Il primo ottobre 1977, in piena notte, i
miei genitori, le mie due sorelle e io c’imbarcammo su un aereo della Lufthansa
in partenza da Bombay. Avevamo addosso dei vestiti nuovi, pesanti e scomodi, ed
eravamo stati accompagnati da tutta la nostra famiglia allargata, che si era
presentata all’aeroporto con tanto di luci e ghirlande. Avevamo tutti una
macchia vermiglia sulla fronte. Andavamo negli Stati Uniti.
Per procurarci i biglietti più economici,
il nostro agente aveva organizzato un viaggio tortuoso con sbarco a
Francoforte e volo interno fino a Colonia, per poi proseguire alla volta di New
York. A Francoforte, il funzionario della dogana tedesca esaminò i passaporti
indiani di mio padre, delle mie sorelle e il mio e ci mise un timbro.
Poi alzò in aria il passaporto di mia madre con disgusto: “Lei non è
autorizzata a entrare in Germania”, disse.
Era un passaporto britannico rilasciato ai
cittadini di origine indiana nati in Kenya prima dell’indipendenza dal
Regno Unito, come mia madre. Ma nel 1968 il parlamentare britannico Enoch
Powell, del Partito conservatore, aveva fatto il suo celebre discorso
sui “fiumi di sangue”, mettendo in guardia il suo paese dai pericoli che correva
accogliendo le persone con la pelle scura o nera, e il parlamento aveva
approvato una legge che privava sommariamente centinaia di migliaia di
detentori di passaporti britannici dell’Africa orientale del diritto di
vivere nel paese che gli aveva dato la nazionalità. Il passaporto non valeva
letteralmente la carta su cui era stampato. Era diventato, di fatto, un marchio
di Caino. Il funzionario tedesco decise che, a causa del suo status incerto,
mia madre poteva abbandonare il marito e i tre figlioletti, prendersi una pausa
e vivere in Germania da sola.
E così ci toccò partire direttamente da
Francoforte. Sette ore e parecchi sacchetti per il mal d’aria più tardi, sbarcammo
nella sala degli arrivi internazionali dell’aeroporto John F. Kennedy. Un
grazioso mobile giallo, nero e arancione di Alexander Calder volteggiava
sopra le nostre teste sullo sfondo di un’immensa bandiera degli Stati Uniti e
tanti palloncini colorati punteggiavano il soffitto, ricordi di vecchi saluti.
Ogni arrivo nella nuova terra veniva festeggiato, perciò i palloncini salivano fino al soffitto per fare posto agli altri, più recenti. Davano speranza ai nuovi
arrivati: tra qualche anno, con un po’ di fortuna e lavorando sodo, anche noi
potremo salire quassù. Dritti fino al soffitto. Per gran parte della nostra storia
come specie, da quando ci siamo evoluti da cacciatori raccoglitori a pastori,
noi esseri umani non siamo stati in sintonia con il movimento radicale e
continuo reso possibile dalla modernità. Per lo più siamo rimasti in un unico
luogo, nei nostri villaggi. Tra il 1960 e il 2015, il numero complessivo dei
migranti è triplicato raggiungendo il 3,3 per cento della popolazione mondiale.
Oggi le persone che vivono in un paese diverso da quello in cui sono nate sono
250 milioni, una su 30. Se tutti i migranti fossero una nazione indipendente
rappresenterebbero il quinto paese più grande del mondo.
Nel ventunesimo secolo, la maggiore sfida
per i paesi più ricchi del mondo è accogliere un flusso di migranti estremamente vario. Ora che il cambiamento climatico e i conflitti politici scacciano
un numero sempre più grande di persone dai villaggi e dalle zone di guerra del
mondo, gli sfollati cercano rifugio in qualunque luogo. Pensate che cinque
milioni di siriani siano un problema? Cosa succederà quando il Bangladesh
sarà inondato e i suoi 18 milioni di abitanti dovranno cercare una terra
asciutta?
Nello stesso tempo c’è stato un aumento drammatico della disuguaglianza
economica. Oggi gli otto individui più ricchi del mondo – tutti uomini – hanno
più di quanto possiede metà del pianeta, vale a dire 3,6 miliardi di persone
messe insieme. La concentrazione di ricchezza porta anche a una concentrazione
di potere politico e a un dirottamento dello sdegno per la disuguaglianza,
che viene allontanato dalle élite per essere indirizzato contro i migranti.
Quando i contadini inseguono i ricchi con i forconi, per i ricchi la cosa più
sicura da fare è dire: “Non date la colpa a noi, ma a loro”, e indicare gli
ultimi arrivati, i più deboli.
Qual è la differenza tra rifugiato e
migrante? È una scelta terminologica strategica da fare alla frontiera quando
ti chiedono chi sei. L’etimologia è il destino. Se sei solo un migrante
“economico” potresti essere rispedito indietro, ma potresti anche essere temuto
se t’identificano come rifugiato. Che tu stia fuggendo da qualcosa o fuggendo
verso qualcosa, sei comunque in fuga.
Il rifugiato, come ha detto il sociologo
Zygmunt Bauman in un’intervista del 2010 al New York Times, porta con sé lo
spettro del caos e dell’illegalità che lo hanno costretto ad abbandonare la
patria. Porta con sé il disordine economico e politico che fu provocato dai
paesi ricchi e ordinati quando si sbarazzarono della popolazione in eccesso
scaricandola sulla colonie e poi si ritirarono, lasciando dietro di sé stati
poco definiti. Ma il rifugiato soffre per la mancanza di uno stato. Non può
“tornare a casa”, perché la sua casa è stata distrutta da bande di criminali o
dalla desertificazione.
E così, portando sulle spalle il fardello
del suo stato fallito, viene a bussare alle porte dell’occidente, e se ne trova
una aperta s’ifnila dentro, non benvenuto ma a malapena tollerato. Magari nel
suo presunto paese era un chirurgo, ma qui è pronto a svolgere qualunque compito – come pulire le padelle in un ospedale dove è più qualificato di molti
dottori – ma non potrà mai sperare di essere uno di loro perché la legge
protegge la categoria dei medici dalle persone come lui. Dev’essere umile e
sottomesso, rinunciare a chiedere una giusta parte della ricchezza del suo
nuovo paese di residenza o qualunque tipo di diritto politico. Il massimo in
cui può sperare è una certa sicurezza personale e la possibilità di spedire
abbastanza soldi ai familiari in modo che possano mandare il figlio maggiore a
una scuola privata vicino al campo profughi in cui aspettano l’occasione di
riunirsi al padre, al fratello o al marito nella loro esistenza emarginata.
Nelle nazioni ordinate respingiamo il
rifugiato perché è la somma delle nostre peggiori paure, il futuro incombente
del ventunesimo secolo portato in forma umana alle nostre frontiere. Dal
momento che nel paese da cui proviene non era necessariamente povero – forse un
anno fa, prima che tutto cambiasse, era un uomo d’affari o un ingegnere – il
rifugiato è il promemoria vivente del fatto che anche a noi potrebbe succedere
la stessa cosa. Tutto potrebbe cambiare radicalmente e irrevocabilmente,
all’improvviso.
L’occidente non viene distrutto dai
migranti, ma dalla paura dei migranti. Eppure i paesi più ricchi del mondo non
riescono a decidere cosa vogliono fare: vogliono certi emigranti e altri no.
Nel 2006, il governo olandese cercò di rendersi sgradevole ai potenziali migranti musulmani e africani realizzando un film, Nei Paesi Bassi, con scene di
coppie gay che si baciavano e donne in topless che prendevano il sole. Il film
era un sussidio didattico per un esame d’ammissione che costava 433 dollari.
Era obbligatorio per i migranti che arrivavano per ricongiungersi con i loro
familiari, esclusi quelli che guadagnavano più di 54mila dollari all’anno o i
cittadini di paesi ricchi come gli Stati Uniti. Il film mostrava anche i
quartieri fatiscenti dove gli immigrati potevano ritrovarsi a vivere. C’erano
interviste con im- migrati che definivano gli olandesi “freddi” e “distanti”. Il
film si dilungava sugli ingorghi di traffico, i problemi per trovare lavoro e gli
allagamenti periodici.
Nel 2011 la città di Gatineau, in Québec,
pubblicò una “dichiarazione di valori” in cui metteva in guardia i nuovi
immigrati dagli “odori forti emanati dalla cucina”, che potevano disturbare i
canadesi. La dichiarazione informava anche i migranti che in Canada non si
potevano corrompere i funzionari pubblici e che era meglio presentarsi puntuali
agli appuntamenti. Faceva seguito a una guida pubblicata da un’altra cittadina
del Quebec, Hérouxville, in cui si avvertiva che lapidare a morte qualcuno in
pubblico era espressamente vietato. L’ammonizione fu tenuta in debito conto
dall’unica famiglia di immigrati della cittadina, che si astenne dal lapidare
le sue donne in pubblico.
In Germania, la “cultura di accoglienza” è
cambiata nell’arco di una sola stagione, dal settembre di espiazione del
2015, con l’apertura delle frontiere, al “rifugiati stupratori andate a casa”
dopo le molestie di Colonia del capodanno dello stesso anno. Di tutti i
profughi, quello che spaventa di più è il migrante maschio senza una donna, con
gli occhi che divorano famelicamente la carne nuda della donna bianca. Le
parole usate dalla stampa popolare o dai politici di destra per descrivere
questi afgani o marocchini sono simili alla terminologia impiegata per definire
i neri negli Stati Uniti all’inizio del novecento: pervertiti affamati di sesso.
Nel 1900, il senatore Benjamin Tillman del South Carolina dichiarò nell’aula
del senato federale: “Non abbiamo mai creduto che un nero fosse uguale a un
bianco, e non accetteremo di vedergli soddisfare la sua lussuria sulle nostre
mogli e le nostre figlie senza linciarlo”.
Avanti veloce fino al 2017: “La Svezia ha
accolto più giovani migranti maschi pro capite di ogni altro paese d’Europa”,
ha detto a febbraio Nigel Farage, parlamentare europeo britannico. “E in Svezia
c’è stato un aumento drammatico dei reati sessuali, tanto che Malmö oggi è la
capitale europea degli stupri”. Questa affermazione è stata immediatamente
smentita: nel 2015, l’anno in cui la Svezia ha accolto un numero record di richiedenti asilo, i reati sessuali erano diminuiti dell’11 per cento rispetto
all’anno prima.
È vero che esistono storie orribili di
bande organizzate di stupratori con una storia di emigrazione alle spalle, ma
non ci sono prove che gli immigrati complessivamente commettano stupri o furti
in percentuali superiori a quelle del resto della popolazione. Le foto
segnaletiche di criminali con la pelle scura, che siano marocchini o messicani,
in qualche modo suscitano più paura nell’immaginario occidentale di quelle dei
violentatori bianchi di casa nostra. È una paura primigenia, tribale: vengono
per le nostre donne.
Mossi da questo terrore, gli elettori
scelgono, in un paese dopo l’altro, leader che fanno danni a lungo termine
incalcolabili: Donald Trump negli Stati Uniti, Viktor Orbán in Ungheria, Andrzej
Duda e il suo partito Diritto e giustizia in Polonia. È stata la paura dei
migranti che ha spinto gli elettori britannici a votare per la Brexit, il più
grande autogol della storia del paese.
La fobia dei migranti può essere la
minaccia più grave per la democrazia. Si pensi alla Germania di Angela Merkel,
con la sua economia fiorente e le sue istituzioni democratiche, e poi si guardi
alla vicina Polonia, con un partito di governo che ha appena cercato di mettere
sotto controllo la magistratura, o all’Ungheria, dove Orbán ha distrutto la
stampa libera. Questo confronto dimostra che quando i paesi tutelano i diritti
delle loro minoranze tutelano anche, come effetto collaterale, quelli delle
maggioranze. È vero anche il contrario: quando non salvaguardano i diritti
delle minoranze, sono in pericolo anche i diritti di tutti gli altri.
L’estate scorsa sono andato in macchina
ino alla frontiera tra Ungheria e Serbia con un volontario di un’organizzazione
religiosa che fornisce aiuti ai profughi. Ero in Ungheria da una settimana.
In tutto il paese c’erano manifesti blu con domande come: “Lo sapevi?
Dall’inizio della crisi dell’immigrazione, in Europa più di trecento persone
sono morte a causa di attacchi ter- roristici”, “Lo sapevi? Bruxelles vuole
trasferire in Ungheria l’equivalente di un’intera città di immigrati”, “Lo
sapevi? Dall’inizio della crisi dell’immigrazione, in Europa le molestie alle
donne sono sensibilmente aumentate”. Il governo invitava i suoi cittadini a
votare in un referendum per respingere la quota di rifugiati assegnata
all’Ungheria dall’Unione europea nel 2016: 1.294 per un paese di quasi dieci
milioni d’abitanti.
Dopo aver attraversato il conine con la
Serbia a Röszke, abbiamo passato quattro ore a cercare di raggiungere il gruppo
di tende che avevamo visto vicino alla frontiera, proprio accanto
all’autostrada. Abbiamo guidato su strade sterrate nella campagna spopolata,
superando frutteti di mele, pesche e prugne. Dal finestrino della macchina ho
staccato da un ramo una prugna viola. Non era ancora perfettamente matura.
Una donna ci ha detto quale strada
prendere per “l’accampamento pachistano”. Abbiamo percorso un sentiero pieno di
buche accanto all’autostrada e siamo arrivati. Era uno slum sudasiatico
improvvisato, ma con tende da campeggio invece di fogli di plastica, proprio
come al festival musicale di Sziget da cui ero appena arrivato. Il festival era
pieno di ragazzi, fiori dell’Europa bianca, che pagando un ingresso di 363
dollari a testa potevano godersela per un’intera settimana in una città di
tende tutta per loro.
Anche nell’accampamento c’erano dei
ragazzi, ma più piccoli e scuri: preadolescenti e bambini in fuga con le loro
famiglie. Giocavano a cricket nell’immondizia.
Usare il bagno al posto di frontiera
costava un euro, così le persone nella lunga ila di macchine in attesa di
varcare il confine usavano i cespugli che erano le case provvisorie dei
migranti, dove loro dormivano e mangiavano aspettando che le porte d’Europa si
aprissero.
Abbiamo aperto il bagagliaio della macchina
e distribuito bottiglie d’acqua, cioccolata, calzini e biancheria. Degli uomini
si sono avvicinati e quando hanno capito che ero indiano hanno scosso la testa
e si sono messi a parlarmi in urdu del loro viaggio. Uno di loro veniva dalla
città pachistana di Lahore. Era lì da pochi giorni. Gli ungheresi non lo
lasciavano passare anche se non voleva restare nel paese, ma andare in Germania
o in Svezia. I serbi non lo lasciavano tornare in Macedonia. “È chiuso davanti
ed è chiuso dietro”, mi ha detto.
Si è accostata una grande auto nera da cui
sono scesi due grossi poliziotti serbi vestiti di nero. “Per favore,
andatavene”, ci hanno detto: non avevamo un permesso ufficiale per visitare
l’accampamento. Ci hanno ricordato che gli ungheresi erano peggio dei serbi: “Hanno
droni e videocamere” per monitorare l’accampamento dall’altro lato della
frontiera.
Per i pochi rifugiati che riescono a
superare la recinzione non c’è nessuna terra promessa. In quei mesi, qualunque
migrante sorpreso a una distanza di meno di otto chilometri dalla frontiera
veniva arrestato e deportato. Da allora questa disposizione è stata estesa a
tutti i migranti fermati in Ungheria. Nel novembre del 2015 Orbán ha
dichiarato: “Tutti i terroristi sono fondamentalmente immigrati”. Come tante
altre dichiarazioni uscite dalla sua bocca, anche questa è falsa: molti
responsabili di atti di terrorismo, in Europa e altrove, appartengono alla
popolazione nativa del luogo, come Timothy McVeigh e Anders Behring Breivik.
Otto mesi dopo, Orbán ha capovolto la
dichiarazione ampliandola: tutti i migranti sono terroristi. “Ogni singolo
migrante rappresenta un rischio per la sicurezza pubblica e per il terrorismo”.
Un prerequisito essenziale per negare l’ingresso ai migranti è presupporre un
dualismo, uno scontro di civiltà, in cui una è nettamente superiore all’altra.
A luglio, il presidente statunitense
Donald Trump ha fatto un discorso in Polonia su ciò che caratterizza la civiltà
occidentale: “Oggi, l’occidente deve misurarsi anche con le potenze che cercano
di mettere alla prova la nostra volontà, di minare la nostra iducia e di sfidare
i nostri interessi. Il mondo non ha mai conosciuto nulla di simile alla nostra
comunità di nazioni. Noi scriviamo sinfonie. Noi promuoviamo l’innovazione. Noi
celebriamo i nostri antichi eroi, le nostre tradizioni e i nostri costumi senza
tempo, e cerchiamo sempre di esplorare e scoprire nuove frontiere. Noi premiamo
il talento. Noi aspiriamo all’eccellenza e amiamo le grandi opere d’arte che
onorano dio. Noi abbiamo a cuore lo stato di diritto e proteggiamo la libertà
di parola e d’espressione. Noi diamo forza alle donne in quanto pilastri della
nostra società e del nostro successo. Noi mettiamo la fede e la famiglia – non
il governo e la burocrazia – al centro della nostra vita. E soprattutto, noi
apprezziamo la dignità di ogni vita umana, proteggiamo i diritti di ogni
persona e condividiamo la speranza di ogni anima di vivere nella libertà. Ecco
quello che siamo. Questi sono i legami inestimabili che ci uniscono come
nazioni, come alleati e come civiltà”.
Evviva la civiltà occidentale, che ha dato
al mondo il genocidio dei nativi americani, la schiavitù, l’inquisi- zione,
l’olocausto, Hiroshima e il riscaldamento globale. Quanto è ipocrita il
dibattito sull’immigrazione.
I paesi ricchi si lamentano a gran voce
della migrazione da quelli poveri. Ecco com’è stato truccato il gioco: prima ci
hanno colonizzato, hanno rubato i nostri tesori e ci hanno impedito di
costruire le nostre industrie. Dopo averci saccheggiato per secoli, se ne sono
andati disegnando le mappe in modo da assicurare una conflittualità permanente
tra le nostre comunità. Poi ci hanno portato nei loro paesi come lavoratori
ospiti, ma ci hanno scoraggiato dal portare le nostre famiglie.
Dopo aver costruito le loro economie con
le nostre
materie prime e la nostra manodopera, ci
hanno chiesto di tornarcene a casa e si sono stupiti quando non lo abbiamo
fatto. Hanno rubato i nostri minerali e corrotto i nostri governi così le loro
multinazionali potevano continuare a depredare le nostre risorse; hanno
insozzato l’aria sopra di noi e le acque intorno a noi, rendendo brulle le
nostre fattorie e privi di vita i nostri oceani; ed erano pieni di orrore
quando i più poveri tra noi sono arrivati alle loro frontiere, non per rubare
ma per lavorare, per pulire la loro merda e scopare i loro uomini.
Eppure avevano bisogno di noi. Avevano
bisogno di noi per aggiustare i loro computer, guarire i loro malati e
insegnare ai loro bambini, perciò hanno preso i migliori e i più brillanti di
noi, quelli che erano stati istruiti a caro prezzo dagli stati in difficoltà da
cui provenivano, e ci hanno di nuovo sedotto a lavorare per loro. Oggi ci
chiedono di nuovo di non venire, per quanto disperati e affamati ci abbiano
fatto diventare, perché i più ricchi tra loro hanno bisogno di un capro
espiatorio. Ecco come viene truccato il gioco ora.
Nel 2015 Shashi Tharoor, l’ex
sottosegretario generale dell’Onu per le comunicazioni e la pubblica
informazione, fece un trascinante discorso alla Oxford Union per sostenere la
causa delle riparazioni (simboliche) dovute all’India dal Regno Unito. “Quando
i britannici sbarcarono sulle sue sponde, la quota dell’India nell’economia
mondiale era il 23 per cento. Quando se ne andarono, era scesa a meno del 4 per
cento. Perché?”, chiese. “Semplicemente perché l’India era stata governata
nell’interesse del Regno Unito. La crescita del Regno Unito è stata finanziata
per duecento anni dalla spoliazione dell’India”.
Il discorso di Tharoor mi ha ricordato un
episodio, una volta che mio nonno era seduto in un parco alla periferia di
Londra. Un anziano inglese si avvicinò a lui agitando un dito: “Perché sei
qui?”, chiese l’uomo. “Perché sei nel mio paese?”. “Noi siamo i creditori”,
rispose mio nonno, che era nato in India, aveva passato la sua vita lavorativa
in Kenya e ora era in pensione a Londra. “Voi vi siete presi tutta la
nostra ricchezza, i nostri diamanti. Ora siamo venuti a incassare”.
“Se credi di essere un cittadino del
mondo, non sei cittadino di nessun posto”, ha proclamato la prima ministra
britannica Theresa May nell’ottobre 2016. Ma è solo dall’inizio del novecento
che apparve la moderna e contorta superstruttura di passaporti e visti, in un
pianeta dove la porosità delle frontiere era stata una realtà per un numero
incalcolabile di anni. La migrazione è come il tempo atmosferico: la gente si
sposta dalle zone di alta pressione a quelle di bassa pressione. Perciò
continueranno ad arrivare, in barca e in bicicletta, che lo vogliate o no.
Perché sono i creditori.
Perché messicani, guatemaltechi,
honduregni e salvadoregni vogliono disperatamente trasferirsi a nord, andare
nelle città degli Stati Uniti per lavorare come lavapiatti e donne delle
pulizie? Perché gli americani gli vendono i fucili e gli comprano la droga. Nei
loro paesi i dati sugli omicidi sono quelli di una guerra civile. Perciò si
spostano verso la causa della loro miseria: anche loro sono i creditori. Se non
volete che si trasferiscano da voi, non comprate la droga.
Perché i siriani partono? Non per le luci
di Broadway o il fascino primaverile di Unter den Linden. È perché l’occidente
– e in particolare gli statunitensi e i britannici – ha invaso l’Iraq, una
guerra illegale e non necessaria che ha aggravato quattro anni di siccità
legata al riscaldamento globale e messo in moto il processo che ha distrutto
l’intera regione. Hanno mietuto ciò che l’occi- dente ha seminato. Se la
giustizia esistesse, gli Stati Uniti sarebbero obbligati ad accogliere tutti
gli arabi sfollati dalle loro case. I 648 ettari del ranch della famiglia Bush
in Texas sarebbero pieni di tende per ospitare iracheni e siriani. Chi rompe
paga.
Ma gli ospiti che portano il peso maggiore
sono quelli che hanno avuto un ruolo molto minore degli Stati Uniti nel creare
il problema. Nel 2016 il Libano, con una popolazione di 6,2 milioni di
abitanti, ha ospitato più di un milione e mezzo di rifugiati. L’84 per cento
dei profughi si trova nel mondo in via di sviluppo. L’amministrazione Trump
ha preso misure per ridurre il nume- ro dei profughi da accogliere negli Stati
Uniti da 110mila a 50mila nel 2017 e potrebbe tagliare ulteriormente il
programma l’anno prossimo. Invece la Turchia, con una popolazione che è il 25
per cento di quella statunitense, ha più di tre milioni di siriani registrati
all’interno delle sue frontiere.
Il sogno di ogni migrante è vedere un
ribaltamento della situazione, con lunghe ile di statunitensi e britannici
davanti all’ambasciata del Bangladesh, del Messico o della Nigeria per
implorare un permesso di soggiorno. Il mio mentore, il grande scrittore di
lingua kannada U.R. Ananthamurthy, una volta fu invitato in Norvegia per fare
un discorso a un festival di letteratura. Ma il governo norvegese non gli diede
un visto fino all’ultimo momento, pretendendo che fornisse certificati,
dichiarazioni bancarie e prove circostanziate per dimostrare che non intendeva
restare nel paese. Quando finalmente arrivò a Oslo, l’ambasciatore indiano
diede una festa in suo onore.
“Per i norvegesi è facile ottenere un
visto indiano?”, chiese Ananthamurthy all’ambasciatore. “Oh sì, facciamo in
modo che sia molto semplice”. “Perché?”, obiettò lo scrittore. “Rendetelo
difficile!”.
La mia famiglia ha girato tutta la Terra –
dall’India al Kenya all’Inghilterra agli Stati Uniti e di nuovo in India – e si
sta ancora spostando. Uno dei miei nonni lasciò le campagne del Gujarat per
Calcutta ai bei tempi del novecento; l’altro mio nonno, che viveva a mezza
giornata di viaggio con un carro da buoi, partì poco dopo per Nairobi. A
Calcutta, il mio nonno paterno si mise a fare il gioielliere insieme al
fratello maggiore; a Nairobi, il mio nonno materno cominciò la sua carriera, a
16 anni, spazzando il pavimento dell’ufficio di contabilità dello zio. Così ebbe
inizio il viaggio della mia famiglia dal villaggio alla città. Era, me ne rendo
conto adesso, meno di cento anni fa.
Il discorso di Enoch Powell nel 1968
prendeva di mira le persone come i miei familiari: asiati- ci estafricani che
stavano cominciando a migrare nel paese di cui erano cittadini. Prevedeva la
rovina per un Regno Unito tanto sciocco da accoglierli: “È come vedere una
nazione attivamente impegnata nell’erigere la propria pira funeraria. Guardando
al futuro, sono pieno di presagi. Come un antico romano, mi sembra di vedere
‘il Tevere che schiuma sangue’”.
Mezzo secolo dopo, il Tamigi non sta
schiumando sangue. Di fatto è vero il contrario. Quella dei rifugiati asiatici
estafricani – cristiani, indù, musulmani, parsi e sikh – è una delle comunità
di qualunque colore più ricche del Regno Unito; i loro successi nell’istruzione
hanno superato quelli dei nativi bianchi.
Neanche l’Hudson schiuma sangue. “Negli
ultimi dieci anni, la crescita della popolazione, immigrazione compresa, ha
rappresentato circa la metà del tasso di crescita economica potenziale degli
Stati Uniti, contro appena un sesto in Europa e niente in Giappone”, spiega sul
New York Times l’analista Ruchir Sharma. “Se non fosse per la spinta che viene
da bambini e immi- grati, l’economia degli Stati Uniti ricorderebbe molto
quella di Europa e Giappone, che consideriamo lenti come tartarughe”.
I paesi che accolgono gli immigrati, come
il Canada, se la cavano meglio di altri che non li accettano, come il Giappone.
Ma che Trump, May o Orbán lo vogliano o no, gli immigrati continueranno ad
arrivare, per cercare la felicità e una vita migliore per i loro igli. Alle
persone che hanno votato per loro dico: non abbiate paura dei nuovi arrivati.
Molti sono giovani e pagheranno le pensioni degli anziani che vivono sempre più
a lungo. Porteranno con sé l’energia, perché nessuno ha più iniziativa di chi
ha lasciato una casa per compiere un lungo e difficile viaggio fin qui,
legalmente o meno. E se avranno le opportunità più basilari si comporteranno
meglio dei giovani dei paesi in cui si trasferiscono. Creeranno posti di
lavoro. Cucineranno, danzeranno e scriveranno in modi nuovi e stimolanti.
Renderanno più ricchi i loro nuovi paesi, in tutti i sensi. L’armata di
migranti che sta arrivando sulle vostre sponde in realtà è una lotta di
salvataggio.
SUKETU MEHTA è uno scrittore statunitense nato in India nel
1963. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è La vita segreta delle
città (Einaudi 2016). Questo articolo è uscito su Foreign Policy con
il titolo This land is their land.
Internazionale del 27 ottobre 2017 • Numero 1228 •
Anno 24
Internazionale è sempre molto sensibile a queste tematiche ed è un settimanale molto valido.
RispondiEliminafinché dura ci farà piacere :)
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