Il garrote – lo strumento che la mattina del 2
marzo 1974 spezzò le vertebre cervicali di Salvador Puig Antich (“Metge”)
ponendo fine in maniera ignobile alla sua breve vita di meccanico ma anche
studente e guerrigliero – evocava fosche atmosfere da Santa Inquisizione ma in
realtà era quasi contemporaneo della ghigliottina e ideato con i medesimi
intenti: una morte rapida che evitasse al condannato sofferenze inutili. Da
questo punto di vista si dimostrò molto al di sotto delle aspettative,
diventando nell’immaginario collettivo un vero e proprio strumento di tortura.
Come Praga per Jan Palach nel 1968 e i
quartieri cattolici di Belfast per Bobby Sands nel 1981, così tutta Barcellona
reagì con rabbia a quella esecuzione, interpretata come un’aggressione
all’intero popolo catalano oltre che l’ennesimo atto di barbarie del
franchismo. Già poche ore dopo la diffusione della notizia, centinaia di
persone scendevano in strada, nonostante il rischio di venire arrestati, per
manifestare la propria indignazione. Era un giorno invernale, grigio e umido.
Sfilarono per le Ramblas portando striscioni e bandiere o si riunirono nelle
chiese per leggere comunicati di condanna per l’esecuzione del giovane
militante libertario. Lo stesso accadeva nei vari quartieri popolari e nei
paesi della cintura industriale, da Terrassa a Sabadell.
Salvador Puig Antich venne frettolosamente
sepolto il giorno dopo nel cimitero di Montjuic. Qui si riunirono circa 500
persone a cui, con cariche e arresti, venne impedito di assistere alla
tumulazione. Tra la folla molti ostentavano drappi rossi e rosso-neri. Dopo le
cariche della polizia a cavallo l’intera zona rimase ricoperta degli
innumerevoli fiori che i manifestanti avrebbero voluto deporre sulla tomba di
Metge. L’ordine era di arrestare tutti coloro che portavano “fiori rossi”.
Va poi ricordato che anche in quei giorni di
repressione particolarmente efferata da parte del regime, la Chiesa catalana
mantenne il tradizionale ruolo di garante e portavoce della comunità popolare,
restando nel contempo depositaria della lingua e della cultura nazionali contro
ogni tentativo di estirparle.
A tale proposito Aureli Argemì, noto esponente
del CIEMEN – ovvero “Centro Internazional Abat Escarré Minorie Etnique
Nacionals” – mi aveva detto: «Storicamente il monastero di Montserrat è sempre
stato (e durante il franchismo in modo particolare) una casa aperta a tutti i
movimenti democratici del Paese. Molti esponenti del clero catalano, primo fra
tutti l’abate Escarrè, presero posizione contro il franchismo, soprattutto sul
fatto che il franchismo andava ostentando la bandiera del cattolicesimo a
difesa della propria ideologia. Furono gli stessi sacerdoti a dichiarare
pubblicamente che questo era un modo per nascondere tutto quello che di
anticristiano faceva il regime. Ritengo inoltre che l’abate Escarrè sia stato l’esponente
più importante del mondo della Chiesa a difendere i diritti dei catalani alla
propria lingua, alla propria cultura, alla propria identità».
Ricordo che Aureli Argemì (l’ho conosciuto
in Barcellona negli anni ottanta e poi rivisto in occasione di convegni e
manifestazioni, l’ultima volta a Firenze nel novembre 2002) fu egli stesso
monaco a Montserrat. Fu anche fondatore e segretario del CIEMEN.
Tornando al marzo 1974, restano assai
significative le prese di posizione di alcuni religiosi. Il reverendo Mossén
Pon Rovira non ebbe timore di affermare durante la predica che «come sacerdote
e come uomo chiamo Cristo a testimone che è stata commessa una grande
ingiustizia». La frase gli costò una quindicina di giorni di reclusione.
Intervenne lo stesso vicario episcopale della Pastorale del Lavoro, Mossén
Carreras. Durante una messa cui assistevano migliaia di persone dichiarò
testualmente: «Il nostro fratello Salvador è morto giustiziato come Cristo».
Qualche vecchio antifranchista, all’epoca poco
più che ventenne e poi approdato all’indipendentismo radicale, ricorda ancora
la paura di quei giorni dedicati agli appuntamenti clandestini e alla
distribuzione di manifesti, sfuggendo ai controlli e ai posti di blocco. Risale
ad allora l’espulsione dall’Università di gran parte degli studenti di
Barcellona e Valencia che avevano partecipato attivamente alle manifestazioni e
agli scontri con la polizia del 4 marzo.
Invece all’Ospedale cittadino centinaia di
medici e infermieri espressero la loro indignazione silenziosamente, portando
attorno al braccio una fascia nera in segno di lutto.
Salvador Puig Antich quindi non fu solo «un
morto catalano in più» ma una ferita che rimase aperta profondamente nel cuore
di Barcellona per molti anni. Ogni 2 marzo la lapide 2737 veniva ricoperta da
centinaia di fiori e il suo nome scandito nella manifestazioni.
Il giovane era stato catturato il 25 settembre
1973 insieme a Xavier Garriga. Quest’ultimo, sfuggito alla condanna a morte,
sembrò in seguito voler chiudere per sempre con un passato così carico di
tristi ricordi. Tramite amicizie comuni avevo cercato, invano, di intervistarlo
verso la fine degli anni ottanta. Non volli insistere più di tanto
rispettandone la volontà, anche se con rammarico. Del resto sono convinto che
quando lo riterrà giusto e opportuno scriverà quella storia in prima persona.
Senza delegarne il compito ad altri.
La ricostruzione della dinamica dell’arresto,
conclusosi con la morte di un ispettore, rivela come esistesse da parte della
polizia la predeterminata volontà di uccidere Salvador; solo casualmente il
colpo sparatogli da distanza ravvicinata si limitò a trapassargli la mandibola,
invece della tempia.
La sua esecuzione divenne l’oggetto di una
cinica transazione fra le varie componenti del regime. In pratica una vendetta
per la recente morte di Carrero Blanco (il 20 dicembre 1973 per mano di Eta).
In cambio, il nuovo capo del governo, Arias Navarro, ottenne l’appoggio
politico dei settori oltranzisti. Anche in questo la vicenda di Salvador e le
modalità della sua condanna a morte presentano una sorprendente e agghiacciante
analogia con quella del poeta sudafricano Benjamin Moloise, assassinato dal
regime dell’apartheid negli anni ottanta nel corso di una campagna elettorale.
Il gruppo di cui Puig Antich faceva parte si
era denominato MIL (Movimento Iberico di Liberazione) e si autodefiniva come
«una organizzazione non permanente». Nelle singole storie politiche dei suoi
militanti si ritrova il comune denominatore di un radicale antiautoritarismo
che li portò alla graduale ma sistematica rottura con partiti e sindacati
dell’opposizione. In questo atteggiamento (oltre ad una certa dose di
“estremismo infantile”) riemergeva una costante delle lotte operaie e popolari
catalane: la tendenza all’autogestione e alla federazione tra gruppi autonomi,
il rifiuto dello Stato, della centralizzazione e della burocrazia…
Quando, alla fine del 1971, Salvador si
integra nel MIL ha 23 anni (questa è anche l’età media dei componenti) e alle
spalle ha una militanza non indifferente nelle CCOO (Comissions Obreres) e
nelle lotte del suo quartiere. Ripercorrendone oggi la storia – breve ma
convulsa – i militanti del MIL sembrano quasi ossessionati dal bisogno di
stampare, pubblicare libri e riviste, sia con materiali di loro produzione che
traduzioni, ristampe ecc. I numerosi episodi di “autofinanziamento” (rapine
alle banche, simbolo del Capitale nell’immaginario collettivo dei soggetti
antagonisti, ma anche simbolo dell’Oligarchia finanziaria «espanyolitzadora»)
saranno sempre legati a precise “scadenze editoriali” (con circuiti non di
vendita ma di distribuzione militante e clandestina) oltre che alla necessità
di fornire un congruo sostegno finanziario alle lotte operaie che si svolgevano
in condizioni spesso disperate. Non esiste comunque in Europa un altro esempio
di gruppo guerrigliero altrettanto prolifico in campo editoriale in un arco di
tempo tanto breve. Non a caso il loro primo esproprio è ai danni di una
tipografia da cui vengono prelevate le attrezzature e i macchinari
indispensabili ai loro progetti. Bisogna dire che l’uso della stampa non si
limita a «rappresentare pubblicamente la coerenza politica delle azioni del
MIL» ma voleva essere anche un valido strumento politico-culturale nei
confronti della classe operaia. Quanto alle armi che si procurano sono, in
genere, poco più che residuati bellici, gelosamente conservati dai fuoriusciti
della FAI che avevano combattuto nella Resistenza francese. In parte vengono
fornite anche dai sopravvissuti del gruppo di Sabaté (el Quico).
La prima rapina vera e propria venne
realizzata nel settembre 1972 in una regione della “Catalogna profonda”, la
Cerdanya, non lontano dalla frontiera. La zona (già frequentata dalla
guerriglia antifranchista negli anni cinquanta) è montagnosa e i catalani la
conoscono molto bene. In questa zona avvennero gli ultimi episodi di resistenza
all’avanzata dei franchisti, nel ’39. Vi prese parte anche un giovanissimo
Sabaté prima dell’internamento in Francia. Inoltre la località non è lontana
dal “Pi de les Tres Branques”, l’albero dove annualmente si radunava
l’indipendentismo radicale (e dove Terra Lliure rendeva onore ai suoi caduti).
Il bottino venne immediatamente impiegato per pubblicare alcuni testi
rivoluzionari. Dopo solo 15 giorni entra in circolazione (ovviamente
clandestina) quella che probabilmente è l’esposizione più completa delle tesi
politiche del MIL: «Sobre la agitacion armada» cui farà seguito «Capital y
trabayo».
Il primo opuscolo rappresenta una critica
precisa e motivata di qualsiasi tendenza militarista; secondo il MIL quei
gruppi che teorizzano e praticano la «lotta armata militare» si collocano al di
fuori della lotta di classe perché si considerano «avanguardia» e trovano in
questo la giustificazione al loro operato. Diversamente – sosteneva il MIL – un
nucleo di «agitazione armata» non considera la sua attività autosufficiente ma
si colloca e si definisce all’interno della lotta di classe di cui è parte
integrante. Questo gruppetto di militanti considerava le sue azioni armate come
una esigenza tattica, organica al movimento operaio (almeno in quella
determinata fase storica, in cui le lotte di tipo rivendicativo rivelavano i
loro limiti sotto i colpi di una durissima repressione). Da queste
considerazioni derivava la convinzione di dover dare «un aiuto concreto» (si
definirono “grup d’aiut”) di essere cioè in grado sia di difendersi dagli
attacchi del regime franchista che di fornire sostegno economico agli operai
durante gli scioperi o in caso di arresti, licenziamenti ecc.
In conclusione i militanti del MIL ritenevano
che, nella Catalunya degli anni settanta, fosse questa la forma di difesa
possibile ed efficace, l’unica a poter essere autogestita dai diretti
interessati, le classi subalterne, senza deleghe ai “militaristi”. Per loro
queste posizioni rappresentavano esattamente il contrario di quanto veniva
generalmente messo in pratica dalle avanguardie di vario genere che riducevano
le lotte di massa a mera attività di sostegno alle loro organizzazioni
politico-militari. Volendo si può cogliere in questo atteggiamento anche una
critica implicita ad alcuni “eserciti di liberazione”.
Nonostante queste premesse teoriche, la
pratica impose alcuni accomodamenti e, verso la fine del ’72, prese forma una
certa collaborazione con gruppi di indipendentisti, fra cui i transfughi dal
PSAN della cosiddetta OLLA (Organitzaciò de Lluita Armada). Oltre a rapporti
personali e al confronto politico (con reciproci tentativi di proselitismo) si
ebbe un notevole interscambio di documentazione e informazioni. Da registrare
anche alcuni assalti congiunti alle banche. Le azioni venivano rivendicate con
lanci di volantini durante e dopo. In alcuni casi anche prima…
In coincidenza con il tredicesimo anniversario
della sua morte quelli del MIL, vollero riaffermare un costante riferimento
alla figura leggendaria di Sabaté compiendo un “esproprio” a Badalona. Quasi
contemporaneamente riuscirono ad avviare la più ambiziosa tra le loro
iniziative editoriale, le Ediciones Mayo ‘37. La prima opera a essere pubblicata
è un volume che raccoglie saggi e articoli dell’internazionalista (assassinato
a Barcellona dagli stalinisti) Camillo Berneri. Seguirà «Guerra di classe
1937 – Guerra di classe 1973» in cui vengono documentate e analizzate le
profonde analogie tra le posizioni del MIL e quelle degli anarcosindacalisti
catalani che si erano opposti sia alla reazione franchista che alla
controrivoluzione staliniana (“Guerra di classe” era stato il nome del
giornale diretto da Camillo Berneri). Testuale dalla prefazione: «A partire dai
fatti di Barcellona del maggio ’37 ogni tentativo rivoluzionario che non sappia
essere fedele a questa esperienza è condannato alla pura e semplice
inesistenza». Parole queste che in bocca a dei catalani suonano anche come un
richiamo alla loro storia nazionale, una sorta di rivendicazione della propria
identità. E questa identità (niente di “etnicista”, naturalmente) non si lega,
nella coscienza collettiva, soltanto a quanto vi è di profondo, ancestrale
(come la leggenda dei quattro segni rossi impressi dalla mano regale ricoperta
del sangue di un cavaliere morente) ma anche a quanto opera, agisce, muta nel
tempo storico, nelle contraddizioni e nelle lotte… si tratti delle donne di
Barcellona cadute durante l’assedio del 1714 e tumulate nelle fosse comuni del
Fossar (e ricordate con una cerimonia ogni 11 settembre) o dei comunardi
dell’Alto Llobregat decisi, in pieno XX secolo, a lottare a morte per rivivere
l’Età dell’Oro (forse il “Futuro Primitivo” di Zerzan?). Le une e gli altri
costruendo – o affossando? – la Storia e rinnovando il Mito.
Sembra che anche il più dirompente e
antitradizionale degli eventi, la Rivoluzione Sociale, venga ricordato e
interpretato in un’ottica “catalana” (ossia libertaria, consiliare,
autogestionaria e autogestita, federalista…) proprio nel momento in cui assume
valori e valenze universali. Lottare per il superamento della “forma Stato” a
favore dell’autorganizzazione totale delle classi subalterne deriva da una
concezione del mondo non dissimile da quella di chi teorizza il superamento
dello Stato-nazione per la autorganizzazione della comunità popolare nazionale.
Se qualcuno volesse in proposito confrontarsi
con le posizioni di alcuni movimenti molto attivi negli anni ottanta (“Crida a
la Solidaritat”, “Moviment d’Esquerra Nazionalista”…) potrebbe agevolmente
individuare quale sia stato in tempi abbastanza recenti il punto d’arrivo di un
percorso di reciproca contaminazione fra anarchismo catalano e lotte per
l’autodeterminazione.
Tornando a quelli del MIL, l’aver individuato
come principale avversario “il Capitale” (non solo il franchismo, non solo lo
Stato spagnolo) ha impedito che le loro azioni assumessero il carattere
talvolta indiscriminato di quelle di altri gruppi maggiormente caratterizzati
in senso “etnico”.
FUMETTI COME ARMA IMPROPRIA
Il 2 marzo 1973 Puig Antich è in attesa con
l’auto fuori del Banco Hispano-Americano del “passeig de Fabra i Puig”. Quando
vede avvicinarsi alcuni poliziotti in borghese suona il clacson per avvisare i
compagni all’interno della banca; l’episodio sarà ricordato, celebrato
simbolicamente da centinaia di auto durante una manifestazione contro la
condanna a morte. Nella sparatoria che ne deriva quelli del MIL escono dalla
banca correndo a zig zag sotto il tiro incrociato della polizia, rinunciando
volutamente a farsi scudo con ostaggi. Abbandonato il bottino, riescono a
sfuggire all’inseguimento dopodiché la maggior parte dei militanti si rifugia a
Tolosa dedicandosi completamente all’editoria. Nell’aprile del 1973 esce il
primo numero della rivista CIA cioè “Conspiracion Internacional Anarquista”.
Nell’editoriale, dedicato a un sommario bilancio della loro attività,c’è ancora
un richiamo alle origini del MIL: alle prime Commissions Obreres e a tutto il
movimento operaio antiautoritario e autonomo (anche se, riconoscono, le vicende
successive hanno creato distanza fra le realtà di fabbrica e la guerriglia).
Nell’interno ampio spazio è dedicato ai fumetti (alcuni in stile “Puzz” –
quello di Max Capa – con evidenti contaminazioni situazioniste) e a un articolo
commemorativo su Francisco Sabaté, “el Quico”.
Nell’estate 1973, mancando i fondi per
stampare il 2° numero della rivista “CIA” (pur sapendo che il Gruppo Speciale
anti-MIL è ormai sulle loro tracce) riprendono le attività di esproprio. Il 6
giugno viene assaltata una filiale del Banco di Bilbao, a Barcellona. Per la
prima volta Salvador entra nella banca e non si limita a fare da autista.
Dall’auto in corsa vengono lanciati volantini di rivendicazione, prima e dopo
l’azione. Ormai i quotidiani parlano esplicitamente del carattere politico
delle rapine compiute da un «grup de combat del moviment libertari». Il 19
giugno è la data del colpo più spettacolare (e proficuo) operato dal MIL: un
bottino di 3.074.000 pesetas al Banco di Banesto. Nei volantini di
rivendicazione viene precisato che il ricavato sarà destinato «als obreres
sense feina», agli operai disoccupati. E così avviene.
E’ in questo periodo che una serie di
contrattempi e incidenti dà inizio alla fine disgraziata del MIL. Salvador
dimentica in un bar una borsa con una P-38 calibro special, due caricatori e
tutti i suoi documenti (falsi e autentici) con le relative fotografie.
Contemporaneamente si aggrega al gruppo un ambiguo personaggio detto “el
legionario” che in seguito sparirà con 1.300.000 pesetas. Temendo una delazione
viene proposto di eliminarlo ma Salvador si oppone a queste misure e lo cerca
per parlargli e convincerlo. Val la pena di ricordare che in analoghe
circostanze anche Durruti e Sabaté si comportarono nello stesso modo perché
«chi tradisce tradisce sempre e solo se stesso. Non farsi giudice è il solo
modo per prevenire la nascita dei giuda».
Intanto si fa sempre più strada la spiacevole
sensazione dell’isolamento. In una riunione tenuta in Francia nell’agosto 1973
riconoscono onestamente che la maggior parte dei lavoratori è piuttosto critica
nei loro confronti e contraria alle “forzature” operate dal MIL rispetto alla
dinamica delle lotte. Questo conferma che negli ultimi mesi il sostegno
politico è venuto a mancare e che rischiano di estraniarsi ulteriormente dalla
realtà quotidiana delle fabbriche, di ridursi a rapinare per sopravvivere anche
quando sono ormai venute meno le condizioni della loro «propaganda con i
fatti». Da queste premesse e dal dibattito successivo deriva la scelta lucida e
irreversibile di «autodisoluciòn» (autoscioglimento). Il manifesto di “Autodisoluciòn
de la organizaciòn politico-militar dicha MIL” viene pubblicato
integralmente sul secondo numero della rivista “CIA” (al solito in compagnia di
provocatori fumetti). Il documento consiste in un ripasso delle lotte del
movimento operaio dal 1848 agli anni settanta del ‘900, con annessa critica al
riformismo e opportunismo di partiti e sindacati. Vengono elencati gli episodi
che, secondo il MIL, avevano rappresentato il «risorgimento rivoluzionario» a
livello planetario degli anni sessanta (maggio ’68, scioperi selvaggi in Europa
e America…) e nella penisola iberica in particolare (nascita delle Commissioni
Operaie, scioperi nelle miniere asturiane, lotte alla Seat e alla Harry
Walker…).
Quanto al MIL, si sostiene che è nato come
«gruppo specifico» (vedi la FAI negli anni trenta) di sostegno alle lotte
radicali del movimento. Solo in seguito – precisano – erano sorti «rapporti
stabili con i gruppi di matrice nazionalitaria e indipendentista, rischiando
forse di perdere di vista le prospettive iniziali».
Nelle conclusioni si richiamano esplicitamente
ai “Grups Autonoms de Combat” come «autentici organismi di azione
rivoluzionaria, autonoma e autogestita» che hanno saputo «porre una netta
discriminazione tra loro e il riformismo».
I GIORNI DELLA FINE
Nel settembre 1973 Salvador Puig Antich torna
a Barcellona e coerentemente rifiuta di prendere parte ad altre rapine su
proposta di alcuni membri irriducibili (o forse già sbandati) probabilmente gli
stessi che in seguito daranno vita ad una formazione denominata GARI. Da quel
momento prende inizio una serie impressionante di arresti da parte del “Gruppo
speciale per la disarticolazione del MIL”. Vengono arrestati alcuni esponenti
marginali e persone con legami affettivi che, sottoposti a duri interrogatori e
torturati, forniscono alla polizia nuovi elementi sulla struttura del MIL.
Negli ultimi giorni di libertà, Salvador si preoccupa di contattare avvocati
per la difesa dei compagni arrestati e si incontra con alcuni esponenti
dell’indipendentismo radicale che gli propongono di integrarsi nel loro gruppo.
Ma il cerchio continua a stringersi e il 25 settembre 1973 avviene il tragico
arresto nel corso del quale muore il vice ispettore di polizia Anguas Barragan
e si compie il destino di Salvador Puig Antich.
Quando venne portato all’ospedale, Salvador
presentava due vistose ferite da arma da fuoco: una alla mandibola e una (con
due fori) alla spalla. Si trovava inoltre in stato di commozione cerebrale per
i numerosi colpi inferti dai poliziotti. Intanto la polizia diffondeva
comunicati alla stampa con l’obbligo tassativo di pubblicarli. Secondo questi
comunicati ufficiali il giovane libertario risultava l’unico responsabile della
morte del “policia”, nonostante la dinamica fosse poco chiara; anche l’autopsia
venne effettuata in un commissariato e non all’Istituto di Anatomia. Gli ex
militanti del MIL e gli indipendentisti dell’OLLA (in cui forse Salvador
pensava di integrarsi) stavano cercando freneticamente di organizzare la
liberazione del compagno dall’ospedale. Informato di questo dall’avvocato Oriol
Arau, Salvador si oppose perché l’azione avrebbe sicuramente comportato rischi
gravissimi per il gruppo incaricato di eseguirla.
Venne poi trasferito al “Modelo” (carcere
fondato nel 1888 e abituale recapito di molti rivoluzionari catalani) con
addosso ancora i segni delle ferite. Non poteva mangiare e parlava con estrema
difficoltà. Finì naturalmente nel quinto braccio, quello dei prigionieri
politici (anche se questi ufficialmente non esistevano).
A farsi immediatamente carico della difesa di
Salvador sono il giovane avvocato Oriol Arau e, in seguito, lo stesso
presidente della “Académia de legislaciò i Jurisprudéncia de Catalunya”,
Francesc D’Assis Condomines Valls. Cominciano intanto a mobilitarsi le varie
associazioni antifranchiste, innanzitutto quelle di maggiore affinità
ideologica con il prigioniero: il Coordinamento dei gruppi libertari, gli “Estudiants
Llibertaris de Catalunya”, il “Comité Libertari Antirepressio” e naturalmente i
“Grups Autonoms de Combat”. Gli indipendentisti dell’OLLA e ciò che resta del
MIL organizzano un Comitato di Solidarietà che riesce a distribuire
clandestinamente 5000 copie di un dossier in cui si rivendica la condizione di
«Prigionieri Politici» degli arrestati. Pur non condividendo l’ideologia del
MIL interviene anche la più prestigiosa organizzazione del dissenso catalano:
la “Comissio de Solidaritat pro presos politics” che dal 1969 riunisce
cristiani, progressisti, nazionalisti, sindacalisti ecc e che rappresenta la
prima manifestazione di quella che sarà l’Assemblea di Catalunya.
Il 26 novembre 1973 Salvador viene
ufficialmente informato che contro di lui venivano richieste ben due condanne a
morte. Immediatamente Barcellona si ricopre di manifesti in catalano con la sua
foto e la didascalia «Militante rivoluzionario in pericolo di morte». Contro
l’esecuzione intervengono duramente anche la “Coordinadora delle CCOO
Metallurgiche”, le CCOO della Seat, la LCR, il PSAN…
Fino al 20 dicembre 1973 era opinione diffusa
che il regime invece di eseguire le condanne avrebbe concesso l’indulto. Ma
dopo l’uccisione da parte di ETA del presidente del governo, Carrero Blanco, si
comprese che ormai la vita di Salvador era appesa ad un filo.
Il 4 gennaio 1974 a Barcellona esplode la
prima bomba contro la convocazione del Consiglio di Guerra, riunito nella “Sala
di Justicia del Govern Militar”, nei pressi della Porta de la Pau. Altre ne
esploderanno nei giorni seguenti. Migliaia di firme vengono raccolte per una
richiesta di sospensione della pena capitale da inviare al presidente del
governo. L’8 gennaio inizia il processo contro Salvador e gli altri compagni
arrestati nella sede del Governo Militare. Viene accordata l’udienza pubblica e
la sala si riempie di un centinaio di giovani, mentre la maggior parte deve
restarsene fuori. I due episodi contestati a Salvador sono: l’assalto del 2
marzo 1973 al Banco Hispano-Americano al “passeig de Fabra i Puig” (quasi
simbolicamente Salvador verrà giustiziato a un anno esatto di distanza, il 2
marzo 1974) e la morte del poliziotto avvenuta la sera del 25 settembre 1973.
Salvador ammette di aver fatto fuoco in quest’ultima circostanza ma alla cieca,
a caso. Non era in grado di prendere la mira anche perché era stato
ripetutamente colpito alla testa dai poliziotti col calcio delle pistole
(percosse che gli avevano procurato la commozione cerebrale diagnosticata
all’ospedale). La difesa afferma che il colpo era partito casualmente durante
la rissa fra il giovane e i cinque poliziotti in borghese che cercavano di
arrestarlo, senza mandato e senza nemmeno essersi qualificati. Quando Salvador
era a terra, ferito, uno dei poliziotti si era avvicinato e aveva esploso da
brevissima distanza due colpi (uno alla testa e uno alla spalla) con il chiaro
intento di ucciderlo. Solo per caso il colpo che doveva essere mortale si era
limitato a fracassargli la mandibola, Da parte sua l’accusa sostiene che i reati
sono aggravati dal fatto che l’organizzazione MIL avrebbe «attentato contro
l’unità della patria, l’integrità dei suoi territori e contro l’ordine
costituito». Entrambi i reati vengono considerati «delitti di terrorismo» e
sottoposti agli articoli del Codice di Giustizia Militare. Invano la difesa si
aggrappa alla comprovata inconsistenza del MIL come organizzazione
specificatamente terrorista dato che non aveva sede, gerarchia interna e
nemmeno un ambito territoriale specifico. Cerca di dimostrare che le attività
erano episodiche, occasionali. Lo scopo della difesa è far rientrare le azioni
del MIL nell’ambito della giurisdizione ordinaria che non avrebbe comportato la
condanna a morte. La sorte di Salvador viene decisa rapidamente: trent’anni per
la rapina e condanna a morte per l’uccisione di Anguas.
Parrocchie di ogni parte della Catalunya,
facoltà universitarie, gruppi umanitari, associazioni professionali chiedono
pubblicamente al capo dello Stato la commutazione della pena.
Ha inizio una serie quasi quotidiana di
manifestazioni per strappare al boia il militante libertario.
9 gennaio: manifestazione del PSAN e del FNC a
Barcellona.
10 gennaio: manifestazione delle CCOO.
11 gennaio: altre manifestazioni a Barcellona
e a Terrassa, nei quartieri tradizionalmente legati al movimento anarchico.
12 gennaio: l’Assemblea de Catalunya denuncia
tramite i suoi rappresentanti la volontà del regime di assassinare Salvador che
viene paragonato a Grimau, fucilato il 20 aprile 1963.
Duemila studenti universitari sfilano in
silenzio per le vie della capitale catalana con bracciali neri. In tutti i
“Paisos Catalans” vengono brutalmente impediti conferenze e dibattiti sulla
pena di morte mentre Barcellona viene letteralmente ricoperta di scritte
«Salvem Puig Antich». Anche il Comitato di Solidarietà con i prigionieri del
MIL decide di passare all’azione e all’alba dell’11 gennaio una esplosione
sveglia bruscamente gli abitanti di alcuni quartieri popolari di Barcellona
(Pedralbes, Sants, les Corts…). L’attentato è rivolto contro un monumento
franchista già colpito l’anno precedente dal FAC (Front d’Alliberament Català).
Manifestazioni si svolgono anche all’Università di Bilbao, a Parigi e in
Occitania dove viene assalito il consolato spagnolo.
A Bruxelles vengono occupati gli uffici della
Iberia; a Strasburgo l’abitazione del console spagnolo. Verso la metà di
gennaio si svolge, con partenza da San Cugat, una manifestazione
particolarmente simbolica: centinaia di auto che espongono drappi neri
procedono incolonnate verso Barcellona. Giunte a “Fabra i Puig” bloccano la
strada e suonano ripetutamente i clacson in ricordo del gesto compiuto da
Salvador il 2 marzo del 1973. Toni, un compagno di origine castigliana ben
integrato in Catalunya, che vi prese parte racconta che «non si sono più viste
tante bandiere nere a lutto in Barcellona». E poi aggiunge con amarezza:
«Almeno fino all’Hipercor».
L’imminenza dell’esecuzione esaspera i
sentimenti di ogni settore della società catalana, ognuno dei quali reagisce
con i mezzi e i modi che gli sono congeniali. Si moltiplicano le petizioni e i
telegrammi che chiedono clemenza; si registrano nuove manifestazioni e altri
attentati.
EPILOGO: LA LUCE CHE SI SPENSE
Il primo marzo 1974 il Consiglio dei ministri,
presieduto dallo stesso Franco, confermò la condanna a morte per Salvador Puig
Antich e per un presunto «apolide di origine polacca» chiamato Heinz Chez (solo
recentemente si è scoperto che in realtà era un tedesco fuggito dalla Germania
dell’Est e che viveva sotto falso nome) responsabile della morte di un guardia
civil.
“Policia armada”, G. C. e
Brigata Sociale vennero dislocate in modo da far fronte alla reazione popolare.
In tutti i punti strategici di Barcellona vennero predisposti dispositivi di
sicurezza e i soldati restarono consegnati nelle caserme. Salvador venne
prelevato dalla sua cella (dove dormiva già vestito) e condotto davanti al
giudice istruttore che gli notificò la sentenza definitiva («e in quel preciso
istante saltò la luce lasciando la stanza completamente al buio per alcuni
minuti»). Il condannato trascorse poi tutta la notte in una cella denominata
“la cappella”, sorvegliato costantemente in attesa del trascorre delle dodici
ore rituali.
Intanto Oriol Arau (con la collaborazione di
Marc Palmés, l’avvocato catalano che l’anno seguente avrebbe difeso il
militante di ETA “Txiki”) tentava disperatamente, ma inutilmente, di guadagnare
tempo. Al loro ultimo incontro Salvador cercò di far coraggio alle sorelle in
lacrime. Durante la notte scrisse tre lettere, in catalano. Quella per il
fratello era intestata con un verso di Ferrè : «Je vais mettre en chanson la
tristesse du vent». Anche un estremo tentativo dell’abate di Montserrat di
ottenere clemenza andò incontro a un completo fallimento. Qualcuno vicino alla
famiglia mi ha raccontato che, mentre la conversazione tra Salvador e le
sorelle languiva, un militare gridò loro di procurarsi un lenzuolo altrimenti
l’avrebbero gettato in una fossa comune, come ai tempi delle Sacas (le
fucilazioni indiscriminate dei prigionieri repubblicani durante e dopo la
Guerra Civile).
Non posso fare a meno di cogliere la
coincidenza: la stessa minaccia, quasi con le medesime parole, venne proferita
nei confronti della madre di Patsy O’Hara, durante lo sciopero della fame che
lo portò alla morte nel 1981, in Irlanda del Nord.
Alle nove del mattino del 2 marzo 1974 le
sorelle vennero allontanate insieme all’avvocato Oriol Arau. Resteranno davanti
al carcere ad attendere l’uscita del furgone mortuario scortato dalla polizia.
Lungo il breve suo ultimo percorso, Salvador dovette passare in mezzo a due
cordoni della Brigata Sociale, ammanettato. Camminò da solo apostrofandoli e
chiedendo se fossero stati pagati bene per quel «lavoro straordinario». Infine,
verso le 9 e 40, il boia fissò l’anello di ferro del garrote attorno al collo
di “Metge”. Noi non lo abbiamo mai dimenticato.
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