mercoledì 22 novembre 2017

Chi aiuta chi? L’ Alternanza-Scuola-Lavoro e la grande farsa delle politiche sull’occupazione in Italia – Francesca Coin



“Piccoli snob radical-chic”, è questa la formula usata dal segretario generale della Fim-Cisl Marco Bentivogli per definire gli studenti scesi in piazza contro l’Alternanza Scuola-Lavoro. Ne avessimo sentito l’esigenza, potremmo affiancare a questa definizione un’altra perla, quella di Giancarlo Loquenzi, giornalista di Radio 1, che ci ha tenuto a precisare che gli studenti impiegati nell’alternanza non sono “schiavi delle aziende”, ma più semplicemente persone da aiutare in quanto “non in grado” anche semplicemente di “arrivare puntuali, […] comprendere la struttura gerarchica dell’ufficio, fare un caffè come si deve, ricordarsi il giorno dopo delle cose che gli erano state dette il giorno prima”.

Eccoci rivelata la ratio di tutti i recenti provvedimenti in tema di lavoro e giovani, dalla Legge di Bilancio approvata il 16 ottobre all’Alternanza Scuola Lavoro, il programma disciplinato dagli articoli 33 – 44 della legge 107/2015 (La Buona Scuola), che prevede sulla carta di incrementare le opportunità di lavoro e le capacità di orientamento degli studenti, mentre nei fatti rischia di rivelarsi la più grande creazione di lavoro gratuito obbligatorio mai esistita in Italia. La logica dichiarata è “aggredire quello che è il nemico più temibile dell’Europa di oggi, e della nostra società, cioè la disoccupazione giovanile”, ma il problema della disoccupazione in queste narrazioni non viene ricondotta alle caratteristiche macroeconomiche della realtà, come sarebbe corretto fare, ma al carattere delle nuove generazioni: alla profonda inettitudine dei giovani odierni e alla loro resiliente inedia, quella maledetta anda radical-chic di chi non si sa nemmeno allacciarsi le scarpe.

In un contesto siffatto, la strategia principale del governo per creare occupazione è coerente con la motivazione sopra riportata. Per creare occupazione non servono investimenti, sembrano aver pensato al governo, basta pagare le aziende affinché si facciano carico del reale problema della nostra società: i giovani.

Vediamo dunque chi aiuta chi, nelle attuali politiche del lavoro in Italia, e prendiamo il caso specifico dell’Alternanza Scuola lavoro. Nel contesto attuale, essa:

regala alle aziende lavoro gratuito. Da quest’anno saranno 1,5 milioni gli studenti coinvolti nell’alternanza, ma se ci rifacciamo agli ultimi dati utili, quelli relativi agli studenti in alternanza nell’anno scolastico 2015/2016, vediamo che in quell’anno secondo il Focus “Alternanza scuola-lavoro” pubblicato dal Miur nell’ottobre 2016 c’erano circa 652.641 studenti in alternanza tra licei e istituti tecnico-professionali, per un totale di circa 90 milioni di ore di lavoro gratuito erogate dagli studenti del liceo (200 ore per 455 mila studenti) e 80 milioni di ore di lavoro gratuito erogate dagli studenti degli istituti tecnici e professionali (400 ore per 200 mila studenti). È difficile in Italia calcolare l’entità del risparmio che questo elevato numero ore di lavoro gratuito consente alle aziende, a causa dell’estrema segmentazione degli inquadramenti contrattuali e dell’enorme pressione al ribasso seguita al Jobs Act. Supponendo, tuttavia, di poter retribuire il lavoro erogato con il compenso medio riconosciuto dal salario minimo nell’Eurozona (in Italia notoriamente inesistente), che è sì fortemente differenziato per paese ma consente almeno un orientamento minimo circa quale sia la retribuzione in grado di garantire dignità del lavoro; supponendo quindi che queste 170 milioni di ore di lavoro gratuito erogato dagli studenti vengano retribuite 7 euro all’ora l’alternanza scuola lavoro avrebbe consentito alle aziende un risparmio di circa 1 miliardo e 190 milioni di euro nel solo anno scolastico 2015-2016 – cifra che dobbiamo quasi triplicare a partire da quest’anno dato l’aumento del numero complessivo di studenti coinvolti nell’alternanza.
Oltre a questo risparmio, dobbiamo considerare che l’alternanza scuola lavoro legittima non solo l’esistenza di lavoro non pagato, ma anche la sostituzione di forza lavoro retribuita con forza lavoro non pagata, creando, si potrebbe dire, un esercito industriale di riserva interno ai luoghi della produzione e pertanto ancor più controllabile. Non è un caso che buona parte delle ore di alternanza per gli studenti delle classi terze e quarte della scuola secondaria vengano svolte nella pausa estiva all’interno di lavori stagionali. Come denunciato da Flc-Cgil, l’alternanza dovrebbe essere “una opportunità formativa e gli studenti non devono sostituire posizioni professionali”, come invece accade.
Detto che molti stagionali vengono sostituiti da studenti in alternanza, questo significa che né i vecchi stagionali né gli studenti in alternanza ora riceveranno un salario, il che implica anche che l’Alternanza scuola-lavoro va a creare nuova povertà nella classe lavoratrice, togliendo la retribuzione per intero ai giovani studenti-lavoratori stagionali (siamo passati in pochi anni dalla generazione 1000 euro alla generazione 350 euro, quando va bene, dice Marta Fana nel suo impeccabile Non è lavoro, è sfruttamento, da poco pubblicato per Laterza);
Non dimentichiamo poi che l’alternanza è obbligatoria ai fini degli esami di stato, il che significa che gli studenti, spesso minorenni, vengono mandati a lavoro in condizioni strutturali di ricattabilità e alla mercé del datore di lavoro il quale, se malintenzionato, può chiedere qualunque cosa in cambio di una valutazione positiva, come nel caso delle studentesse di Monza che la scorsa estate hanno denunciato il loro datore di lavoro per molestie sessuali.
Per non parlare di sicurezza e di infortuni sul lavoro, lasciati alla responsabilità della scuola e a corsi di formazione inadeguati, al punto che non mancano di esservi incidenti sul lavoro in un paese che già ha un triste record in questa direzione – si pensi al caso dello studente di 17 anni rimasto schiacciato il 6 ottobre 2017 sotto il carrello elevatore del muletto mentre svolgeva l’alternanza scuola-lavoro presso una ditta specializzata nella riparazione di motori industriali.
Mentre le scuole dedicano ore di formazione curricolare a Alternanza-Scuola lavoro, queste sottraggono altresì ore di formazione ai curricula tradizionali, ore di cui pure gli studenti, in particolare quelli provenienti da contesti meno agiati, avrebbero bisogno per evitare un destino di bassa manovalanza per aziende ansiose di tagliare il costo del lavoro, precisamente quello in cui ora vengono cooptati;
A tutto questo bisogna aggiungere il vantaggio indiretto che le aziende avranno assumendo studenti che hanno svolto almeno il 30% di ore di alternanza, come previsto dalla legge di bilancio, senza considerare gli incentivi derivanti dai Programmi operativi regionali (POR), che variano da regione a regione e che a loro volta si propongono di cofinanziare la realizzazione di progetti di alternanza scuola-lavoro a favore di studenti dell’ultimo triennio delle scuole superiori di II grado (ancora incentivi alle aziende per la creazione di lavoro non pagato).
Bisogna infine considerare che l’alternanza scuola-lavoro avviene all’interno di un contesto molto preciso, nel quale la strategia del governo per aumentare l’occupazione negli ultimi anni è rimasta sempre eguale: sgravi contributivi alle aziende e lavoro precario. In generale il costo degli sgravi contributivi come calcolato da Adapt è stato di circa 18 miliardi. Di converso, come dimostrano i dati dell’Osservatorio sul precariato dell’Inps pubblicati il 19 ottobre, nel mondo del lavoro ciò che aumenta di più sono i contratti a termine, a descrivere uno spostamento costante di risorse dallo Stato ai privati che alle giovani generazioni regala solo lavoro precario e mal pagato.
In questo contesto, è evidente che la retorica con la quale il governo assicura che “sta aiutando l’occupazione e i giovani” non nasconde solamente una narrazione indigesta e completamente pretestuosa oltreché inadeguata a descrivere il mercato del lavoro in Italia, nel quale le competenze dei giovani lavoratori sono fortemente eccedenti rispetto alle competenze richieste dal mercato del lavoro italiano – come dimostra un qualunque rapporto Almalaurea. La politica degli sgravi e della decontribuzione ha una finalità più profonda: artefare consenso e impedire lo sfaldamento delle relazioni tra le imprese e lo stato, in una fase storica nella quale il tessuto produttivo è messo a dura prova dal perdurare della crisi economica e dall’assenza di investimenti.

Vale la pena ricordare che negli anni della crisi il sistema delle imprese italiane ha ridotto i propri investimenti in modo estremamente significativo. Il rapporto Sivmez 2015 parla di “crollo epocale al Sud degli investimenti dell’industria in senso stretto, ridottisi dal 2008 al 2014 addirittura del 59,3%, oltre tre volte in più rispetto al già pesante calo del Centro-Nord (- 17,1%). Giù anche gli investimenti nelle costruzioni, con un calo cumulato del -47,4% al Sud e del – 55,4% al Centro-Nord; in agricoltura, (-38% al Sud, quasi quattro volte più del Centro-Nord, -10,8%). Quasi allineata nella crisi la dinamica dei servizi: -33% al Sud, -31% al Centro-Nord”.

Non solo, ma la crescita dell’occupazione ha risentito fortemente della decontribuzione promossa dal governo, mostrando un rallentamento nella dinamica occupazionale quando l’incentivo si affievoliva. La “ripresina”, inoltre, è stata agevolata dal basso livello del prezzo dei prodotti petroliferi e dalle politiche monetarie accomodanti derivanti dalle politiche europee. In questo contesto, questa ripresa di cui si è tanto parlato somiglia assai più a una farsa per mettere in scena la quale il governo paga le aziende per nascondere dietro a un consenso pagato a caro prezzo dalla collettività la produzione di lavoro non pagato. In uno scenario del genere, non si intravede all’orizzonte alcun reale motivo per aspettarsi un’inversione di rotta quando verranno meno le condizioni congiunturali che hanno favorito la lieve ripresa di questi mesi.

Al contrario, vi sono varie ragioni per attendersi un ulteriore deteriorarsi delle condizioni di lavoro e un aumento della pressione al ribasso quando verrà meno il quantitative easing in un contesto privo di investimenti e caratterizzato dal crollo della domanda interna e dalla proliferazione del lavoro non pagato. È evidente che sarebbe il caso di cambiare politiche prima che questo accada, perché allora non basteranno le acrobazie della classe politica né i venditori di fumo per nascondere l’irrimediabile crescita della povertà e del malcontento sociale.

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