Le ultime mobilitazioni studentesche contro l’alternanza scuola-lavoro
hanno avuto una grande risonanza mediatica, anche a livello internazionale, al
di là dei numeri di studenti effettivamente mobilitati.
Per quale motivo?
È evidente che in questo caso entra in gioco la centralità della
contraddizione tra formazione, lavoro e capitale, la sua qualità strategica per
i movimenti, da una parte, per il dominio di classe ordo-liberista dall’altra.
Un campo di battaglia fondamentale, su cui è necessario e possibile, ancora una
volta, sviluppare autonomia, rapporti di forza, percorsi di liberazione
sociale. La posta in gioco è altissima e bene lo hanno compreso i governi
liberisti, i media, le nuove forme di comando e sfruttamento del capitale
post-fordista, con tutti i suoi apparati egemonici.
In realtà, proprio su questo nodo, la formazione della soggettività
funzionale ed addomesticata ai nuovi meccanismi di accumulazione ed estrazione
di plusvalore si rivela fino in fondo l’essenza della Buona Scuola. Si è sviluppato
su questo terreno un vasto movimento prima dell’approvazione della legge, in
particolare sul tema della meritocrazia e della democrazia scolastica.
Diciamolo con chiarezza: questo movimento non solo ha perso, ma non ha neppure
sedimentato significative sacche di resistenza.
Il limite più grosso delle mobilitazioni in quella fase è stato quello di
non essere riuscite ad oltrepassare l’ambito strettamente scolastico, con un
discorso complessivo sulla forma sociale, culturale, ideologica, produttiva, di
non aver colto che proprio nell’alternanza scuola-lavoro stava il nocciolo
fondamentale della Buona Scuola. Il mancato sviluppo di un pensiero critico su
cosa significhino oggi lavoro e formazione-lavoro ha fatto trionfare le
mistificazioni sulla crisi: la mancanza di lavoro e la povertà trasformate in
armi di ricatto, di assoggettamento e servilismo nei confronti del mercato
capitalistico.
E’ necessario riprendere con forza la problematica reddito-lavoro: essa
rappresenta, assieme alla questione ambientale e a quella migratoria,
l’orizzonte strategico per le nuove forme della lotta di classe contro il
dominio neoliberista e la costruzione del comune rivoluzionario.
La domanda fondamentale è: nella misura in cui i processi di automazione
rendono il lavoro sempre meno necessario, di quale lavoro stiamo parlando per
moltitudini enormi di uomini e donne espulse dal processo produttivo?
Foreign Office, nel suo report dell’anno scorso, diceva che il 45% dei lavori odierni
potrebbero scomparire domattina. Milioni di persone non hanno un salario e
milioni perderanno il lavoro nei prossimi anni per una ragione molto semplice:
di lavoro non ce n’è più bisogno. Informatica, intelligenza artificiale,
robotica rendono possibile la produzione di quel che ci serve con l’impiego di
una quantità sempre più piccola di lavoro umano. Questo fatto è evidente a
chiunque ragioni e legga le statistiche, ma nessuno può dirlo: è il più grande
tabù che ci sia, perché l’intero edificio della società in cui viviamo si fonda
sulla premessa che chi non lavora non mangia. Una premessa imbecille, una
superstizione, un’abitudine culturale dalla quale è necessario liberarsi.
Detto questo, sorge spontanea una riflessione sul filo del paradosso: tutto
ciò che potrebbe realizzare «quel sogno che l’umanità ha sempre saputo di
possedere», ovvero una comunità di liberi ed eguali liberata dal bisogno e
dalla necessità del lavoro, tutt’al più ridotto ad un minimo indispensabile
distribuito socialmente, in grado di sviluppare al massimo livello le potenzialità
umane, viene stravolto e rovesciato dalla logica del dominio capitalistico,
trasformato in una mega-macchina di emarginazione, precarizzazione assoluta,
impoverimento materiale, intellettuale, culturale. Come un mostruoso vampiro
che si nutre, svuota e si appropria della potenza della moltitudine.
La controrivoluzione neoliberista si appropria e rovescia le lotte sociali,
operaie e proletarie: così, il rifiuto del lavoro salariato e liberazione di
tempo di vita sottratto allo sfruttamento, le lotte contro il cottimo e per
l’egualitarismo, il salario sganciato dalla produttività, ovvero il reddito non
legato al lavoro, sono trasfigurati dal capitale nella precarizzazione
strutturale, distruzione di diritti, smantellamento del welfare, bassi salari,
sfruttamento selvaggio, nuovo schiavismo, fino al punto del lavoro gratuito. Un
rifiuto del lavoro di segno opposto.
Il neoliberismo opera sistematicamente, in tutte le relazioni sociali,
questo rovesciamento: la lotta dei poveri contro i ricchi diventa la lotta dei
ricchi contro i poveri, e dei meno poveri contro i più poveri; la lotta di
classe viene fatta dall’alto verso il basso, non più il lavoro sociale
organizzato contro i padroni, bensì i padroni contro i lavoratori. Si ruba ai
poveri per dare ai ricchi e lo Stato di diritto si trasforma in “diritto dello
Stato”, ovvero del potere costituito.
Se le lotte dell’operaio massa rivendicavano salario come variabile
indipendente, ovvero più reddito e più diritti, oggi il capitalismo sussume,
rovescia, fa proprio il punto di vista di classe contro i lavoratori:
produttività sganciata dal salario, fino al punto estremo del lavoro gratuito.
Il rovesciamento controrivoluzionario della lotta di classe non potrebbe essere
più evidente.
Di fatto, assistiamo al crollo della società salariale, ovvero della
regolazione del rapporto capitale- lavoro in base alla struttura del salario,
non solo come criterio di misura del valore del lavoro, ma anche per quanto
riguarda il sistema di leggi, norme e tutele che su questo rapporto si sono
fondate nel cosiddetto “compromesso fordista”.
Si tratta della “catastrofe lavorista”, la fine della legge del
valore-lavoro così come essa si è sviluppata dall’economia politica classica,
passando per l’ideologia borghese e socialista. Già Marx aveva sottoposto tale
legge ad una critica radicale: «quando l’economia borghese parla di valore del
lavoro, essa nasconde e mistifica il fatto che in realtà sta parlando di valore
della forza lavoro come merce, la quale, come tutte le merci, è determinata dal
tempo di lavoro necessario per riprodurla».
Il capitalista non paga il lavoro, se non in quella parte della giornata
lavorativa necessaria per riprodurre la forza lavoro, ossia i suoi mezzi di
sussistenza e sostentamento. L’altra parte consiste in lavoro non pagato,
gratuito, plusvalore assoluto, il mistero svelato della specifica modalità
attraverso cui i capitalisti generano il profitto. Il lavoro salariato è già di
per sé la forma moderna della schiavitù, seppure mascherata da un finto scambio
di equivalenti tra capitale e lavoro. Nella Critica al programma di
Gotha Marx attacca con veemenza l’ideologia lavorista dei
socialdemocratici tedeschi e di Ferdinand Lassalle: l’operaio rimane schiavo, a
prescindere che sia pagato tanto o poco, il che dipende dalla dialettica
rivendicativa, pure importante, ma che non mette in discussione le fondamenta
del sistema.
Ma oggi la situazione è già diversa: perlomeno nelle precedenti fasi del
capitalismo sussisteva un rapporto dialettico tra capitale e lavoro. Un
rapporto salariale strutturato che in ogni caso stabiliva il principio che non
potesse esistere lavoro gratuito, apertamente schiavistico o servile. Nel
lavoro post-fordista il salario viene totalmente destrutturato e non vi è più
alcun criterio di misura e di proporzione tra valore e tempo di lavoro. Nella
marxiana sussunzione reale l’intera società viene piegata e
sottomessa ai meccanismi di valorizzazione. In questo modo tempo di lavoro e
tempo di vita tendono a coincidere nella circolazione produttiva e
il dominio capitalistico si dispiega sull’intero arco della riproduzione
sociale. Il capitale assume la forma compiuta di potenza biopolitica, di
biopotere che sovrasta il mondo della vita in tutti i suoi molteplici aspetti.
Cosa misura più cosa? La ricchezza è un prodotto della cooperazione generale,
in cui sempre di più lavoro e non lavoro si intrecciano indissolubilmente nel
tempo di vita di ogni singolo. E allora, come può essere determinata la quota
parte di reddito che spetta a ciascuno in base al tempo di lavoro?
Marx è stato un grande anticipatore di questi processi: in particolare
ne Il frammento sulle macchine nei Grundrisse. Qui
troviamo alcune delle intuizioni più potenti e feconde di Marx, la tradizione
che fonda il nostro agire critico-rivoluzionario e non c’è nessun nuovo inizio
senza un recupero innovativo di essa. Mai come in questo caso vale la
concezione della storia antistoricistica ed antipositivista di
Ernst Bloch, sulla «attualità del non contemporaneo»: il Marx dei Grundrisse è
un non contemporaneo estremamente attuale.
L’automazione dei processi produttivi rende sempre più inutile il lavoro
umano, inteso come lavoro comandato, subordinato, come triste destino di pena e
fatica. Eppure, nonostante questa enorme potenzialità di liberazione, mai come
oggi lo sfruttamento globale si manifesta in tutta la sua pienezza, con la
reintroduzione di forme precapitalistiche, che richiamano le corvée medievali
o la schiavitù dell’era antica.
C’è qualcosa che non funziona nello schema marxiano, non tanto nella sua
straordinaria intuizione nei Grundrisse, bensì nella linearità del
processo da lui individuato: la sostituzione del lavoro umano con le macchine
non porta in maniera automatica e deterministica alla liberazione e creazione
di un uomo nuovo, in cui il libero sviluppo di tutte le
potenzialità di ognuno diventa la condizione per il libero sviluppo di tutti.
Marx è uomo della sua epoca, intrisa di positivismo e determinismo: sta a
noi raccogliere le sue potenti intuizioni ed adeguarle al capitalismo
contemporaneo, nella forma della globalizzazione neo-liberista.
La crisi della legge del valore, anche nella sua versione riformista e
socialdemocratica del giusto salario e del mito della piena
occupazione, non impedisce al capitale di farla vivere in maniera del tutto
artificiosa, come ideologia di puro comando: produzione di merci a mezzo
comando, senza più alcun criterio di misura e proporzione. È evidente, a questo
punto, la metamorfosi del lavoro salariato in lavoro servile o neo-
schiavistico.
È necessario che l’homo laborans (termine con cui i latini
chiamavano lo schiavo) sia a disposizione 24 ore su 24, subordinando tutto il
tempo di vita all’economia della promessa, alla speranza di racimolare
qua e là quote di reddito per sopravvivere. Ma quantomeno la schiavitù antica e
quella moderna, mascherata sotto la forma del salario, dedicava una quota di
lavoro necessario alla sopravvivenza della forza-lavoro. Oggi, l’ideologia
neoliberista, egemone nella sussunzione reale, va molto oltre: «ognuno deve
diventare imprenditore di sé stesso», mettendosi sul mercato in una
competizione orizzontale e universale. Una vera e propria guerra sociale per la
sopravvivenza, un bellum omnium contra omnes su cui Thomas
Hobbes fonda i principi dello stato autoritario ed il disciplinamento
delle dangerous classes, come succede nel capitalismo post-fordista
con il crollo della democrazia rappresentativa e lo sviluppo di un nuovo
fascismo post-moderno, istituzionale e sociale. Gli apologeti lavoristi
dell’automazione in atto sostengono che la disoccupazione di massa da essa
provocata sarà compensata da nuovi lavori; si tratta solo di aspettare ed
intanto adattarsi a qualsiasi ruolo tappabuchi, al servizio della mega-macchina
della circolazione produttiva.
Questi signori al soldo del capitale, siano essi di destra o di sinistra,
mentono sapendo di mentire: proprio perché automazione ed innovazione
tecnologica sono processi strutturali ed irreversibili e poiché essi implicano
nella loro stessa essenza il risparmio di lavoro, è logicamente evidente che
anche i nuovi lavori saranno investiti dallo stesso paradigma.
Essi semmai saranno monopolio esclusivo di una ristretta élite estremamente
selezionata in base a criteri di classe e di fedeltà al sistema: esperti,
dirigenti, ingegneri, manager, forza lavoro altamente qualificata a cui i
capitalisti delegano funzioni di comando sopra una massa sociale di enormi
proporzioni, dequalificata, impoverita, totalmente disciplinata ed asservita.
Un’immensa riserva di servi che devono anche desiderare di esserlo, contenti
della loro condizione e che si identificano con le oligarchie dominanti invece
che con i bisogni della propria
classe.
Diceva Hahhah Arendt: «viviamo in una società di lavoratori in cui non c’è
più bisogno di lavoro. Non si potrebbe immaginare niente di peggio».
L’ideologia del lavoro, e l’etica calvinista del lavoro come unica speranza per
la salvezza, è una infernale macchina di comando e dominio sociale.
Il lavorismo svela fino in fondo la sua essenza: un dispositivo
di disciplinamento e controllo sociale, come già aveva descritto ed intuito
Foucault a partire da Sorvegliare e punire, in cui si individuano i
meccanismi attraverso cui la modernità, fin dalle prime fasi dell’accumulazione
capitalistica, si pone l’obiettivo prioritario di piegare i corpi ed i
comportamenti dentro la norma produttiva dominante, dentro luoghi di
segregazione e sfruttamento quali le work- houses, in cui lo scopo
principale era quello di educare alla disciplina del lavoro la moltitudine di
poveri e diseredati. Un dato di esproprio, comando ed imposizione sta
all’origine dell’accumulazione di capitale e questo atto, marcato con la
violenza, col sangue e con il fuoco, si ripete in ogni nuova fase
dell’accumulazione.
Ma oggi, nella sussunzione reale dispiegata, c’è un salto di qualità: il
controllo non deve più essere esercitato solamente sui corpi, ma deve
impadronirsi delle menti, produrre una soggettività che interiorizza il
dominio, in cui lo schiavo si identifica col padrone, rovesciando
paradossalmente la dialettica delineata da Hegel nella Fenomenologia
dello Spirito. La giornata lavorativa, così come l’abbiamo conosciuta nella
fabbrica fordista, lineare, scandita da tempi regolari, con la sua divisione
rigidamente prefissata tra tempo di lavoro e tempo libero, tra parte di “lavoro
necessario” per la riproduzione della forza lavoro sotto forma di salario e
parte di pluslavoro-plusvalore non retribuito, è completamente saltata. Essa
aveva come condizione imprescindibile una politica di piena occupazione, lo
sviluppo illimitato delle forze produttive, il welfare. La giornata lavorativa
è stata scomposta, frammentata, suddivisa e la forza lavoro sociale ridotta ad
atomi di tempo individuali, da usare e ricombinare a comando, totalmente
subordinata alle esigenze del mercato, assolutamente precaria, intermittente,
mobile. Tempo di vita e tempo di lavoro si mescolano e si confondono: in
effetti è la vita stessa ad essere messa a valore, in ogni sua articolazione.
Il plusvalore non viene più estratto dalla giornata lavorativa unica, bensì
dall’insieme combinato di differenti giornate lavorative, dove salta ogni
misura e proporzione e dove l’unico criterio è la deregulation strutturale.
Tutto ciò non è un prodotto inevitabile della crisi, come se essa fosse
qualcosa di oggettivo, ma è l’uso capitalistico della crisi. La crisi non è
altro che accumulazione smisurata di ricchezza nelle mani di pochi, sottratta
alla cooperazione sociale, che ha impoverito moltitudini immense di uomini e
donne. La crisi non ha niente di oggettivo, ma un segno di parte, una
configurazione immediatamente politica e di classe.
La mistificazione sulla natura della crisi è efficace: la filosofia
della miseria, della scarsità, del bisogno-desiderio di
lavoro in quanto tale, come unica possibilità di considerarsi uomini e
cittadini, è profondamente iscritto nella logica dell’alternanza scuola lavoro.
La paura governa tutti questi processi e su di essa, da sempre, questa
rappresenta l’essenza del dominio: il dominio è paura, la paura è dominio.
La piena occupazione non ci sarà più, visto che l’automazione procede
inesorabilmente; gli studenti dell’alternanza non faranno per la maggior parte
il lavoro adeguato al corso di studi, ma saranno forza lavoro astratta,
nel senso marxiano del termine, generica, undeskilled,
dequalificata o sotto qualificata. L’alternanza serve soprattutto a plasmare
soggetti totalmente addomesticati, disponibile ad accettare qualsiasi ricatto,
lavori sottopagati o addirittura prestazioni gratuite a servizio della nuova
fabbrica sociale. Tutto il giorno a disposizione: i tentacoli del controllo
capitalistico si allungano su ogni frammento della vita umana, su ogni atomo di
tempo, ma soprattutto esso deve essere interiorizzato e diventare parte della
formazione del lavoratore. Non è un caso che questa strategia sia
particolarmente apprezzata dalle varie catene multinazionali del capitalismo
globalizzato, Mc Donald, Zara, Benetton, Eataly ed altre.
Diventa perciò fondamentale riprendere con forza l’idea del reddito
universale di cittadinanza, sganciato dal lavoro e dalla miseria del lavorismo:
l’enorme quantità di ricchezza prodotta ed i processi di automazione sempre più
sviluppati lo rendono non solo possibile, ma necessario.
In primo luogo, occorre liberarsi dalla superstizione secondo cui il lavoro
è l’unica fonte di identità umana e non invece lo sviluppo delle attività
superiori, l’arricchimento spirituale, l’arte, la cultura, lo sport o tutto
quello he aumenta la nostra potenza di vivere. «Chi dice che vi sia più
conoscenza nel lavoro che nel godimento?» diceva Gilles Deleuze. In secondo luogo,
il diritto alla vita deve essere socialmente garantito per tutti gli esseri
umani, indipendentemente dalla prestazione di tempo di lavoro: «ridurre lavoro,
liberare vita», questo il presupposto della rivoluzione sociale, lunga e
difficile, ma già attuale!
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