sabato 11 novembre 2017

L’alternanza scuola-lavoro e la lotta di classe rovesciata - Danilo Del Bello


Le ultime mobilitazioni studentesche contro l’alternanza scuola-lavoro hanno avuto una grande risonanza mediatica, anche a livello internazionale, al di là dei numeri di studenti effettivamente mobilitati.
Per quale motivo?
È evidente che in questo caso entra in gioco la centralità della contraddizione tra formazione, lavoro e capitale, la sua qualità strategica per i movimenti, da una parte, per il dominio di classe ordo-liberista dall’altra. Un campo di battaglia fondamentale, su cui è necessario e possibile, ancora una volta, sviluppare autonomia, rapporti di forza, percorsi di liberazione sociale. La posta in gioco è altissima e bene lo hanno compreso i governi liberisti, i media, le nuove forme di comando e sfruttamento del capitale post-fordista, con tutti i suoi apparati egemonici.
In realtà, proprio su questo nodo, la formazione della soggettività funzionale ed addomesticata ai nuovi meccanismi di accumulazione ed estrazione di plusvalore si rivela fino in fondo l’essenza della Buona Scuola. Si è sviluppato su questo terreno un vasto movimento prima dell’approvazione della legge, in particolare sul tema della meritocrazia e della democrazia scolastica. Diciamolo con chiarezza: questo movimento non solo ha perso, ma non ha neppure sedimentato significative sacche di resistenza.
Il limite più grosso delle mobilitazioni in quella fase è stato quello di non essere riuscite ad oltrepassare l’ambito strettamente scolastico, con un discorso complessivo sulla forma sociale, culturale, ideologica, produttiva, di non aver colto che proprio nell’alternanza scuola-lavoro stava il nocciolo fondamentale della Buona Scuola. Il mancato sviluppo di un pensiero critico su cosa significhino oggi lavoro e formazione-lavoro ha fatto trionfare le mistificazioni sulla crisi: la mancanza di lavoro e la povertà trasformate in armi di ricatto, di assoggettamento e servilismo nei confronti del mercato capitalistico.
E’ necessario riprendere con forza la problematica reddito-lavoro: essa rappresenta, assieme alla questione ambientale e a quella migratoria, l’orizzonte strategico per le nuove forme della lotta di classe contro il dominio neoliberista e la costruzione del comune rivoluzionario.
La domanda fondamentale è: nella misura in cui i processi di automazione rendono il lavoro sempre meno necessario, di quale lavoro stiamo parlando per moltitudini enormi di uomini e donne espulse dal processo produttivo?
Foreign Office, nel suo report dell’anno scorso, diceva che il 45% dei lavori odierni potrebbero scomparire domattina. Milioni di persone non hanno un salario e milioni perderanno il lavoro nei prossimi anni per una ragione molto semplice: di lavoro non ce n’è più bisogno. Informatica, intelligenza artificiale, robotica rendono possibile la produzione di quel che ci serve con l’impiego di una quantità sempre più piccola di lavoro umano. Questo fatto è evidente a chiunque ragioni e legga le statistiche, ma nessuno può dirlo: è il più grande tabù che ci sia, perché l’intero edificio della società in cui viviamo si fonda sulla premessa che chi non lavora non mangia. Una premessa imbecille, una superstizione, un’abitudine culturale dalla quale è necessario liberarsi.
Detto questo, sorge spontanea una riflessione sul filo del paradosso: tutto ciò che potrebbe realizzare «quel sogno che l’umanità ha sempre saputo di possedere», ovvero una comunità di liberi ed eguali liberata dal bisogno e dalla necessità del lavoro, tutt’al più ridotto ad un minimo indispensabile distribuito socialmente, in grado di sviluppare al massimo livello le potenzialità umane, viene stravolto e rovesciato dalla logica del dominio capitalistico, trasformato in una mega-macchina di emarginazione, precarizzazione assoluta, impoverimento materiale, intellettuale, culturale. Come un mostruoso vampiro che si nutre, svuota e si appropria della potenza della moltitudine.
La controrivoluzione neoliberista si appropria e rovescia le lotte sociali, operaie e proletarie: così, il rifiuto del lavoro salariato e liberazione di tempo di vita sottratto allo sfruttamento, le lotte contro il cottimo e per l’egualitarismo, il salario sganciato dalla produttività, ovvero il reddito non legato al lavoro, sono  trasfigurati dal capitale nella precarizzazione strutturale, distruzione di diritti, smantellamento del welfare, bassi salari, sfruttamento selvaggio, nuovo schiavismo, fino al punto del lavoro gratuito. Un rifiuto del lavoro di segno opposto.
Il neoliberismo opera sistematicamente, in tutte le relazioni sociali, questo rovesciamento: la lotta dei poveri contro i ricchi diventa la lotta dei ricchi contro i poveri, e dei meno poveri contro i più poveri; la lotta di classe viene fatta dall’alto verso il basso, non più il lavoro sociale organizzato contro i padroni, bensì i padroni contro i lavoratori. Si ruba ai poveri per dare ai ricchi e lo Stato di diritto si trasforma in “diritto dello Stato”, ovvero del potere costituito.
Se le lotte dell’operaio massa rivendicavano salario come variabile indipendente, ovvero più reddito e più diritti, oggi il capitalismo sussume, rovescia, fa proprio il punto di vista di classe contro i lavoratori: produttività sganciata dal salario, fino al punto estremo del lavoro gratuito. Il rovesciamento controrivoluzionario della lotta di classe non potrebbe essere più evidente.
Di fatto, assistiamo al crollo della società salariale, ovvero della regolazione del rapporto capitale- lavoro in base alla struttura del salario, non solo come criterio di misura del valore del lavoro, ma anche per quanto riguarda il sistema di leggi, norme e tutele che su questo rapporto si sono fondate nel cosiddetto “compromesso fordista”.
Si tratta della “catastrofe lavorista”, la fine della legge del valore-lavoro così come essa si è sviluppata dall’economia politica classica, passando per l’ideologia borghese e socialista. Già Marx aveva sottoposto tale legge ad una critica radicale: «quando l’economia borghese parla di valore del lavoro, essa nasconde e mistifica il fatto che in realtà sta parlando di valore della forza lavoro come merce, la quale, come tutte le merci, è determinata dal tempo di lavoro necessario per riprodurla».
Il capitalista non paga il lavoro, se non in quella parte della giornata lavorativa necessaria per riprodurre la forza lavoro, ossia i suoi mezzi di sussistenza e sostentamento. L’altra parte consiste in lavoro non pagato, gratuito, plusvalore assoluto, il mistero svelato della specifica modalità attraverso cui i capitalisti generano il profitto. Il lavoro salariato è già di per sé la forma moderna della schiavitù, seppure mascherata da un finto scambio di equivalenti tra capitale e lavoro. Nella Critica al programma di Gotha Marx attacca con veemenza l’ideologia lavorista dei socialdemocratici tedeschi e di Ferdinand Lassalle: l’operaio rimane schiavo, a prescindere che sia pagato tanto o poco, il che dipende dalla dialettica rivendicativa, pure importante, ma che non mette in discussione le fondamenta del sistema.
Ma oggi la situazione è già diversa: perlomeno nelle precedenti fasi del capitalismo sussisteva un rapporto dialettico tra capitale e lavoro. Un rapporto salariale strutturato che in ogni caso stabiliva il principio che non potesse esistere lavoro gratuito, apertamente schiavistico o servile. Nel lavoro post-fordista il salario viene totalmente destrutturato e non vi è più alcun criterio di misura e di proporzione tra valore e tempo di lavoro. Nella marxiana sussunzione reale l’intera società viene piegata e sottomessa ai meccanismi di valorizzazione. In questo modo tempo di lavoro e tempo di vita tendono a coincidere nella circolazione produttiva e il dominio capitalistico si dispiega sull’intero arco della riproduzione sociale. Il capitale assume la forma compiuta di potenza biopolitica, di biopotere che sovrasta il mondo della vita in tutti i suoi molteplici aspetti. Cosa misura più cosa? La ricchezza è un prodotto della cooperazione generale, in cui sempre di più lavoro e non lavoro si intrecciano indissolubilmente nel tempo di vita di ogni singolo. E allora, come può essere determinata la quota parte di reddito che spetta a ciascuno in base al tempo di lavoro?
Marx è stato un grande anticipatore di questi processi: in particolare ne Il frammento sulle macchine nei Grundrisse. Qui troviamo alcune delle intuizioni più potenti e feconde di Marx, la tradizione che fonda il nostro agire critico-rivoluzionario e non c’è nessun nuovo inizio senza un recupero innovativo di essa. Mai come in questo caso vale la concezione della storia antistoricistica ed antipositivista di Ernst Bloch, sulla «attualità del non contemporaneo»: il Marx dei Grundrisse è un non contemporaneo estremamente attuale.
L’automazione dei processi produttivi rende sempre più inutile il lavoro umano, inteso come lavoro comandato, subordinato, come triste destino di pena e fatica. Eppure, nonostante questa enorme potenzialità di liberazione, mai come oggi lo sfruttamento globale si manifesta in tutta la sua pienezza, con la reintroduzione di forme precapitalistiche, che richiamano le corvée medievali o la schiavitù dell’era antica.
C’è qualcosa che non funziona nello schema marxiano, non tanto nella sua straordinaria intuizione nei Grundrisse, bensì nella linearità del processo da lui individuato: la sostituzione del lavoro umano con le macchine non porta in maniera automatica e deterministica alla liberazione e creazione di un uomo nuovo, in cui il libero sviluppo di tutte le potenzialità di ognuno diventa la condizione per il libero sviluppo di tutti.
Marx è uomo della sua epoca, intrisa di positivismo e determinismo: sta a noi raccogliere le sue potenti intuizioni ed adeguarle al capitalismo contemporaneo, nella forma della globalizzazione neo-liberista.
La crisi della legge del valore, anche nella sua versione riformista e socialdemocratica del giusto salario e del mito della piena occupazione, non impedisce al capitale di farla vivere in maniera del tutto artificiosa, come ideologia di puro comando: produzione di merci a mezzo comando, senza più alcun criterio di misura e proporzione. È evidente, a questo punto, la metamorfosi del lavoro salariato in lavoro servile o neo- schiavistico.
È necessario che l’homo laborans (termine con cui i latini chiamavano lo schiavo) sia a disposizione 24 ore su 24, subordinando tutto il tempo di vita all’economia della promessa, alla speranza di racimolare qua e là quote di reddito per sopravvivere. Ma quantomeno la schiavitù antica e quella moderna, mascherata sotto la forma del salario, dedicava una quota di lavoro necessario alla sopravvivenza della forza-lavoro. Oggi, l’ideologia neoliberista, egemone nella sussunzione reale, va molto oltre: «ognuno deve diventare imprenditore di sé stesso», mettendosi sul mercato in una competizione orizzontale e universale. Una vera e propria guerra sociale per la sopravvivenza, un bellum omnium contra omnes su cui Thomas Hobbes fonda i principi dello stato autoritario ed il disciplinamento delle dangerous classes, come succede nel capitalismo post-fordista con il crollo della democrazia rappresentativa e lo sviluppo di un nuovo fascismo post-moderno, istituzionale e sociale. Gli apologeti lavoristi dell’automazione in atto sostengono che la disoccupazione di massa da essa provocata sarà compensata da nuovi lavori; si tratta solo di aspettare ed intanto adattarsi a qualsiasi ruolo tappabuchi, al servizio della mega-macchina della circolazione produttiva.
Questi signori al soldo del capitale, siano essi di destra o di sinistra, mentono sapendo di mentire: proprio perché automazione ed innovazione tecnologica sono processi strutturali ed irreversibili e poiché essi implicano nella loro stessa essenza il risparmio di lavoro, è logicamente evidente che anche i nuovi lavori saranno investiti dallo stesso paradigma. Essi semmai saranno monopolio esclusivo di una ristretta élite estremamente selezionata in base a criteri di classe e di fedeltà al sistema: esperti, dirigenti, ingegneri, manager, forza lavoro altamente qualificata a cui i capitalisti delegano funzioni di comando sopra una massa sociale di enormi proporzioni, dequalificata, impoverita, totalmente disciplinata ed asservita. Un’immensa riserva di servi che devono anche desiderare di esserlo, contenti della loro condizione e che si identificano con le oligarchie dominanti invece che con i bisogni della propria classe.        
Diceva Hahhah Arendt: «viviamo in una società di lavoratori in cui non c’è più bisogno di lavoro. Non si potrebbe immaginare niente di  peggio». L’ideologia del lavoro, e l’etica calvinista del lavoro come unica speranza per la salvezza, è una infernale macchina di comando e dominio sociale.
Il lavorismo svela fino in fondo la sua essenza: un dispositivo di disciplinamento e controllo sociale, come già aveva descritto ed intuito Foucault a partire da Sorvegliare e punire, in cui si individuano i meccanismi attraverso cui la modernità, fin dalle prime fasi dell’accumulazione capitalistica, si pone l’obiettivo prioritario di piegare i corpi ed i comportamenti dentro la norma produttiva dominante, dentro luoghi di segregazione e sfruttamento quali le work- houses, in cui lo scopo principale era quello di educare alla disciplina del lavoro la moltitudine di poveri e diseredati. Un dato di esproprio, comando ed imposizione sta all’origine dell’accumulazione di capitale e questo atto, marcato con la violenza, col sangue e con il fuoco, si ripete in ogni nuova fase dell’accumulazione.
Ma oggi, nella sussunzione reale dispiegata, c’è un salto di qualità: il controllo non deve più essere esercitato solamente sui corpi, ma deve impadronirsi delle menti, produrre una soggettività che interiorizza il dominio, in cui lo schiavo si identifica col padrone, rovesciando paradossalmente la dialettica delineata da Hegel nella Fenomenologia dello Spirito. La giornata lavorativa, così come l’abbiamo conosciuta nella fabbrica fordista, lineare, scandita da tempi regolari, con la sua divisione rigidamente prefissata tra tempo di lavoro e tempo libero, tra parte di “lavoro necessario” per la riproduzione della forza lavoro sotto forma di salario e parte di pluslavoro-plusvalore non retribuito, è completamente saltata. Essa aveva come condizione imprescindibile una politica di piena occupazione, lo sviluppo illimitato delle forze produttive, il welfare. La giornata lavorativa è stata scomposta, frammentata, suddivisa e la forza lavoro sociale ridotta ad atomi di tempo individuali, da usare e ricombinare a comando, totalmente subordinata alle esigenze del mercato, assolutamente precaria, intermittente, mobile. Tempo di vita e tempo di lavoro si mescolano e si confondono: in effetti è la vita stessa ad essere messa a valore, in ogni sua articolazione. Il plusvalore non viene più estratto dalla giornata lavorativa unica, bensì dall’insieme combinato di differenti giornate lavorative, dove salta ogni misura e proporzione e dove l’unico criterio è la deregulation strutturale.
Tutto ciò non è un prodotto inevitabile della crisi, come se essa fosse qualcosa di oggettivo, ma è l’uso capitalistico della crisi. La crisi non è altro che accumulazione smisurata di ricchezza nelle mani di pochi, sottratta alla cooperazione sociale, che ha impoverito moltitudini immense di uomini e donne. La crisi non ha niente di oggettivo, ma un segno di parte, una configurazione immediatamente politica e di classe.
La mistificazione sulla natura della crisi è efficace: la filosofia della miseria, della scarsità, del bisogno-desiderio di lavoro in quanto tale, come unica possibilità di considerarsi uomini e cittadini, è profondamente iscritto nella logica dell’alternanza scuola lavoro. La paura governa tutti questi processi e su di essa, da sempre, questa rappresenta l’essenza del dominio: il dominio è paura, la paura è dominio.
La piena occupazione non ci sarà più, visto che l’automazione procede inesorabilmente; gli studenti dell’alternanza non faranno per la maggior parte il lavoro adeguato al corso di studi, ma saranno forza lavoro astratta, nel senso marxiano del termine, generica, undeskilled, dequalificata o sotto qualificata. L’alternanza serve soprattutto a plasmare soggetti totalmente addomesticati, disponibile ad accettare qualsiasi ricatto, lavori sottopagati o addirittura prestazioni gratuite a servizio della nuova fabbrica sociale. Tutto il giorno a disposizione: i tentacoli del controllo capitalistico si allungano su ogni frammento della vita umana, su ogni atomo di tempo, ma soprattutto esso deve essere interiorizzato e diventare parte della formazione del lavoratore. Non è un caso che questa strategia sia particolarmente apprezzata dalle varie catene multinazionali del capitalismo globalizzato, Mc Donald, Zara, Benetton, Eataly ed altre.
Diventa perciò fondamentale riprendere con forza l’idea del reddito universale di cittadinanza, sganciato dal lavoro e dalla miseria del lavorismo: l’enorme quantità di ricchezza prodotta ed i processi di automazione sempre più sviluppati lo rendono non solo possibile, ma necessario.
In primo luogo, occorre liberarsi dalla superstizione secondo cui il lavoro è l’unica fonte di identità umana e non invece lo sviluppo delle attività superiori, l’arricchimento spirituale, l’arte, la cultura, lo sport o tutto quello he aumenta la nostra potenza di vivere. «Chi dice che vi sia più conoscenza nel lavoro che nel godimento?» diceva Gilles Deleuze. In secondo luogo, il diritto alla vita deve essere socialmente garantito per tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla prestazione di tempo di lavoro: «ridurre lavoro, liberare vita», questo il presupposto della rivoluzione sociale, lunga e difficile, ma già attuale!

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