«Io vi prego di informarvi. Abbiamo tutti fra
le mani un cellulare e un computer. In qualità di consumatori avete tutto il
diritto, e soprattutto il dovere, di sapere da dove provengono gli elementi che
li compongono. Quale sia insomma la filiera che dalle materie prime porta al
prodotto finale che acquistate nei negozi in Europa. Troppi di questi beni di
larghissimo consumo sono macchiati di sangue. Il sangue delle guerre fratricide
per il controllo delle miniere, il sangue di chi estrae i minerali necessari
sotto le bastonate dei vari signori locali del terrore, il sangue di troppi
innocenti vittime di battaglie per il predominio su un territorio».
Sono un pugno nello stomaco le parole di Denis
Mukwege, medico chirurgo e ginecologo nato a Bukavu in Repubblica democratica
del Congo nel 1955. E non saranno le uniche intense testimonianze della due
giorni torinese di questa figura divenuta celebre a livello internazionale per
l’incredibile parabola che lo ha portato a divenire una delle personalità più
note nell’ambito dei trattamenti dei danni fisici e psico-sociali provocati
dalle violenze sessuali sulle donne.
Il legame fra stupri e controllo delle materie
prime necessarie per la costruzione dei moderni apparecchi elettronici è
diretto: i vari gruppi para-militari al soldo dei potentati locali utilizzano
lo sfregio sistematico delle donne quale uno dei tanti strumenti volti a
denigrare l’avversario, ad annichilirlo non soltanto dal punto di vista fisico,
ma ancor di più se possibile sotto un profilo psicologico e di relazione.
Ospite del Centro piemontese di studi africani (presieduto
da Pietro Marcenaro e guidato con grande passione da un pool di collaboratori
coordinati da Federico Daneo) che ha organizzato i vari incontri, Mukwege ha
potuto visitare la splendida e
drammatica mostra fotografica di Stefano Stranges, fotografo
che, in un intenso e pericoloso viaggio fra le miniere del Congo, ha potuto
testimoniare le terribili condizioni di vita delle persone impegnate nell’estrazione
del metallo decisivo per la costruzione di telefoni e computer, il Coltan, la
columbite-tantalite, attorno al quale si combattono guerre fratricide in cui
ogni riferimento al concetto di umanità pare essersi dissolto nell’aria
insalubre delle bidonville e delle discariche a cielo aperto. Mostra intitolata
con intelligenza “Le vittime della
nostra ricchezza” a testimoniare proprio che il benessere del mondo
occidentale è troppo spesso edificato sulle violenze e le prevaricazioni patite
dal cosiddetto Sud del mondo. Fotografie che sviluppano un percorso che parte
dalle miniere del Congo e termina nelle immense discariche del Ghana, laddove i
nostri moderni gadget tecnologici vanno a finire una volta rottamati.
In occasione della visita alla mostra, che è
aperta ancora fino al 19 novembre nei locali dell’Arteficio Showroom di via
Bligny 18 a Torino, Mukwege ha dialogato con Luca Jourdan, professore di
antropologia culturale e politica all’università di Bologna, autore di vari
saggi sul rapporto fra giovani e guerra. Jourdan ha compiuto un excursus che
partendo dal Congo precoloniale, ha ripercorso le tappe che hanno portato alla
formazione delle moderne forze paramilitari, succedanee di un esercito
nazionale inesistente o piegato alle varie volontà dei ras regionali. «Oggi
dunque – ha commentato Jourdan – sarebbe necessario smantellare queste
compagini, ristabilire un ordine nazionale e creare un esercito capace di
pacificare il paese e non di destabilizzarlo». Impresa che appare al momento
una lontana chimera.
L’intervento di Mukwege nella sala del
Consiglio regionale piemontese nella mattinata di mercoledì 15 novembre ha
avuto al centro proprio l’oggetto del suo impegno pluriennale: la violenza
sulle donne «sistematica, pianificata alla scopo di distruggere non solo le
vittime dirette, ma le intere comunità nelle loro reti di relazioni sociali.
Donne violentate e mutilate davanti allo sposo, ai figli, ai vicini di casa
causano contraccolpi psicologici enormi, se possibile ancora peggiori dei
drammatici danni fisici patiti dalle donne. Annichiliscono una comunità, la
minano nel profondo e garantiscono il controllo a gruppi armati che gestiscono
l’immenso business dell’estrazione del Coltan».
Il dottor Mukwege ne ha curate oltre 50 mila,
un numero terribilmente enorme- tanto da guadagnarsi l’appellativo di “l’uomo
che ripara le donne”- eppure relativo. Vittima a sua volta nel 2012 di un
attentato in cui ha perso la vita la sua guardia del corpo e amico Joseph
Bizimana, da alcuni anni affianca agli interventi sul campo una ampia campagna
di informazione che lo vede ospite di vari consessi internazionali, tanto da
vedere a più riprese riconosciuto il proprio impegno con l’assegnazione di vari
premi fra i quali l’Olof Palme Prize, il Premio diritti umani delle Nazioni
Unite e il Premio Sakharov consegnatoli nel 2014 dal Parlamento europeo (sono
giunti con due videomessaggi i saluti di Gianni Pittella, capogruppo
dell’Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici a Strasburgo e di
Cecile Kyenge, oggi eurodeputata, già ministra per l’Integrazione del governo
Letta e soprattutto congolese del Katanga, che con il Kivu è fra le aree del
Paese più prospere di giacimenti minerari).
Nella difficile fase politica che dovrebbe
sfociare in libere elezioni – ancora una volta rinviate – per la successione di
Joseph Kabila, al potere dal 2001, il nome di Denis Mukwege quale possibile
candidato alla presidenza del Congo è in questi mesi espresso e caldeggiato da
larghe fette della popolazione civile, anche se il dottore non ha ancora
sciolto le riserve in merito. Pochi mesi fa, ad aprile il medico che Mukwege
considerava il suo erede è stato barbaramente assassinato da chi vede nelle
loro azioni un ostacolo al terrore sistematico che permea l’intera regione.
Le conclusioni del dibattito in un Consiglio
regionale gremito di pubblico e di scolaresche sono toccate a Federica Tourn,
giornalista che si occupa da tempo di questioni di genere: a lei il compito di
evocare lo stupro di guerra quale strumento da sempre utilizzato per
annichilire il nemico, e non certo soltanto in Africa (basti pensare ai 60 mila
stupri in Bosnia nel 1992, nel cuore dell’Europa), e da lei il richiamo ad un
fenomeno, quello della prevaricazione di genere, che con toni e sfumature
differenti caratterizza l’intero panorama globale, come i vari recenti casi di
cronaca testimoniano. L’incredibile vicenda di Margot Wallström, già
Rappresentante Speciale delle Nazioni Unite per i crimini sessuali in
situazioni di conflitto (che quindi proprio di questi temi si occupava) e oggi
ministro degli Esteri svedese, che ha denunciato «i palpeggiamenti avvenuti
durante un vertice ufficiale da parte di colleghi di alto rango» è sintomatica
delle ipocrisie e dei passi da compiere ovunque, anche fra le più alte istituzioni
democratiche.
(*) ripreso da «www.riforma.it», quotidiano
on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
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