“Piccoli
snob radical-chic”, è questa la formula usata dal segretario generale della
Fim-Cisl Marco Bentivogli per definire gli studenti scesi in piazza contro
l’Alternanza Scuola-Lavoro. Ne avessimo sentito l’esigenza, potremmo affiancare
a questa definizione un’altra perla, quella di Giancarlo Loquenzi, giornalista
di Radio 1, che ci ha tenuto a precisare che gli studenti impiegati
nell’alternanza non sono “schiavi delle aziende”, ma più semplicemente persone
da aiutare in quanto “non in grado” anche semplicemente di “arrivare puntuali,
[…] comprendere la struttura gerarchica dell’ufficio, fare un caffè come si
deve, ricordarsi il giorno dopo delle cose che gli erano state dette il giorno
prima”.
Eccoci
rivelata la ratio di tutti i recenti provvedimenti in tema di lavoro e giovani,
dalla Legge di Bilancio approvata il 16 ottobre all’Alternanza Scuola Lavoro,
il programma disciplinato dagli articoli 33 – 44 della legge 107/2015 (La Buona
Scuola), che prevede sulla carta di incrementare le opportunità di lavoro e le
capacità di orientamento degli studenti, mentre nei fatti rischia di rivelarsi
la più grande creazione di lavoro gratuito obbligatorio mai esistita in Italia.
La logica dichiarata è “aggredire quello che è il nemico più temibile
dell’Europa di oggi, e della nostra società, cioè la disoccupazione giovanile”,
ma il problema della disoccupazione in queste narrazioni non viene ricondotta
alle caratteristiche macroeconomiche della realtà, come sarebbe corretto fare,
ma al carattere delle nuove generazioni: alla profonda inettitudine dei giovani
odierni e alla loro resiliente inedia, quella maledetta anda radical-chic di
chi non si sa nemmeno allacciarsi le scarpe.
In
un contesto siffatto, la strategia principale del governo per creare
occupazione è coerente con la motivazione sopra riportata. Per creare
occupazione non servono investimenti, sembrano aver pensato al governo, basta
pagare le aziende affinché si facciano carico del reale problema della nostra
società: i giovani.
Vediamo
dunque chi aiuta chi, nelle attuali politiche del lavoro in Italia, e prendiamo
il caso specifico dell’Alternanza Scuola lavoro. Nel contesto attuale, essa:
regala
alle aziende lavoro gratuito. Da quest’anno saranno 1,5 milioni gli studenti
coinvolti nell’alternanza, ma se ci rifacciamo agli ultimi dati utili, quelli
relativi agli studenti in alternanza nell’anno scolastico 2015/2016, vediamo
che in quell’anno secondo il Focus “Alternanza scuola-lavoro” pubblicato dal
Miur nell’ottobre 2016 c’erano circa 652.641 studenti in alternanza tra licei e
istituti tecnico-professionali, per un totale di circa 90 milioni di ore di
lavoro gratuito erogate dagli studenti del liceo (200 ore per 455 mila
studenti) e 80 milioni di ore di lavoro gratuito erogate dagli studenti degli
istituti tecnici e professionali (400 ore per 200 mila studenti). È difficile
in Italia calcolare l’entità del risparmio che questo elevato numero ore di
lavoro gratuito consente alle aziende, a causa dell’estrema segmentazione degli
inquadramenti contrattuali e dell’enorme pressione al ribasso seguita al Jobs
Act. Supponendo, tuttavia, di poter retribuire il lavoro erogato con il
compenso medio riconosciuto dal salario minimo nell’Eurozona (in Italia
notoriamente inesistente), che è sì fortemente differenziato per paese ma
consente almeno un orientamento minimo circa quale sia la retribuzione in grado
di garantire dignità del lavoro; supponendo quindi che queste 170 milioni di
ore di lavoro gratuito erogato dagli studenti vengano retribuite 7 euro all’ora
l’alternanza scuola lavoro avrebbe consentito alle aziende un risparmio di
circa 1 miliardo e 190 milioni di euro nel solo anno scolastico 2015-2016 –
cifra che dobbiamo quasi triplicare a partire da quest’anno dato l’aumento del
numero complessivo di studenti coinvolti nell’alternanza.
Oltre
a questo risparmio, dobbiamo considerare che l’alternanza scuola lavoro
legittima non solo l’esistenza di lavoro non pagato, ma anche la sostituzione
di forza lavoro retribuita con forza lavoro non pagata, creando, si potrebbe
dire, un esercito industriale di riserva interno ai luoghi della produzione e
pertanto ancor più controllabile. Non è un caso che buona parte delle ore di
alternanza per gli studenti delle classi terze e quarte della scuola secondaria
vengano svolte nella pausa estiva all’interno di lavori stagionali. Come
denunciato da Flc-Cgil, l’alternanza dovrebbe essere “una opportunità formativa
e gli studenti non devono sostituire posizioni professionali”, come invece
accade.
Detto
che molti stagionali vengono sostituiti da studenti in alternanza, questo
significa che né i vecchi stagionali né gli studenti in alternanza ora
riceveranno un salario, il che implica anche che l’Alternanza scuola-lavoro va
a creare nuova povertà nella classe lavoratrice, togliendo la retribuzione per
intero ai giovani studenti-lavoratori stagionali (siamo passati in pochi anni
dalla generazione 1000 euro alla generazione 350 euro, quando va bene, dice Marta
Fana nel suo impeccabile Non è lavoro, è sfruttamento, da poco pubblicato per
Laterza);
Non
dimentichiamo poi che l’alternanza è obbligatoria ai fini degli esami di stato,
il che significa che gli studenti, spesso minorenni, vengono mandati a lavoro in
condizioni strutturali di ricattabilità e alla mercé del datore di lavoro il
quale, se malintenzionato, può chiedere qualunque cosa in cambio di una
valutazione positiva, come nel caso delle studentesse di Monza che la scorsa
estate hanno denunciato il loro datore di lavoro per molestie sessuali.
Per
non parlare di sicurezza e di infortuni sul lavoro, lasciati alla
responsabilità della scuola e a corsi di formazione inadeguati, al punto che
non mancano di esservi incidenti sul lavoro in un paese che già ha un triste
record in questa direzione – si pensi al caso dello studente di 17 anni rimasto
schiacciato il 6 ottobre 2017 sotto il carrello elevatore del muletto mentre
svolgeva l’alternanza scuola-lavoro presso una ditta specializzata nella
riparazione di motori industriali.
Mentre
le scuole dedicano ore di formazione curricolare a Alternanza-Scuola lavoro,
queste sottraggono altresì ore di formazione ai curricula tradizionali, ore di
cui pure gli studenti, in particolare quelli provenienti da contesti meno
agiati, avrebbero bisogno per evitare un destino di bassa manovalanza per
aziende ansiose di tagliare il costo del lavoro, precisamente quello in cui ora
vengono cooptati;
A
tutto questo bisogna aggiungere il vantaggio indiretto che le aziende avranno assumendo
studenti che hanno svolto almeno il 30% di ore di alternanza, come previsto
dalla legge di bilancio, senza considerare gli incentivi derivanti dai
Programmi operativi regionali (POR), che variano da regione a regione e che a
loro volta si propongono di cofinanziare la realizzazione di progetti di
alternanza scuola-lavoro a favore di studenti dell’ultimo triennio delle scuole
superiori di II grado (ancora incentivi alle aziende per la creazione di lavoro
non pagato).
Bisogna
infine considerare che l’alternanza scuola-lavoro avviene all’interno di un
contesto molto preciso, nel quale la strategia del governo per aumentare
l’occupazione negli ultimi anni è rimasta sempre eguale: sgravi contributivi
alle aziende e lavoro precario. In generale il costo degli sgravi contributivi
come calcolato da Adapt è stato di circa 18 miliardi. Di converso, come
dimostrano i dati dell’Osservatorio sul precariato dell’Inps pubblicati il 19
ottobre, nel mondo del lavoro ciò che aumenta di più sono i contratti a termine,
a descrivere uno spostamento costante di risorse dallo Stato ai privati che
alle giovani generazioni regala solo lavoro precario e mal pagato.
In
questo contesto, è evidente che la retorica con la quale il governo assicura
che “sta aiutando l’occupazione e i giovani” non nasconde solamente una
narrazione indigesta e completamente pretestuosa oltreché inadeguata a
descrivere il mercato del lavoro in Italia, nel quale le competenze dei giovani
lavoratori sono fortemente eccedenti rispetto alle competenze richieste dal
mercato del lavoro italiano – come dimostra un qualunque rapporto Almalaurea.
La politica degli sgravi e della decontribuzione ha una finalità più profonda:
artefare consenso e impedire lo sfaldamento delle relazioni tra le imprese e lo
stato, in una fase storica nella quale il tessuto produttivo è messo a dura
prova dal perdurare della crisi economica e dall’assenza di investimenti.
Vale
la pena ricordare che negli anni della crisi il sistema delle imprese italiane
ha ridotto i propri investimenti in modo estremamente significativo. Il
rapporto Sivmez 2015 parla di “crollo epocale al Sud degli investimenti
dell’industria in senso stretto, ridottisi dal 2008 al 2014 addirittura del
59,3%, oltre tre volte in più rispetto al già pesante calo del Centro-Nord (-
17,1%). Giù anche gli investimenti nelle costruzioni, con un calo cumulato del
-47,4% al Sud e del – 55,4% al Centro-Nord; in agricoltura, (-38% al Sud, quasi
quattro volte più del Centro-Nord, -10,8%). Quasi allineata nella crisi la
dinamica dei servizi: -33% al Sud, -31% al Centro-Nord”.
Non
solo, ma la crescita dell’occupazione ha risentito fortemente della
decontribuzione promossa dal governo, mostrando un rallentamento nella dinamica
occupazionale quando l’incentivo si affievoliva. La “ripresina”, inoltre, è
stata agevolata dal basso livello del prezzo dei prodotti petroliferi e dalle
politiche monetarie accomodanti derivanti dalle politiche europee. In questo
contesto, questa ripresa di cui si è tanto parlato somiglia assai più a una farsa
per mettere in scena la quale il governo paga le aziende per nascondere dietro
a un consenso pagato a caro prezzo dalla collettività la produzione di lavoro
non pagato. In uno scenario del genere, non si intravede all’orizzonte alcun
reale motivo per aspettarsi un’inversione di rotta quando verranno meno le
condizioni congiunturali che hanno favorito la lieve ripresa di questi mesi.
Al
contrario, vi sono varie ragioni per attendersi un ulteriore deteriorarsi delle
condizioni di lavoro e un aumento della pressione al ribasso quando verrà meno
il quantitative easing in un contesto privo di investimenti e caratterizzato
dal crollo della domanda interna e dalla proliferazione del lavoro non pagato.
È evidente che sarebbe il caso di cambiare politiche prima che questo accada,
perché allora non basteranno le acrobazie della classe politica né i venditori
di fumo per nascondere l’irrimediabile crescita della povertà e del malcontento
sociale.
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