“Gaza è salda e non si inginocchia”,
questa la parola d’ordine del 31° venerdì di protesta lungo la linea terrestre
dell’assedio di Gaza.
Per fermare la protesta si è parlato di
mediazioni egiziane, poi di mediatori che hanno desistito, quindi di ulteriori
dissidi interni tra le due principali fazioni (Hamas e Fatah) che sembrano sempre
più irresolubili e che faciliterebbero la minacciata aggressione massiccia
israeliana. Poi timidamente – perché di fronte a Israele le istituzioni
internazionali sono sempre timide – l’Onu ed alcuni governi hanno invitato lo
Stato ebraico a limitare la forza, alias la brutale violenza omicida, ma è più
elegante chiamarla forza. Quindi è sceso in campo il re di Giordania per
rivendicare il diritto ai “suoi” territori in West Bank prima che Israele
riesca a realizzare il suo obiettivo di annetterli completamente come sa già
fin troppo bene ogni osservatore onesto.
Intanto in tutta la Palestina Israele
uccide (l’ultimo ragazzo ucciso in Cisgiordania, al momento, aveva 23 anni, si
chiamava Mahmud Bisharat e fino a ieri viveva a Tammun, vicino Nablus), arresta
arbitrariamente, ritira i permessi di lavoro ai familiari di Aisha Al Rabi, la
donna palestinese uccisa dalle pietrate dei coloni fuorilegge invertendo i
ruoli tra vittima e carnefici, demolisce le abitazioni palestinesi e interi
villaggi, non ultimo un villaggetto poco lontano dal sempre illegalmente
minacciato Khan Al Ahmar che, a differenza di quest’ultimo, non essendo salito
agli onori della cronaca è rimasto invisibile e non ha creato “fastidiose”
proteste all’occupante.
Israele avanza senza freni col suo
bagaglio di morte e di ingiustizia, distribuite con la naturalezza di un
seminatore che sparge i semi nel suo campo, e i media democratici sussurrano
con discrezione, o tacciono a meno che qualcosa non sia proprio degno di
attenzione per non essere scavalcati totalmente dai social e perdere audience.
Quindi, dello stillicidio quotidiano di
vite e di diritti prodotto dall’occupazione israeliana difficilmente i media
danno conto, solo la Grande marcia del ritorno riesce ad attirare poco poco la
loro attenzione sia perché la creatività dei manifestanti, sia perché
l’altissimo numero dei morti e dei feriti – regolarmente inermi – un minimo di
attenzione la sollecitano. Ricordiamo che solo ieri i martiri, solo al
confine, sono stati 4 e i feriti 232 di cui 180 direttamente fucilati in
campo. Tra i feriti, solo ieri, si contano 35 bambini e 4
infermieri che prestavano soccorso ad altri feriti.
Ad uso di chi leggerà quest’articolo e
magari non ricorda o non sa i motivi della Grande marcia, precisiamo che i gazawi chiedono
semplicemente che Israele rispetti la Risoluzione Onu 194 circa il diritto al
ritorno e tolga l’assedio illegale che strangola la Striscia, cioè
i gazawi chiedono quello che per legge internazionale dovrebbe già essere loro.
In 31 venerdì di protesta sono
stati fucilati a morte circa 210 palestinesi tra i quali si contano
bambini, invalidi sulla sedia a rotelle, paramedici e giornalisti, in
violazione – come sempre IMPUNITA – del Diritto internazionale, e sono stati
fucilati alle gambe migliaia e migliaia di palestinesi con l’uso di proiettili
ad espansione (vietati ma regolarmente usati da Israele) i quali, se a
contatto con l’osso, lo frantumano portando all’invalidità permanente. Gaza
ha un numero altissimo di ragazzi e uomini con una o due gambe amputate per
volere di Israele.
Ma nonostante tutto questo la Grande
marcia continua. La parola d’ordine di quest’ultimo venerdì non poteva
essere più esplicativa, “Gaza non si inchina”, che è qualcosa di più che dire
“Gaza non si arrende” perché la resa a un potere tanto forte da
stritolarti potrebbe essere necessaria, ma l’inginocchiarsi davanti a quel
potere non è nella natura del gazawo medio e tanto meno delle donne gazawe.
La foto di Aed Abu Amro, il
ragazzo palestinese che pochi giorni fa, a petto nudo, con la bandiera
in una mano e la fionda nell’altra sfidava la morte per amore della vita è
la più evocativa di questa incredibile, vitale e al tempo stesso disperata
volontà di vincere. La posta in gioco è la Libertà, quella per cui
generazioni di uomini e di donne hanno dato la vita, non per vocazione al
suicidio ma per conquistare il diritto di vivere liberi. Lo sappiamo guardando
la storia antica e quella contemporanea. E Gaza non fa eccezione. I gazawi,
uomini e donne che rischiano la vita per ottenere la libertà rientrano in
quella categoria di resistenti che merita tutta l’attenzione e il rispetto
della Storia. Ignorarlo è codardia. Confondere o invertire il ruolo tra
oppresso e oppressore è codardia e disonestà.
Molti media mainstream stanno dando prova di codardia e disonestà. E’ un
fatto.
La foto di Aed, scattata dal fotografo
Mustafa Hassouna ha una carica vitale troppo forte per essere ignorata dai
media e troppo pericolosa per la credibilità di Israele: rischia di attirare
simpatie verso la resistenza gazawa e di ridurre il consenso alla propria
narrazione mistificante e allora, veloce come la luce arriva la mano della
Hasbara, il raffinato sistema di propaganda israeliano, che entra nel campo
filo-palestinese per smontare, con argomentazioni apparentemente protettive
verso i palestinesi, la forza evocativa di quella foto che orma è diventata
virale.
Non potendo più essere fermata, va
demolita. Quindi la forte somiglianza col dipinto di Delacroix titolato “La
libertà che guida il popolo” viene definita impropria e l’accostamento
addirittura osceno (v. articolo di Luis Staples su L’Indipendent). No,
l’accostamento è assolutamente pertinente e lo è ancor di più se lo si richiama
anche alla parola d’ordine dell’ultimo venerdì della Grande marcia, cioè “Gaza
non si inginocchia”.
Intanto alla fine della marcia, mentre
negli ospedali della Striscia si accalcavano i feriti, una mano ufficialmente
sconosciuta faceva partire 14 razzi verso Sderot richiamando la rappresaglia
israeliana sebbene 12 di questi razzi fossero stati distrutti dall’iron dome e
altri 2 non avessero procurato danni.
Forse Israele non aspettava altro, forse
quei razzi potrebbero essere frutto di una ben concertata manipolazione o forse
di qualche gruppo esasperato e fuori controllo, o forse una precisa
strategia ancora non ufficializzata, ancora non ci è dato di saperlo anche se
la prestigiosa agenzia di stampa mediorientale Al Mayadeen, questa notte
riportava parole della Jihad islamica la quale, pur non
rivendicando il lancio dei razzi, dichiarava che “la resistenza non può
accettare inerte la continua uccisione di innocenti da parte dell’occupazione
israeliana“. Cosa significa? Che si è scelto consapevolmente di lasciare
mano libera a Israele senza neanche fargli rischiare il timido rimprovero delle
Nazioni Unite potendosi giocare il jolly della legittima difesa?
O significa che si sta spingendo Hamas
all’angolo costringendolo a riprendere la strategia perdente delle brigate Al
Qassam? C’entra forse lo scontro interno tra le diverse fazioni? Gli analisti
più accreditati non si sbilanciano. Comunque Israele ha serenamente risposto
come suo solito, ovvero con pesanti bombardamenti per l’intera nottata.
L’ultimo è stato registrato nei pressi di Rafah questa mattina.
Al momento in cui scriviamo non si
denunciano altre vittime ma solo pesanti distruzioni, rivendicate con fierezza
da Israele come fosse una sfida anodina di tiro al piattello.
Le immagini trasmesse in diretta durante
la notte sono impressionanti, ma più impressionante è il comportamento della
maggior parte dei palestinesi di Gaza: al primo momento di terrore ha fatto
seguito “l’abitudine”. L’abitudine ai bombardamenti israeliani che – i media
non lo dicono – con maggiore o minore intensità, sono “compagni di vita
quotidiana” di questa martoriata striscia di terra. E l’abitudine, coniugata
con l’impotenza a reagire, ha fatto sì che la grande maggioranza dei gazawi,
provando a tranquillizzare i bambini terrorizzati, abbia scelto di dormire
confidando nella buona sorte, forse in Allah.
Del resto quale difesa per un popolo che, a parte i discutibili razzi, non ha
altre armi che le pietre e gli aquiloni con la coda fiammante? E la foto che
ritrae Aed come un moderno quadro di Delacroix cos’è se non fionda e
bandiera contro assedio e assedianti? Cos’è se non la sintesi
fotografica della resistenza gazawa e, per estensione, della resistenza
palestinese tout court a tutto ciò che Israele commette da oltre settant’anni
senza mai subire sanzioni?
Non basteranno articoli come quello di
Luis Staples su “L’Indipendent” e la coazione a ripetere del codazzo che si
porteranno dietro a fermare la fame di Libertà e di Giustizia del popolo
palestinese. La foto di Aed non farà solo la meritata fortuna professionale del
fotografo Moustafa Hassuna, quella foto è diventata e resterà l’icona della
Grande marcia, insieme alla parola d’ordine di ieri “Gaza non si inginocchia”.
Patrizia Cecconi
Bethelehem 27 ottobre 2018