’insegnante e non è troppo contento delle
condizioni in cui deve svolgere il suo lavoro. Non dimentichiamoci però che nulla è per
sempre, né la “Nuova Scuola” in
cui incappa la signorina Boltz né la “Buona scuola”
attuale: l’importante
è avere in mente un modello alternativo di scuola e battersi, collettivamente,
per realizzarlo.
Chiudo con un aneddoto di “cronaca vera” che ha fatto da sigillo simbolico, per
me, all’anno scolastico 2016/2017, con l’augurio rinnovato che l’anno che verrà
sia illuminato dalla luce della ragionevolezza e della speranza.
Crediti formativi, porto d’armi e la lezione di don Milani
È il giorno della riunione preliminare delle commissioni dell’esame di
Stato. L’età media della mia
commissione, ad occhio e croce, si colloca ben oltre i cinquanta anni e quindi
tutti i componenti conoscono a fondo il rito burocratico che dà inizio alla
Maturità, parola sempre meno adatta ai nostri tempi puerili. Uno dei primi atti
dei commissari consiste nell’esame dei fascicoli degli studenti e nel controllo
dei cosiddetti “crediti formativi”, che riguardano
attività extrascolastiche la cui validità viene riconosciuta dal Consiglio di
classe, sulla base di indicazioni e parametri individuati dal Collegio docenti.
Quindi, a voler prendere le cose sul serio, l’attribuzione del “credito formativo” vede coinvolta
l’intera istituzione scolastica. Dunque, eccomi anche
quest’anno a scorrere l’elenco di “attività extrascolastiche”
trasformate in crediti formativi.
A un tratto mi fermo, poiché penso di
aver letto male: nella casella del credito c’è scritto “porto d’armi”. Cosa c’entra il porto d’armi con il “credito formativo”? Cerco
di farmelo spiegare da uno dei membri interni: a suo dire, la licenza comporta
verifiche, esami, acquisizioni di conoscenze etc. Proverò poi, a casa, a
controllare sul sito della Polizia di Stato, ma non mi pare che il porto d’armi
comporti una crescita “formativa” degna di
rilievo. E se pur fosse, se pure il porto d’armi lo si conseguisse dopo aver
sostenuto esami su esami a me quel “porto d’armi”
accanto al nome di un diciannovenne continuerebbe a suonare come una nota
stonata. Ed aggiungerei che una scuola che si riempie la bocca di espressioni
come “educazione alla pace” ed “educazione
alla legalità” non dovrebbe essere così strabica da riconoscere la
qualità di “credito formativo” al porto d’armi.
Quando ci si chiede come mai la scuola
italiana abbia gravi difficoltà bisognerebbe avere il coraggio di individuare
il problema centrale: la scuola, intesa come istituzione, ha perso la bussola e
non è in grado di orientarsi perché non sa più dove stia la sua stella polare.
Soltanto questo profondo disorientamento, che parte dai vertici ministeriali
(di cui si sospetta la malafede) e degrada giù giù sino ai Consigli di classe
(che invece spesso agiscono in buona fede, cosa che personalmente non ritengo
un’attenuante) può spiegare alcuni esiti come quello di cui ho appena parlato.
Se vogliamo prendere un altro esempio
recente, la
santificazione di Don Milani, di cui il MIUR ha celebrato con
gran pompa il cinquantenario della morte, è frutto dello stesso
disorientamento e dello stesso strabismo. Riporto, per meglio
chiarire il mio pensiero, una frase del documento con il quale il MIUR comunica
ufficialmente l’iniziativa su Don Milani:
“Si trattava di un modo di fare
scuola che oggi si potrebbe ricondurre alla valorizzazione delle competenze
intese, secondo le Indicazioni per il curricolo della scuola dell’infanzia e
del primo ciclo, come “combinazione di conoscenze, abilità e
atteggiamenti appropriati al contesto” necessarie per “la
realizzazione e lo sviluppo personali, la cittadinanza attiva, l’inclusione
sociale e l’occupazione”.
Io penso che Don Milani,
con il suo disprezzo aristocratico verso ogni forma di perbenismo
piccolo-borghese e con la sua attenzione verso l’uso delle parole avrebbe avuto un
conato di vomito di fronte ad una frase come questa. Eppure la
nostra scuola, che invoca come genio tutelare don Milani, è mostruosamente
selettiva; ed il continuo parlare di “inclusione” sembra quasi voler
rivelare, attraverso il tic linguistico ossessivo, la propria cattiva coscienza.
Immagino che a don Milani questa
nostra scuola non piacerebbe per nulla; egli praticava una
didattica rude, rigorosa, austera (e come ha recentemente
ricordato Lodolo D’Oria un tipo come Lorenzo Milani oggi sarebbe facilmente
finito sotto processo per gli scappellotti che non risparmiava ai suoi
studenti) ma
nutrita di passione e di slancio civile, fattori che mancano
del tutto alla nostra scuola asfittica.
Quando nel febbraio del 1965 i cappellani
militari della Toscana in un documento definirono l’obiezione di coscienza “espressione di viltà”, la risposta di don Milani fu
ferma: si ha il diritto di non obbedire, l’obbedienza non è più una virtù quando è praticata senza spirito critico.
Rivolto ai cappellani militari che davano la propria benedizione alle armi
scrisse queste parole icastiche:
“Se voi però avete diritto di
dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso,
io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un
lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se voi
avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che
italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda,
allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono
combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei
mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono
orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le
uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto”.
Tale presa di posizione pubblica costerà
al priore di Barbiana un processo, che si concluderà con una famosa e farisaica
sentenza: “Il reato è estinto per morte del reo“. E qui vorrei
chiudere questa orbita un po’ sghemba che parte da un “credito formativo” assegnato per il possesso del porto
d’armi e comprende al proprio interno il magistero di Lorenzo Milani, del quale
un ministro dell’istruzione che ha esibito una laurea che non possiede non si
dovrebbe appropriare.
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