Trecento morti e centinaia di feriti a Mogadiscio. Credevo di essermi
abituata agli attentati nel mio paese di origine, visto che da ventisei anni la
guerra somala fa parte della mia vita. Ma la verità è che non ci si abitua mai.
Il 14 ottobre, quando due
esplosioni hanno colpito la capitale della Somalia, sono rimasta
incollata a Twitter nella speranza di essere d’aiuto. Insieme a tanti somali
della diaspora, tra cui la scrittrice anglosomala Nadifa Mohamed, abbiamo
cercato di fare informazione soprattutto nella nostra Europa, l’Europa di cui
siamo cittadini, e che ha reagito con indifferenza a questo attentato.
Abbiamo anche provato, in qualche modo, a renderci utili, postando liste
dei feriti, volti degli scomparsi, appelli per donazioni. Due settimane
dopo sono esplose altre bombe, questa volta rivendicate dal gruppo
terroristico Al Shabaab, e altre 23 persone sono morte. Questi attentati ci
hanno riportato all’anno zero del conflitto in Somalia.
Un
capodanno che non dimenticherò
Quando è scoppiata la guerra civile era il 1991 e io non lo capii subito. Avevo sedici anni, era l’ultimo dell’anno e mi stavo preparando per andare a una festa di classe a Roma, in zona Trionfale. Come tutte le sedicenni ero eccitata all’idea di passare il mio primo capodanno fuori casa e la mia testa era piena solo di “che scarpe mi metto?” e “che rossetto ci sta bene con questo pantalone?”.
Quando è scoppiata la guerra civile era il 1991 e io non lo capii subito. Avevo sedici anni, era l’ultimo dell’anno e mi stavo preparando per andare a una festa di classe a Roma, in zona Trionfale. Come tutte le sedicenni ero eccitata all’idea di passare il mio primo capodanno fuori casa e la mia testa era piena solo di “che scarpe mi metto?” e “che rossetto ci sta bene con questo pantalone?”.
Non ero un’adolescente alla moda, e vestirmi mi creava sempre un po’ di
panico. Un po’ perché avevo qualche chilo in più e un po’ perché la mia
famiglia non se la passava bene economicamente. Quindi spesso mi mettevo quello
che capitava e che costava meno: il che naturalmente non aiutava molto la mia
autostima.
Ricordo che quella sera vidi mio padre con lo sguardo incollato alla tv.
Aveva le orecchie tese e la fronte aggrottata tipica di quando la sua faccia si
faceva seria. Lo guardai con un certo sgomento, e poi anch’io mi avvicinai per
ascoltare la notizia che tanto lo stava angosciando. Il telegiornale parlava di
scontri a Mogadiscio.
“È grave?”, chiesi. E lui: “Vai alla festa, non ci sono problemi”.
Stavo per andare in camera mia, ma poi sono tornata indietro. Lui era
ancora lì, con la testa sprofondata in un dolore che non riuscivo ad afferrare.
“Mamma sta bene? Non la dovremmo
chiamare?”, chiesi. Mia madre era in Somalia da quattro mesi. Era andata per
preparare il nostro ritorno. In Italia le cose andavano piuttosto male, e i
soldi non bastavano mai. “Dobbiamo tornare”, si erano detti i miei, e così mio
padre aveva comprato un po’ di terra dove costruire un cinema: “Faremo vedere a
Mogadiscio tutti i film che si è persa in questi anni. Non solo quelli di
cassetta, ma anche quelli d’autore, quelli di Visconti, Antonioni, Fellini”.
Mio padre non parlava d’altro e mia madre l’aveva preceduto per preparare il
terreno. Gli accordi erano di farmi finire l’anno scolastico a Roma e poi
saremmo tornati tutti di nuovo nella terra di Punt – così gli egiziani chiamavano
la Somalia ai tempi della faraona Hatshepsut.
“Non dovremmo sentirla?”, insistevo.
“Non ti preoccupare, tesoro”, mi disse, “poi chiamo io, vai alla festa”.
“Non ti preoccupare, tesoro”, mi disse, “poi chiamo io, vai alla festa”.
E così feci. Sono passati 26 anni e di quella festa non ho conservato nella
memoria nemmeno un fotogramma. Non so dire chi c’era, chi non c’era, non so se
ho ballato o se me ne sono rimasta in disparte come al mio solito. E non
ricordo nemmeno se mi sono divertita o meno. So solo che quella festa mi ha
fatto sentire in colpa per tutto questo tempo, e per alcuni anni mi ha
costretto a fare i conti con la bulimia.
Com’è
cominciata la guerra
La guerra era cominciata come una rivoluzione di popolo per cacciare il dittatore Siad Barre al potere dal 21 ottobre 1969. Barre aveva fatto vivere alla Somalia più vite e tutte folli. Il paese con lui era stato prima socialista e vicino all’Unione Sovietica, e poi, dal 1978, capitalista e vicino agli Stati Uniti.
La guerra era cominciata come una rivoluzione di popolo per cacciare il dittatore Siad Barre al potere dal 21 ottobre 1969. Barre aveva fatto vivere alla Somalia più vite e tutte folli. Il paese con lui era stato prima socialista e vicino all’Unione Sovietica, e poi, dal 1978, capitalista e vicino agli Stati Uniti.
Aveva fatto entrare la Somalia nella Lega araba e di fatto ci aveva
condannati a essere vassalli dell’Arabia Saudita. Aveva esasperato il culto
della personalità e non aveva permesso alcun dissenso o alcuna opposizione
politica.
Nel luglio 1990, trentamila spettatori hanno cominciato a fischiarlo
durante una partita di calcio nello stadio di Mogadiscio, altri hanno
cominciato a lanciargli pietre, e lui ha permesso che le forze di
sicurezza facessero una strage. Intanto, nel nord del paese
s’ingrossavano le file di un movimento di liberazione. Barre usò il pugno duro
e migliaia di persone furono uccise.
Cacciarlo era un dovere. Ma una volta scomparso il suo corpaccione dalla
scena politica, le armi puntate contro di lui sono state usate per spartirsi il
potere. Al centro della lotta, una serie di gruppi tribali che volevano
impadronirsi di un paese ricco di risorse naturali. Non era stata formata una
classe dirigente – Barre non aveva avuto alcun interesse a farlo – e questo
portò in fretta a una carneficina senza precedenti.
Com’è
cominciata la bulimia
Due mesi dopo lo scoppio della guerra, io e mio padre realizzammo che mia madre era scomparsa. Quando una persona scompare ti cade il mondo addosso. Non sai se è viva o morta, sei come sospeso.
Due mesi dopo lo scoppio della guerra, io e mio padre realizzammo che mia madre era scomparsa. Quando una persona scompare ti cade il mondo addosso. Non sai se è viva o morta, sei come sospeso.
In più, le notizie che arrivavano a casa erano notizie luttuose. “Lo sai il
figlio di Lamane, gli hanno sparato in fronte tre mesi fa”. “Ma lo hai sentito
di quel tale che aveva la farmacia a Shabelle, ora ha tre pallottole nel corpo
e non c’è nessuno che sa operare in Somalia, se ne sono andati via tutti?”.
Stavo male, avevo bisogno di trovare un ordine a quel caos, di
controllarlo. E fu così che un giorno mi dissi – anche se non consapevolmente –
controlliamo almeno quello che si può controllare, controlliamo il cibo. E dopo
essermi mangiata due ciambelle – una con una glassa alla cioccolata – andai a
vomitarle. Notai che il gesto di mangiare e vomitare mi calmava. Era come
prendersi una valeriana. La mia testa si svuotava di ogni pensiero. C’era solo
il cibo da controllare, non più la guerra.
Vecchie
divisioni, nuovi rituali
Certo, sapevo che nel paese si moltiplicavano i clan e le appartenenze. E che, improvvisamente, il vicino di casa che si salutava con gioia ogni mattina, era diventato un nemico da distruggere.
Certo, sapevo che nel paese si moltiplicavano i clan e le appartenenze. E che, improvvisamente, il vicino di casa che si salutava con gioia ogni mattina, era diventato un nemico da distruggere.
Organizzazioni come il Fronte democratico di salvezza somalo, il Congresso
della Somalia unita, il Movimento nazionale somalo rimasero intrappolate in
questa logica e non riuscirono a trasformarsi in partiti o movimenti. Per città
come Mogadiscio, Chisimaio, Brava e Hargheisa fu la catastrofe. In quei primi
anni di guerra si registrarono devastazioni, stupri, esecuzioni di massa.
Fu allora che cominciò la grande fuga. Molti somali si rifugiarono in Kenya
e in Etiopia. Altri cercarono di raggiungere l’Europa, qualcuno fortunatamente
ancora in aereo, anche se proprio tra il 1990 e il 1991 cominciarono i viaggi
sui barconi che portarono molti somali a Lampedusa.
Sapevo tutto questo, eppure ora la mia attenzione era assorbita da altro.
Avevo dei nuovi rituali: fare la lista della spesa e inserirvi i cibi più
schifosi, grassi e oleosi, ingoiarli senza quasi masticarli, mischiare sapori
che mai si mischierebbero, farsi guidare dalla soddisfazione maligna di aver
sprecato soldi per questo genere di cibo.
Io non volevo diventare magra (anche se poi lo sono diventata) o fare la
modella. Non era quello che mi spingeva a mangiare e vomitare. Non erano le
delusioni d’amore o la preoccupazione per i compiti in classe. Era la guerra
che mi faceva letteralmente vomitare. Volevo solo farla uscire da me.
Una
speranza infranta
Passai un anno a mangiare cibo schifoso e a vomitarlo nel bagno di casa. Intanto, in quei mesi erano emerse due figure nel mio paese di origine, quella di Ali Mahdi del Congresso della Somalia unita e quella del generale Mohamed Farah Aidid. Si facevano la guerra e controllavano fette importanti di territorio. Anche Mogadiscio fu divisa in zone d’influenza e gli scontri furono feroci.
Passai un anno a mangiare cibo schifoso e a vomitarlo nel bagno di casa. Intanto, in quei mesi erano emerse due figure nel mio paese di origine, quella di Ali Mahdi del Congresso della Somalia unita e quella del generale Mohamed Farah Aidid. Si facevano la guerra e controllavano fette importanti di territorio. Anche Mogadiscio fu divisa in zone d’influenza e gli scontri furono feroci.
Fu allora che le Nazioni Unite decisero di intervenire. Era il 3 dicembre
1992. Ricordo il rocambolesco sbarco dei marines sulla spiaggia di Mogadiscio,
su quella sabbia che conoscevo così bene. I soldati sembravano cattivi attori
di un copione scritto male, sembravano ragazzotti in gita. Ma non so perché,
quelle immagini ci accesero di speranza. Sarà facile per loro rimetterci in
carreggiata, pensavamo. E invece arrivarono altri scontri.
Trasformare Aidid nel nemico numero uno invece di mediare fu un errore.
Cominciarono i bombardamenti e le violenze di
alcuni militari italiani contro la popolazione civile. Furono uccisi
la giornalista Ilaria Alpi e l’operatore video Miran Hrovatin perché
probabilmente stavano
indagando su un traffico illegale di rifiuti tossici seppelliti
nelle spiagge somale.
Un elicottero Black Hawk fu abbattuto da un lanciarazzi e pian piano la
Somalia diventò un altro Vietnam, soprattutto per gli Stati Uniti, ma anche per
i paesi occidentali coinvolti.
Un
sussulto
Io intanto affinavo tecniche per vomitare il più velocemente possibile senza farmi sentire. Ovviamente non avevo la lucidità per capire che quello che facevo era sbagliato. Un sussulto lo ebbi un giorno, alle cinque del mattino. Non riuscivo a dormire e così mi misi ad ascoltare la radio con delle cuffie. A un certo cominciò Ciao mamma di Jovanotti. Al ritornello – “ciao mamma, guarda come mi diverto” – ebbi una crisi di pianto che somigliava a una crisi epilettica. Tremavo.
Io intanto affinavo tecniche per vomitare il più velocemente possibile senza farmi sentire. Ovviamente non avevo la lucidità per capire che quello che facevo era sbagliato. Un sussulto lo ebbi un giorno, alle cinque del mattino. Non riuscivo a dormire e così mi misi ad ascoltare la radio con delle cuffie. A un certo cominciò Ciao mamma di Jovanotti. Al ritornello – “ciao mamma, guarda come mi diverto” – ebbi una crisi di pianto che somigliava a una crisi epilettica. Tremavo.
Fu a quel punto che mi alzai e andai verso il frigorifero. Ci trovai una
bistecca, una di quelle alte e succulente che mio padre comprava per sé perché
sapeva che a me la carne non piaceva. Sapevo che c’era perché sapevo sempre
cosa c’era nel frigorifero, faceva parte del controllo maniacale che avevo sul
cibo. Ricordo che mi cucinai quella bistecca con un po’ di olio e sale, e un
uovo accanto. Trovai una rosetta, un po’ dura, e mangiai tutto. Si erano fatte
le sei del mattino. Spruzzai deodorante in tutta la cucina perché non volevo
che mio padre mi scoprisse.
Non sospettava nemmeno di avere una figlia bulimica. Era troppo preso a
cercare mia madre, a capire come salvarla.
La
diaspora
Moltissime persone erano riuscite a scappare dal paese. Nuruddin Farah nel libro Rifugiati ha cercato per primo di dare un senso a quell’“oceano di storie narrate dai tanti somali disseminati lungo la strada”:
Moltissime persone erano riuscite a scappare dal paese. Nuruddin Farah nel libro Rifugiati ha cercato per primo di dare un senso a quell’“oceano di storie narrate dai tanti somali disseminati lungo la strada”:
Ricordo le
lacrime traditrici che scorrevano sulle gote dei rifugiati. La mia sorella
minore era arrivata a Mombasa su una delle prime imbarcazioni che trasportavano
i somali. ‘Siamo scappati’, mi disse quando la incontrai nel campo profughi.
‘Siamo corsi via il più velocemente possibile, senza preoccuparci di dove
potessimo andare a finire, se in campagna tra i dispersi, o fuori del paese con
gli altri profughi senza più uno stato’.
I somali si rifugiavano a Manchester, a Minneapolis, a Stoccolma, a
Helsinki. E alla fine, dopo due anni, anche mia madre è riuscita a ritornare
con la sorella. Passarono il confine con il Kenya in modo rocambolesco. Avevano
preso un aereo sovietico che trasportava qat, la droga che dallo Yemen
all’Etiopia la gente mastica per rimanere sveglia. Atterrarono a Nairobi e da
lì un altro aereo le riportò da noi.
Ancora oggi ricordo l’arrivo a Fiumicino. Ero brutta, brufolosa, ma vestita
bene, mio padre mi aveva anche annodato una cravatta per essere distinta. Solo
i capelli erano il solito disastro, intrisi com’erano di brillantina. Mio padre
abbracciò mia madre, ma io non ci riuscii. Avevo il cuore in gola come
un’innamorata. Ero goffa e lei bellissima, come sempre.
Guarire,
peggiorare
Le bastò una settimana per capire che vomitavo quello che mangiavo e lo disse a mio padre. Da piccola era una pastora nomade. La sua infanzia è stata molto diversa da quella del marito, originario di una città di mare. Lui aveva studiato, lei no. Lei sapeva mungere le capre e le mucche, sapeva come calmare un dromedario, come fuggire da una iena. Lui aveva passato l’infanzia a nuotare nell’oceano Indiano. Tra i due la più pragmatica era lei. Perciò decise di sedersi su una sedia davanti al bagno per cominciare a cronometrarmi. Mi trattava un po’ come un dromedario. “Non puoi stare lì dentro più di un tot”, mi diceva. E io obbedivo.
Le bastò una settimana per capire che vomitavo quello che mangiavo e lo disse a mio padre. Da piccola era una pastora nomade. La sua infanzia è stata molto diversa da quella del marito, originario di una città di mare. Lui aveva studiato, lei no. Lei sapeva mungere le capre e le mucche, sapeva come calmare un dromedario, come fuggire da una iena. Lui aveva passato l’infanzia a nuotare nell’oceano Indiano. Tra i due la più pragmatica era lei. Perciò decise di sedersi su una sedia davanti al bagno per cominciare a cronometrarmi. Mi trattava un po’ come un dromedario. “Non puoi stare lì dentro più di un tot”, mi diceva. E io obbedivo.
Naturalmente non guarii subito, mi ci volle un anno. Fu sentirla parlare di
guerra, di pallottole vaganti, di fosse comuni, di fame, di case distrutte, di
bambini orfani e di rifugiati che mi aiutò a capire che non era vomitando che
potevo affrontare quello che stava succedendo al mio povero paese d’origine.
Per almeno i sei anni successivi ho dovuto affrontare la paura – e la
vergogna – di mangiare in pubblico. Ma la cosa peggiore, per me, era che mentre
io uscivo da una situazione difficile, la Somalia entrava in un’altra fase
terribile. Sul finire degli anni novanta il paese era finito nell’orbita del
wahabismo, un islam radicale che fino a quel momento non aveva conosciuto. I
somali erano islamici secolarizzati, religiosi ma mai fondamentalisti. Le somale,
che amano gli abiti colorati, di anno in anno furono private sia del colore sia
della libertà.
Il paese diventava sempre più un territorio di nessuno dove da una parte si
faceva la guerra, dall’altra parte si organizzava ogni genere di traffico, da
quello dei rifiuti tossici a quello degli organi. Nel caos, cresceva e
proliferava uno dei gruppi terroristici più feroci al mondo, ovvero Al Shabaab, che si è
macchiato di stragi orribili dentro e fuori i confini nazionali.
Oggi ancora non sappiamo chi c’è dietro l’attentato di Mogadiscio del 14
ottobre, ma possiamo dire che l’attacco sia figlio di tutti questi anni di
destabilizzazione della Somalia. Guardare i volti delle vittime sulla pagina
Facebook Gurmad252 –
dove un gruppo di giovani ha organizzato un sistema per aiutare chi cerca il
proprio caro tra i morti e i feriti – fa male. Come fa male l’indifferenza
dell’Italia, paese in cui sono nata e di cui sono cittadina. Possibile che
proprio le sue istituzioni, che hanno delle responsabilità storiche precise nei
confronti della Somalia, siano così indifferenti davanti alla storia e al
dolore dei somali?
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