Agli
inizi degli anni ottanta decisero di andare a Imola, ogni settimana.
Si
arrivava di pomeriggio con borse colme del necessario: quaderni, fogli,
pennarelli, ingredienti per cibi e torte, registratore macchina fotografica.
Due gruppi: maschi (più scarso) e femmine (più numeroso ed esuberante). Si
attraversava il parco fino a metà; alberi giganteschi facevano ala al piccolo
corteo, ma dominava anche il rosso spento dei padiglioni. All’entrata un
check-point in crisi d’identità; il transito era libero? In entrata quasi, in
uscita… La legge 180, approvata da poco…
Entrati,
sulla sinistra, una struttura bassa lunga piano terra con studi medici. Targhe
su tutti gli edifici: erano in pietra, scritte scolpite a caratteri rossi. In
quel tratto di viale comparivano messaggi in bacheca. Un giorno ne comparve uno
difficile da ignorare: i risultati delle elezioni. La curiosità indusse a
fermarsi: le percentuali di voto erano simili a quelle della città:
schiacciante maggioranza comunista. Niente sorpresa, l’isolamento verso
l’esterno non aveva avuto particolari effetti nell’ostacolare memoria e
identità. In quel pezzo di viale spesso veniva incontro qualcuno, ospite di
reparti diversi da quelli frequentati dai gruppi.
Un
giorno due persone anziane claudicanti vestite con abiti non proprio attillati.
Un uomo e una donna – si tenevano per mano come adolescenti – incuriositi dai
colorati visitatori. L’uomo si rivolse al gruppo con un sorriso contagioso.
Indicando la persona che lo affiancava, disse gioiosamente: mia marita! Si
erano conosciuti lì venendo da storie diverse? Vedovi, internati, vedovi dopo
l’internamento? Internati senza famiglia? Segregazione, esks, solitudine, non
li avevano uccisi né avevano tolto loro la capacità di gioire e di cercare il
contatto con persone che percepivano affini.
Dopo
l’edificio basso sulla sinistra, un viale a destra portava alle lavanderie e
poi ancora a un’ulteriore fascia verde; anche queste strutture basse, coperture
in eternit, bonificate troppo tardivamente, quando il gruppo non frequentava
più. A metà del parco il gruppo si divideva: maschi al reparto 17, donne al 10.
In passato erano stati i due reparti degli agitati. Affidati a un medico, altruista oltre misura, temerario
come pochi al mondo, generoso senza limiti. Veniva da un’esperienza di lavoro a
Gorizia: era Giorgio Antonucci, toscano di Firenze. Una sfida: vediamo cosa fai
con i più “difficili”.
Quando
il gruppo cominciò le visite, mezzi di contenzione nei due reparti non ve
n’erano più. Scomparsi da tempo, mai usati nella nuova gestione. Quei due reparti ex-punitivi non avevano più il ruolo di prima nell’organizzazione interna.
Altre strategie si adottarono per punire i disobbedienti reclusi. Banditi gli
psicofarmaci e le contenzioni, rimanevano evidenti certi postumi, difficili a guarire. Nelle
strutture e nelle persone: simboli o effetti di carcerazioni e violenze subìte.
Il
gruppo di uomini mise mano alle cartelle con il consenso delle persone per
capire meglio la loro storia; il gruppo delle donne era più versato sulle arti
grafiche e culinarie ma le cartelle furono lette anche da loro. Giungevano
racconti, dal reparto 10, a fine pomeriggio, di torte prodotte con dosaggi non
ortodossi, esteticamente non perfette, mangiate con le mani e buonissime, che
interrompevano (poco) le produzioni creative – raccolte poi in un filmato e un
libro – e sfociate in un progetto di uscita dalla residenza nel parco/prigione
per la più giovane delle ospiti; era lì per una malattia sconosciuta persino
alla peggiore delle
nosografie psichiatriche cioè l’essere orfani e abbandonati.
Il
gruppo di maschi, meno empatico, non aveva dimestichezza con torte e cibi.
Erano Saverio, entrato in contatto con gli altri nell’approssimarsi di una
crisi, come per guadagnarsi garanzie di non essere trattato con violenza;
Concetto, non tanto normaleper la psichiatria se le sue risposte al test di Szondi (raccolte per
una ricerca) avevano dato risultati disastrosi; Massimo infermiere in psichiatria – padre operaio della Bolognina –
e Vittorio, militante politico entrato in contatto con il medico dei reparti, aveva fatto la
proposta delle visite a Imola alla sua morosa che aveva detto subito sì.
Un
salone grande accoglieva i maschi al reparto 17. Il soffitto poggiava su
colonne alte, qualcuno vi si arrampicava riuscendo a mantenere la posizione per
tutto il pomeriggio con una capacità di resistenza non comune. Gli specialisti
– una volta chiamati alienisti o anche frenologi – parlavano di catatonia cioè una
malattia e non una reazione alla reclusione. Era invece l’impegno di un’energia
enorme altrimenti destinata a chissà quale esplosione o implosione. Scomparsa
la reclusione scomparve la catatonia, salvo qualche tendenza a ripercorrere,
per paura del nuovo, strade già solcate…
L’architettura
era impressionante: soffitti molto alti forse per facilitare la diluizione
delle urla e per smorzarle. Letti di contenzione. Spioncini per controllare il
recluso. Sportelli di protezione del televisore: quando andarono in disuso,
nessuno più lo spaccò. Le persone rimuginavano lamentazioni, rivolte al
passato; troppa la violenza subita per vivere a pieno il presente. Pure i loro
disegni rimuginavano lamentele, frammenti di immagini terrifiche, calcoli
matematici, simboli espressione di associazioni d’idee. Poco veniva scritto, su
invito, mentre le parole fluttuavano eludendo totalmente eventuali controllori
di volo.
Un
ospite volle farsi fotografare con alle spalle un manifesto del film Orizzonti perduti:camicia bianca ben lunga, robusto, gioviale, mai di cattivo umore,
sopracciglia così folte da parere teatrali. Argomento fisso gli insetti mosco-essenziali da
cui difendersi – da giovane – nelle campagne di Lugo: un tarantolato romagnolo?
Le
cartelle: rendicontazioni di torture da parte di sadici (inconsapevoli?) sicuri
della propria scienza.
Ernesto,
caduto in depressione per la morte della madre – lutto duro per tutti –
studente universitario, sensibile, timido, non apriva più i libri. La famiglia
considerò la sua reazione grave malattia. Internato. Aveva beneficiato di tutti
i ritrovati del “progresso” psichiatrico. Gli era stato inoculato sangue malarico.
Il gruppo dei visitatori non credeva ai propri occhi; lo avevano di fronte a
loro, non in una ricostruzione storica di Foucault. Ernesto guardava di
sottecchi attraverso occhiali spessi: ancora timido, gentile, a volte quasi
pauroso, come al tempo della sua cattura. Ogni pomeriggio donava tabulati di
formule matematiche. Gli era pesato non concludere gli studi; avrebbe dedicato
la laurea alla mamma. Ma erano tempi in cui si entrava senza possibilità alcuna
di uscire. Quando si cominciò a poterlo fare la furia dei medici aveva eroso la
sua autonomia possibile. Davvero lo avevano curato senza tregua. Lui
timido ma anche “ingrato”: fece trapelare un’esplicita avversione. Non
ringraziò i medici delle “amorevoli” cure dando l’occasione ai carcerieri di
confermare la diagnosi. «Ha persino interpretato l’inoculazione di sangue malarico
come una volontà degli psichiatri di danneggiarlo». I familiari avranno annuito sconsolati ma
rassicurati (troppo grave perché torni a casa). Ernesto ha resistito come ha
potuto, partigiano di un battaglione sconfitto dalla potenza militare del
nemico. Un’etichetta per tutti: “il paziente oppone viva resistenza alle cure: trasferito
al 17”.
E
di resistenti il gruppo ne incontrò tanti; anzi tutti avevano opposto viva resistenza.Antonio era stato sottoposto a dosi quotidiane di esks:
panacea universale; terapia buona per tutto anche per impedire la masturbazione
e guarire le nevrosi. Anche Antonio veniva dalla Romagna. Ormai libero aveva
crisi di panico se gli si proponeva di usare la libertà per andare in un altro
parco. Non riusciva a varcare il dissociato check point dell’ospedale. Uscire?
Accompagnato? Insufficiente, almeno le prime volte. Dopo mesi riuscì a vincere
la paura. Fu dopo un episodio impossibile da dimenticare. Si discuteva
dell’uscita, lui appoggiato a un muro oscillava col corpo in avanti in
continuazione. Due dei visitatori mettevano in campo le loro capacità per
convincerlo. Lui, a un certo punto, uscì dalla sua monotona snervante
oscillazione per fare un gesto che pareva una sberla. Il più vicino era
Vittorio. Nell’approssimarsi dell’impatto si dipanò un suo percorso mentale: la
pericolosità non esiste / Basaglia attaccato dai fascisti / Thomas Sheff-per
infermità mentale… Quali i rischi? Da un lato la sberla; dall’altro il
ricredersi sulla necessità di abbattere il manicomio. Vittorio aspettò: la mano
di Antonio a un millimetro dalla guancia frenò con una potenza impensabile
trasformandosi in carezza. Tutto era in salvo: la soddisfazione di non aver tentennato sullo
stereotipo, la gioia di un’esperienza impossibile da dimenticare anche se moltopiccola… Ma tanto
piccola?
Il
gruppo frequentò per oltre un anno. Più passava tempo dal 1978 più il
linguaggio della politica reiterava di voler superare il residuo manicomiale. Ma l’inflazione di buone intenzioni fu meno efficace della
dipartita del residuo per motivi di età avanzata. Salvo lo stillicidio delle vittime
come quelle che muoiono ad armistizio già dichiarato. Un ospite investito sulle
strisce pedonali da un’auto (ah se il matto fosse stato tenuto sotto chiave non avrebbe ammaccato la
carrozzeria omicida!). E dunque per lesa carrozzeria il medico del reparto fu
processato. Oppure l’ospite aggredito da un compagno di sventura di un reparto chiuso con
ribaltamento di ruoli da parte dei media.
Andate
a visitare il parco se potete, non troverete nessun residuo. Sulle
ceneri del manicomio è sorta una fetta di edilizia (popolare?). Ma se
concentrate l’attenzione sul fruscio delle foglie, sentirete le risate gentili
che tutte scambiavano con Angela, Chiara, Donatella, Giovanna, Manuela, Piera
al reparto 10 e i liberatori borbottii cui Concetto, Massimo, Saverio e
Vittorio davano significato nel reparto 17, mettendo tutte e tutti in comune
quello sprazzo di serenità e di forza cui si riesce a dar vita visitando luoghi
difficili.
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