Esaltato
e denigrato con la stessa facilità, Vladimir Putin, 65 anni appena compiuti,
per noi è un mistero. Ma non nel senso solito, quello delle gazzette: ex ufficiale del Kgb,
mamma mia che paura, occhi di ghiaccio e così via. È un mistero perché
l’Occidente adorato da sempre lo stereotipo dello sbirro diventato Presidente:
da un lato perché è divertente ed esotico, dall’altro perché consente di
liquidare una politica ingombrante con quattro luoghi comuni.
Nessuno si è troppo attardato a indagare come sia stato possibile che in piena perestrojka un agente segreto di seconda fila dei servizi sovietici diventasse il braccio destro di Anatolij Sobciak, il governatore ultraprogressista di San Pietroburgo, che lo difese anche dalle grane che a Vova venivano dall’essere alla guida del Comitato per le relazioni esterne della città, incaricato di attrarre e favorire gli investimenti esteri. Posto dove circolavano tanti soldi e tante voci di corruzione.
Nessuno si è troppo attardato a indagare come sia stato possibile che in piena perestrojka un agente segreto di seconda fila dei servizi sovietici diventasse il braccio destro di Anatolij Sobciak, il governatore ultraprogressista di San Pietroburgo, che lo difese anche dalle grane che a Vova venivano dall’essere alla guida del Comitato per le relazioni esterne della città, incaricato di attrarre e favorire gli investimenti esteri. Posto dove circolavano tanti soldi e tante voci di corruzione.
Nessuno che si sia chiesto perché nel 1996, quando il mitico Sobciak perse
le elezioni per il governatorato contro l’assai più “politico” Vladimir
Jakovlev, Putin non sia stato messo da parte ma invece chiamato a Mosca, dove in tre anni (dicesi tre) compì l’intero grand tour delle
poltrone che contavano: da delegato del Dipartimento per la gestione
delle proprietà presidenziali (giugno 1996) a primo ministro (agosto 1999),
passando per delegato al Personale dell’Amministrazione Presidenziale, delegato
alle Politiche regionali, capo dei servizi segreti interni e membro del
Consiglio di sicurezza. Ricordo gli amici russi quando lo nominarono capo del
Governo: Putin chi? Non uno che lo conoscesse. E poi, certo: 31
dicembre 1999, Boris Eltsin si dimette; marzo 2000, Putin diventa Presidente.
Insomma:
Putin è bravo, ok, ma vi pare una storia normale? A questo
passaggio dieci anni fa ho dedicato quasi metà di un libro (“La Russia è
tornata”) e la mia tesi è che Putin non è un carrierista di successo ma un uomo
scelto e allevato per il Cremlino. Da chi? Da chi comandava all’inizio degli
anni Novanta, i “democratici” e quelli del Kgb, che avevano cooperato a
liquidare l’elefante Pcus e l’Urss con relativo Gorbaciov ma non ne potevamo
più di Eltsin e degli sconquassi che agitavano il Paese.
Dico
tutto questo per un solo motivo. Ho certo torto, ma se ho ragione sarà meglio
mettersi seduti e cominciare a ragionare su quanto ancora avremo a che fare con
la Russia di Vladimir Putin. Perché è chiaro: se Putin è l’astuto
arrivista che ha conquistato la cima, finito lui finirà tutto. Ma se non è
così… Se invece Putin ha rappresentato finora la realizzazione di un progetto…
Allora per certi ambienti occidentali sono cavoli amari, come si dice. E la
Russia di Putin forse non finirà con Putin, che peraltro ha solo 65 anni e può
star lì un altro bel po’.
Nel
1996 Putin viene chiamato a Mosca, si diceva. E nel 1997 Zbigniew Brzezinsky,
ex segretario di Stato di Jimmy Carter, pubblica il saggio principale diventato
la Bibbia degli atlantisti: “La grande scacchiera”. Il sottotitolo era “La
supremazia americana e i suoi imperativi geostrategici”. Chiaro, no? Sulla Russia
Zibi Brzezinsky aveva idee precise: bisognava impedire la sua rinascita, anzi
sperare che si spezzasse in diversi tronconi. E appoggiare l’allargamento della
Ue, per contenerla il più possibile.
Ecco,
Putin ha mandato tutto questo a banane. Basta fare un piccolo elenco. Ha
stroncato l’indipendentismo ceceno (nel 1999, quando scoppiò la seconda guerra
del Caucaso, ormai subornato dall’islamismo) e ha rafforzato la verticale del
potere, restituendo a Mosca il pieno controllo delle regioni e delle province.
Frammentare la Russia? Addio.
Poi ha
piantato picchetti solidissimi intorno alle risorse naturali della Russia, considerate asset strategico non solo per l’andamento
economico del Paese ma anche per la sua politica estera. Un po’ come la golden share del nostro Governo su Telecom ma con
i modi un po’ più spicci della politica russa. Mikhail Khodorkovskij vuole
portare la Yukos a fare affari con le Sette Sorelle? Via, per un po’ in galera,
così ci ripensa. O avete davvero creduto che il buon Misha, che aveva fatto i
primi denari nei primi anni Novanta trafficando in valuta, fosse davvero
preoccupato per la morale della vita pubblica? Quindi: impedire la rinascita
della Russia, con il petrolio per anni sopra i 100 dollari il barile? Addio.
È sul
fronte europeo che Putin, secondo me, ha patito ciò che Zibi Brezinsky
sperava. La Ue si è allargata a tutto l’ex Est, anche a costo di sfrangiarsi e
incepparsi, con grande soddisfazione dell’amico americano. E più Vova
riproponeva l’idea di un’Europa che andasse dall’Atlantico agli Urali
(copyright Charles De Gaulle), più gli Usa, sfruttando timori e fobie dei Paesi
usciti dal blocco sovietico, riproponevano la centralità della Nato e la sua
espansione a Est, chiamando Georgia e Ucraina nel “Membership Action Plan” e
varando il progetto di scudo missilistico in Polonia e Romania.
Anche
perché impegnato con le questioni interne, in Europa Putin ha subito,
insomma. E pure la reazione ai fatti di Ucraina, nel 2014, con la riannessione della
Crimea e il sostegno alla lotta indipendentista del Donbass (che, curiosamente
assai, è assai meno compatito della snobbissima Catalogna), sa di catenaccio
più che di calcio totale.
Però
Putin è stato un buon judoka e due o tre mosse le ha imparate. Alla spinta americana
che voleva confinarlo a Est, il più lontano possibile da un inserimento in
Europa e quindi in Occidente, il Cremlino ha reagito in due modi. Con un
calcio-falciata laterale (mi pare che si chiami “o soto gari”), colpendo cioè
da un’altra parte. Putin ha riportato la Russia in Medio Oriente dove, l’hanno
capito anche i sauditi, è tutt’altro che di passaggio. L’intesa con l’Iran, la
fedeltà alla causa della Siria di Bashar al-Assad, il riavvicinamento
all’Egitto che nel 1972 aveva espulso i consiglieri sovietici, la diplomazia
con Israele, il tango con la Turchia di Erdogan, la partecipazione alle vicende
del mercato mondiale del petrolio hanno trasformato la Russia in un’insidia
vera per gli Usa, che da decenni spadroneggiano nella regione.
E poi,
sfruttando la spinta dell’avversario non potendo respingerla, Putin si è
lasciato portare verso Est, cogliendo l’occasione per un’alleanza strategica con
la Cina che con il presidente Xi Jinping aveva abbandonato il tradizionale
riserbo e aveva cominciato a picchiare i pugni sulla scena internazionale, dal
Mar Cinese meridionale alla Siria. Cina che si espande in Africa e in Europa ma
intanto ha sete di materie prime, di cui la Russia abbonda.
E poi
tante altre cose, belle e brutte, riuscite e non riuscite. Ma anche così, non è
un po’ troppo per un uomo solo al comando, per un bruto tenuto in piedi dalle
polizie, come ci piace raccontare? Se così fosse avremmo di fronte
magari un tiranno ma certo anche un genio della politica, un grande
amministratore e un fenomeno dai nervi d’acciaio, capace di sopravvivere a
vent’anni di trappole, agguati, inganni, minacce e anche semplici grane. Un
superuomo. Un eroe della Marvel. Un Avenger!
Vova è
bravo, chi può negarlo. Con il potere si sarà pure sbarazzato di qualche nemico
e di qualche amico diventato ingombrante. Ma tutto da solo… mah! Resto della mia
idea di dieci anni fa. Lì dietro c’è un’idea, un progetto. E mi sa che
continueremo ad averci a che fare per un bel po’.
Interessante riflessione geo-politica sul nuovo zar moscovita. Grazie.
RispondiEliminaanche se uno non è sempre d'accordo, Fulvio Scaglione scrive sempre cose interessanti
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