lunedì 31 luglio 2023

Femministe con la lotta di Jujuy

 

Non è esattamente un fatto di routine che più di cento femministe che vivono in Spagna trovino il modo, il tempo e la determinazione necessari per lanciare un appello affinché non siano lasciate sole – di fronte a una repressione tanto spietata da evocare i fantasmi degli anni dei desaparecidos -, altre donne, appartenenti a uno di quelli che in Europa chiamiamo “popoli originari”. Uno di quelli più lontani dai riflettori mediatici di questa e di quasi ogni altra parte del mondo. Possiamo sbagliare, ne saremmo lieti, ma temiamo non siano molti quelli che, perfino in Sudamerica, saprebbero indicare su una cartina geografica la provincia nord-argentina di Jujuy. Alcune firme di quelle femministe – giornaliste, docenti universitarie, batteriste antirazziste, libraie saldatrici, attiviste trans, bi-sessuali antispeciste, bambine di sei anni, poetesse, cantanti, avvocate, studentesse e un lungo eccetera -, sono invece ben note alle lettrici e ai lettori di Comune. Abbiamo tradotto più volte gli articoli di Nuria AlabaoSarah BabikerJune Fernández e, naturalmente, Carolina Meloni González, che – venuta al mondo proprio in un carcere della dittatura militare argentina – sull’appartenenza e il senso della libertà di movimento tra due terre, di qua e di là dall’Atlantico, ha scritto un libro imperdibile: Transterradas. A muovere quella passione, ha certo contribuito anche Rita Segato, nome assai noto ai femminismi del mondo intero, creatrice, tra molte altre cose, del concetto di pedagogia della crudeltà, che ha molto a che vedere con quel che sta accadendo da un mese a questa parte a Jujuy. Nel rilevare la potenza di una resistenza di cui sono protagoniste molte donne, strettamente connessa a genealogie e comunalità ancora poco erose dai dispositivi culturali e dalle ingegnerie sociali dello Stato, e dunque piuttosto refrattarie al potere della colonialità, Rita, molto legata a quel territorio, ne ha scritto magistralmente sulla rivista Anfibia proprio in occasione della rivolta di queste settimane. Una rivolta che nasce dalla resistenza a una legge abietta che criminalizza la protesta e consegna la terra, e tutto quel che c’è di comune, al saccheggio estrattivista del fiorente mercato minerario, del litio in particolare. C’è però un’ultima cosa che ci preme sottolineare, prima di invitare tutte e tutti a sottoscrivere l’appello. In questo momento, a Jujuy, dopo la repressione sanguinosa nelle strade, è in pieno corso quella della legalità. Vengono arrestati gli avvocati con l’accusa di “sedizione” e la caccia al “terrorista”, casa per casa, è talmente violenta che ha spinto l’Università Nazionale di Jujuy ad aprire le sue porte per offrire “asilo” a chi viene perseguitato, visto che la forza pubblica non può entrare nelle università nazionali senza “l’ordine rigoroso di un giudice”. Ecco, quel che ci preme dire: perfino noi, che all’América Latina, soprattutto grazie a Raúl Zibechi, dedichiamo molta attenzione, abbiamo pensato che la resistenza di Jujuy, trascorso un mese, non si potesse che ritrarre, secondo il classico andamento carsico dei movimenti, fino alla prossima esplosione. Certo, le nostre esigue e fragilissime energie non ci consentono di rincorrere la guerra in Ucraina, quella contro i migranti, la Francia, la Palestina e il mondo intero, ma forse, prima o poi – qualora l’essenziale sostegno di chi ci legge ce lo consentisse – dovremmo provare a inventarci un modo diverso di relazionarci ai calendari e alle geografie, come direbbero nelle montagne del sud-est messicano. Un modo per non lasciare sole e soli coloro che lottano anche per noi dall’altra parte del mondo. Non sarà affatto facile, ma nel nostro piccolo, proveremo almeno a pensarci su.


Che cada la riforma, dice il cartello della donna di Jujuy rimasta a fronteggiare la repressione di strada a Jujuy nella foto tratta da colombia informa. Adesso la repressione sta invece entrando nelle case

Oltre un centinaio di donne femministe, giornaliste e attiviste che vivono in Spagna hanno firmato una dichiarazione per inviare la loro “solidarietà alle comunità originarie di Jujuy (provincia argentina del nordovest, ndt), alle insegnanti, alle infermiere, alle giovani, alle studentesse e a tutto il popolo di Jujuy, che è in lotta contro il saccheggio del litio e contro una riforma anti-diritti”.

È trascorso già più di un mese dall’inizio di questa enorme lotta nella provincia di Jujuy, nel nord del Paese, in cui le donne dei popoli originari e le insegnanti sono in prima linea nelle mobilitazioni e nei picchetti che bloccano una decine di strade importanti.

“In questi giorni abbiamo visto con emozione le donne delle comunità originarie de la Puna, de la Quebradadelle yungas e delle valli sbarrare le strade della provincia del nord dell’Argentina. Sono donne coraggiose, che difendono i loro territori. Abbiamo visto le insegnanti, anche loro lottando in prima linea, in difesa dell’educazione pubblica, per i salari e contro la precarietà, in una provincia ricca con donne che lavorano povere. Rifiutano una riforma costituzionale autoritaria, votata sia dall’UCR che dal PJ (le due maggiori forze politiche della Provincia, dove governa il radicale liberale Gerardo Morales, che nutre grandi ambizioni per il futuro, che dell’Argentina stessa, dove invece governa il peronismo “progressista”, ndt), che riduce i diritti, criminalizza la protesta e approfondisce la consegna delle risorse naturali e delle terre comunitarie alle multinazionali imperialiste”, afferma l’appello.

Tra le prime firme ci sono quelle di giornaliste e scrittrici come Nuria Alabao, Olga Rodríguez, Josefina L. Martínez, Irene Zugasti, June Fernández, Andrea Momoitio, Susana Albarrán Méndez; docenti come Carolina Meloni o Jule Goikoetxea; avvocate antirazziste come Pastori Filigrana e Adilia de las Mercedes, attiviste del popolo romanì come Silvia Agüero Fernández, Sandra Carmona; portavoci di organizzazioni politiche e sociali, come Lucía Nistal della CRT, Teresa Rodríguez di Adelante Andalucía, Cynthia Lub di Pan y Rosas, Lorena Cabrerizo di Anticapitalistas, Natalia Leney di Contracorriente; attiviste trans come Edurne Haine, Raffaella Corrales e Farah Azcona Cubas; tra molte altre.

 

Nell’appello si denunciano la repressione che si è scatenata sui manifestanti, nonché le detenzioni di massa ordinate dal governatore Gerardo Morales.

Ripudiamo una repressione che ci ha fatto ricordare i metodi della dittatura: conle camionette a caccia di manifestanti, con perquisizioni illegali nelle case. Ci sono state, tra le altre cose, decine di donne detenute e un ragazzo di 16 anni colpito da proiettli di gomma che ha perso un occhio”.

 

Chi ha firmato l’appello ricorda anche che le imprese multinazionali, insieme ai governi europei, stanno cercando di imporre nuovi progetti di espropriazione e saccheggio imperialista. Il nord dell’Argentina, la Bolivia e il Cile formano quello che è noto come il “triangolo del litio”, e le multinazionali e i governi competono per accaparrarsi il business estrattivista. Però le comunità resistono, accompagnate da donne che lavorano e giovani, perché lì è in gioco la loro vita.

 

Da qui mandiamo tutto il nostro sostegno alla vostra lotta. E ripudiamo i governi dell’Europa del capitale, che cercano di stabilire nuove nicchie neocoloniali in America Latina e nel mondo intero, per saccheggiare quelli che sono i beni comuni sociali e naturali.

No al saccheggio del litio! Condono di tutti i debiti nelle mani del FMI e di altre organizzazioni finanziarie internazionali! Abbasso la riforma, viva le lotte per i diritti e i salari! Lunga vita alla lotta delle comunità originarie, delle lavoratrici e del popolo di Jujuy!”

Per aggiungere la tua firma alla dichiarazione, compila questo modulo.

Le prime firme

Carolina Meloni – Docente di Filosofia Unizar (Saragozza); Josefina L. Martínez – Giornalista, storica, Pan y Rosas; Nuria Alabao – Giornalista, femminismi in CTXT e altri media; Pastora Filigrana García – Avvocata del lavoro, femminista antirazzista e per i diritti del popolo gitano; Olga Rodríguez Francisco- Giornalista e scrittrice; Cynthia Luz Burgueño – Storica ed educatrice, Pan y Rosas; Jule Goikoetxea- Docente di Scienze Politiche all’Università dei Paesi Baschi; Edurne HL – Transfemminista – La Haine; Irene Zugasti, politologa e giornalista; Lucía Nistal – Ricercatrice in Teoria letteraria presso UAM, portavoce di CRT, Madrid; Teresa Rodríguez- Portavoce di Adelante Andalucía, Anticapitaliste; Lorena Cabrerizo -Anti-capitaliste; Karen Patricia Rodríguez Urquia – Femminista antirazzista, residente a Madrid; Verónica Landa, operatrice educativa, Pan y Rosas, Barcellona; Natalia Esteban Leney, Rappresentante degli studenti nel consiglio della Facoltà di Scienze Politiche e Sociologia, UCM per Contracorriente/Pan y Rosas; Ainhoa ​​​​Jiménez, Rappresentante degli studenti al Consiglio e al Senato (UAM) per Contracorriente/Pan y Rosas; Mariona Tasquer, studentessa liceale e militante di Contracorrent; Clara Mallo, giornalista, Izquierda Diario; Asor Warda – Artista multidisciplinare colombiana; Lidia López Miguel – Giornalista ed editrice delle edizioni Kaótica Libros e Lastura; Ana Belén Orantes – Educatrice sociale ed editrice presso le edizioni Kaótica Libros e Lastura; Marta de la Aldea – Giornalista e scrittrice; Rommy Arce Legua- Attivista e bibliotecaria; Nieves Álvarez Martín – Scrittrice, artista e componente del Team Europe (Commissione Europea); Isabel Miguel – Professoressa, poetessa e traduttrice; Raffaella Corrales – Attivista trans e candidata al Congresso dei Deputati per Guadalajara; Ángeles Ramírez- Professoressa di Antropologia presso l’Università Autonoma di Madrid, Anticapitalista; María Lobo – Movimento femminista attivista 8M Madrid, Anticapitalistas; Lorena Ruiz-Huerta García de Viedma, avvocata e attivista per i diritti umani; Lorena Garrón – Consigliera del Consiglio Comunale di Cadice Adelante Andalucía, Anticapitalistas; Montserrat Villar González – traduttrice, scrittrice e insegnante ELE all’Università di Vigo; Laura Castro Roldán – attivista “gorde” e studentessa di dottorato nel programma di sociologia e antropologia presso l’UCM; Juana Marín Madrid – poeta; Daniel Casado de Luis – Studente UAM; Adilia de las Mercedes. Avvocata e giurista. Associazione delle donne guatemalteche; Farah Azcona Cubas, attivista transfemminista; Mario Espinoza Pino – Ricercatore presso l’UGR, scrittore e attivista; Sonia Herrera Sánchez – Docente universitaria (UOC, UAB) e critico audiovisivo; Sergio de Castro Sánchez, Professore di Filosofia. Componente del blog El Rumor de las Multitudes (El Salto); Susana Albarrán Méndez, comunicatrice sociale; Nélida Molina Morgado, portavoce di Trawunche Madrid (Coordinamento di sostegno al popolo mapuche); June Fernández, giornalista femminista (Pikara Magazine); Andrea Momoitio, giornalista femminista (Pikara Magazine); Mª Ángeles Fernández, giornalista femminista (Pikara Magazine); Teresa Villaverde, giornalista femminista (Pikara Magazine); Cristina Lizarraga, cantante e attivista bisessuale; Silvia Agüero Fernández, attivista gitana; Sandra Carmona, attivista per i diritti del collettivo LGBTIQ e per i diritti del popolo gitano; María Arobes, Centro Sociale Librería La Pantera Rossa e blog El Rumor de las Multitudes di El Salto Diario; Eva Ramírez, batterista femminista-antirazzista, residente a EH; Alcira Padin Torres, partecipante alla libreria transfemminista e antirazzista Synusia di Barcellona; Julia Pardo García, attivista transfemminista, bisessuale e anti-specista e programmatrice culturale; Ana Gómez-Salas, avvocata antirazzista; Alberto Azcárate (giornalista, El Salto); Mafe Moscoso (docente, ricercatrice, scrittrice); Olvido Andújar (insegnante, ricercatore e scrittore); Miquel Angel Martinez e Martinez. Professore di Filosofia in un Istituto Secondario e di Bachilerato; Membro del blog El Rumor de las Multitudes (El Salto); Úrsula Santa Cruz Castillo, psicologa, ricercatrice, docente universitario. Componente dell’Associazione Sembrar; Claudia Delso, ricercatrice e manager culturale; Lola Matmala. Giornalista; Marianella Ferrero, collettiva MIRERA; Almudena Cabezas González, Professoressa di Geografia Politica, UCM; Gabriela Brochner, Professoressa di Relazioni Internazionali, UEM; Sarah Babiker – Giornalista; Salma Amazian – Ricercatrice e militante decoloniale contro il razzismo e l’islamofobia; Matida (6 anni), pronipote di Diaguita, sorella di sangue e anima dei figli di Jujuy, la puna, le valli di Calchaquíes; Helios F. Garcés – Scrittore e militante antirazzista; Alvaro Briales – Professore di Sociologia, Università Complutense di Madrid; Fondazione dei beni comuni; Marisa Pérez Colina, militante e traduttrice; Vivi Alfonsín, scrittrice e attivista antirazzista; Cooperativa La Caníbal SCCL; Marta Palazzo Avendano, professoressa di filosofia, Università di Alcalá; Julia Millán Bermejo – Libraia e saldatrice; Organizzazione ConBIvenze: II Conferenza Giornate di Stato autogestite sulla Bisessualità; Elisa Coll, comunicatrice e scrittrice; Lucia Serra. Psicologa, psicoanalista, attivista; Luis Pizarro Carrasco, storico, Università di Barcellona.


Fonte e versione originale: El Salto

Traduzione per Comune-info: marco calabria

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Le “imprese” di Meloni&Co. – 5. gli impunibili

 

Il governo Meloni, dopo aver premiato in moneta sonante fino all’ultimo amministratore locale, ora si chiede: “Perché non estendere quella impunità parlamentare che oggi spetta solo a pochi eletti a tutti gli eletti di ogni ordine e grado?”. In fondo si tratta di rispettare la “volontà popolare” e se costoro hanno ricevuto la benedizione del voto, vuol dire che il “popolo” ha fiducia nel loro operato e possono fare quel che vogliono. Ai casi estremi ci penserà la magistratura che, senza esagerare, sbrigherà la faccenda (*).

In termini spiccioli è questa la filosofia meloniana in materia di protezione della nomenklatura di stato a tutti i livelli, e porta alle estreme conseguenze l’ideologia e l’attività berlusconiana anche in questo campo, che non si era spinta, per calcolo elettoralistico, fino a questo punto, ma aveva tracciato il solco – non semplicemente per sé, come nella stucchevole polemica delle “leggi ad personam”, bensì per sé, ovviamente, e per tutta la marmaglia dei “piccoli Berlusconi” o dei “piccoli Prodi”.

Parliamo dell’abolizione del reato di abuso d’ufficio.

Nordio non è uno che improvvisa, e le sue tesi sull’abuso d’ufficio sono frutto di lunghe “meditazioni” precedenti al suo incarico di ministro. Il suo compiaciuto commento ai provvedimenti sulla giustizia, approvati dal Consiglio delle Volpi all’unanimità, è stato: “Spiace che Berlusconi non possa vederla”. Forte degli scarsi risultati giudiziari dei processi a sindaci ed amministratori (solo 9 condanne su 5418 procedimenti, nel 2021), Nordio ha sostenuto l’abrogazione di questo reato, non una semplice depenalizzazione, la totale eliminazione della possibile imputazione, e questo nonostante le “perplessità” perfino della Commissione Europea sulle “riforme Nordio” e il loro potenziale impatto sul fenomeno corruzione nel quale l’Italia si segnala tra i primatisti da molto tempo.

L’altro punto d’appoggio della “riforma” è stata la solita scusa dello snellimento burocratico e della diminuzione del numero di processi. Senonché di reati nuovi e nuovo lavoro per la “giustizia” il governo Meloni ne sta creando parecchio: per esempio con la nuova normativa contro i “rave party” diventati punibili con più di sei anni di reclusione attraverso la configurazione del reato penale, con una valenza politica generale evidente di questa operazione che consente di punire ogni manifestazione che dovesse vedere riunite più di cinquanta persone.

Il Consiglio delle Volpi ha varato anche una serie di limitazioni alle intercettazioni e, non meno importante, il divieto di appellabilità per il pubblico ministero nel caso di sentenze di assoluzione in alcuni reati: in pratica è una forma di prescrizione che mette al sicuro chi è stato assolto anche se si dovesse scoprire in seguito che era colpevole.

Pervaso da furore riformatore Nordio si è lanciato anche sul concorso esterno in associazione mafiosa con il plauso entusiastico dei suoi soci di governo di Forza Italia alle prese con l’eredità di Berlusconi: “Il concorso esterno è un ossimoro – dice al Corriere della Sera – O si è esterni, e allora non si è concorrenti, o si è concorrenti, e allora non si è esterni”. In pratica Nordio esclude tutte le forme di complicità di funzionari e dirigenti dello stato, amministrativi e politici, nei confronti della mafia: o vai in giro con coppola e lupara, o non sei mafioso. Lo scalpore suscitato da questa iniziativa ha costretto perfino Mattarella (hai detto questo, hai detto tutto) ad intervenire per calmare lo slancio di Nordio che si è visto costretto ad una marcia indietro che crediamo sia solo momentanea: la mano libera della mafia imprenditrice e dei colletti bianchi di stato esige la sua parte nella gestione delle “risorse del paese”.

Ma Nordio, al pari di tutto il governo, non si ferma alle “grandi riforme”, bada anche ai dettagli e uno di questi è la sistematica sostituzione in tutti i possibili campi di persone non allineate, in qualche modo scomode, con altre ben orientate e gradite. Ad esempio il Garante dei detenuti. Secondo Repubblica il motivo della sostituzione degli incaricati precedenti è da rintracciare nel comportamento troppo garantista che i componenti di quel Collegio di garanzia hanno avuto nel trattare lo sciopero della fame di Cospito. Calmate le acque, dopo la polemica che li vide accusati di complicità con il terrorismo e di troppe visite in carcere, ecco che arriva la resa dei conti: tutti sostituiti! Questo è solo un esempio per mostrare con quanta attenta determinazione il governo Meloni si dispone a tagliare la testa ad ogni minima opposizione e, nello stesso tempo, a lanciare segnali di avvertimento in ogni direzione.

La filosofia del plebiscito, dell’acclamazione, dell’uomo – stavolta della donna – della provvidenza si è perfezionata ed approfondita in questi mesi con il consenso delle classi medie che gli apparati di partito del centro-sinistra e dei sindacati istituzionali pensavano di poter avere dalla loro parte invocando la difesa dei “diritti civili” (sarebbe più corretto dire: di alcuni diritti civili) ma solo su quelli e solo con modi “politicamente corretti”. Al contrario, la destra economica e politica ha saputo posizionare gran parte delle classi medie (specialmente gli infausti “ceti medi produttivi” di togliattiana memoria) come sua base di massa in funzione antiproletaria mobilitando tutto il possibile, dai tassisti ai concessionari delle spiagge, dai piccoli imprenditori ai negozianti. Per i proletari si preparano tempi molto difficili se non sapranno riguadagnare il terreno dell’autorganizzazione e della lotta – anche se questa dovesse ripartire dalla sola difesa degli interessi minimi, a condizione di non fermarsi a questa.

(*) A proposito di “moderazione” istintiva della magistratura nell’applicazione di certe leggi, ricordate la Mancino del 1992: “E’ vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”? Quante condanne sono state comminate per questa legge? Arrivano alle dita di due mani, o bastano quelle di una sola?

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domenica 30 luglio 2023

Valerio Calzolaio invita alla (ri)lettura di Paco Taibo II e Daniel Pennac

 Con Taibo II riscopriamo i lettori nelle Americhe dal Rio Bravo al Polo sud/1 - Valerio Calzolaio

Francisco Ignacio Taibo Mahojo è un messicano nato in Spagna, a Gijón (Asturie) l’11 gennaio 1949, ha dunque compiuto settantaquattro anni ed è divenuto abbastanza famoso nel mondo come giornalista, scrittore, saggista e storico. Il padre Francisco Ignacio Taibo Lavilla era un giornalista cartaceo e televisivo, deceduto il 14 novembre 2008, lui noto editorialmente come Paco Ignacio Taibo pur se, negli ultimi decenni di vita, dovette aggiungere un "primo" (Taibo I) al proprio non de plume, quando il figlio cominciò anche lui a pubblicare libri conosciuti. Da almeno quaranta anni Paco Ignacio Taibo II ha notevole successo letterario e culturale, sia nella nuova patria messicana che in tanti altri paesi, non solo di lingua spagnola, molto anche in Italia.

Taibo II nacque in una famiglia spagnola dagli ideali politici legati alla sinistra. Il regime fascista franchista li costrinse a emigrare in Messico nel 1958, verso un paese con più o meno la stessa lingua, che tradizionalmente aveva sempre accolto profughi e perdenti di molte rivoluzioni e di altre dittature. Benito Taibo, nonno paterno, apparteneva al gruppo dirigente del PSOE (Partito Socialista Operaio Spagnolo) e partecipò all'insurrezione del 1934 e, poi, alla guerra civile, combattendo per il fronte repubblicano; il prozio (fratello della nonna paterna) era il direttore del giornale socialista El Avance. Patirono entrambi le carceri franchiste. Anche il nonno materno procurava armi di contrabbando agli anarco-sindacalisti durante la guerra civile e tentò di prendervi parte armando un peschereccio, finché non morì con tutto il suo equipaggio, affondando con la propria imbarcazione sotto i colpi nemici.

Dopo i primi infantili nove anni spagnoli, Taibo II crebbe dunque da adolescente in una famiglia messicana, stabilitasi e sempre rimasta nella immensa capitale Città del Messico. Ignacio Paco presto si rese autonomo e nel 1971 si sposò con Paloma Sáiz y Chela con la quale hanno avuto Marina, affermandosi giovanissimo come scrittore di allegra fiction sociale. Nell’ultimo quarto di secolo del millennio scorso il suo nome è associato al brulichio di grandi autori che, sull’onda dei capolavori di García Márquez e Vargas Llosa, affermarono nuovi stili e narrazioni in gran parte dei paesi a sud degli Stati Uniti d’America, un’altra America (non inglese-americana), uscita più di recente dal colonialismo, ribelle e indipendente. Divennero molto noti e letti un po’ in tutta Europa, non solo in Spagna, certamente in Italia; varianti intense e personalissime di uno stesso percorso letterario; i più conosciuti forse Daniel Chavarría (Uruguay 1933, e Cuba), Rolo Diez (Argentina 1940), proprio Paco Ignacio Taibo II e Leonardo Padura Fuentes (Cuba 1955), poi Luis Sepúlveda (Cile 1949).

Ha più volte spiegato il grande scrittore e traduttore (dallo spagnolo) Bruno Arpaia che la letteratura latinoamericana non esiste, chi vi fa riferimento finisce per “incasellare” in un luogo comune varietà e ricchezza di un intero continente e di 21 paesi. Non vi è nemmeno un’identica comune lingua spagnola, considerando innanzitutto i brasiliani, poi coloro che scrivono in inglese e infine le varianti. Le biografie sono comunque meticce (alcuni che sono nati proprio in Spagna o altrove o sono migrati) ed esistono molte articolazioni, sfumature e “parlate” nazionali. Resta purtuttavia costantemente valido un interrogativo. “Precisato tutto ciò, possiamo porci la domanda: c’è vita oggi nella letteratura tra il Río Bravo e Ushuaia?”. Proprio Arpaia, in uno dei suoi contributi su questo giornale, ha raccontato un panorama degli interessanti scrittori e scrittrici del primo quarto di secolo del nuovo millennio. Rileggere Paco Ignacio Taibo II appare pertanto un buon modo per approfondire un filo di pensieri letterari ed editoriali sull’America a sud degli Usa, insieme al relativo differente contesto geopolitico, tanto più che molti degli storici scrittori citati hanno portato una ventata di novità globale nella letteratura, in particolare di genere giallo e noir.

Paco Ignacio Taibo II è un fine popolare intellettuale manifatturiero che si lascia coinvolgere in tutte le filiere della produzione di idee e azioni collettive per conto di frasi e gesti individuali, che promuove congiuntamente cultura, lettura e arte, prima ancora di fare culture, scritture e arti, motorino sempre carico di passioni sociali e civili. La sua attività ha avuto stabilmente base in Messico, nella capitale. Per fare un esempio, nel 2010 promosse con la moglie (che fino all’anno prima lavorava al Ministero della cultura del Distrito Federal, licenziata per spoil system) una Brigada para leer en libertad, (“Brigata per leggere in libertà”). Con amici, colleghi e sodali raggiungevano i quartieri più poveri e le baraccopoli dove non c’era nemmeno un libro e trovavano spesso un pubblico appassionato (presunti “non” lettori), che smentiva l’idea che in periferia si legge poco o non si legge affatto: “se rompi le barriere, i blocchi che impediscono alla gente di arrivare ai libri, allora la gente legge, e molto… un’esperienza affascinante”.

La Brigada ha creato un modello di istituzione culturale: trovata una sede scalcagnata, hanno battuto le circoscrizioni della metropoli offrendosi di organizzare fiere del libro, locali, nazionali o internazionali a seconda del budget. Poi hanno convinto le case editrici a non mandare al macero i volumi invenduti, ma a consegnarli per organizzare immensi mercati del libro in saldo, dove si sono riversate centinaia di migliaia di persone. Quindi, grazie alle donazioni dei privati, i brigadistas (tutt’altro significato rispetto alla traduzione italiana) hanno messo su decine di biblioteche di quartiere o scolastiche. Infine, con il sostegno della Fondazione Rosa Luxemburg e con quello degli autori che regalavano alla Brigada i loro diritti, hanno cominciato a pubblicare libri e a regalarli durante le centinaia di dibattiti e di tavole rotonde organizzate nei quartieri più sperduti e sempre in spazi aperti.

La Brigada si autofinanzia e riesce a dare un piccolo stipendio ai propri componenti, con la collaborazione di centinaia di romanzieri, giornalisti, sociologi, artisti, poeti, storici, da Elena Poniatowska a Jorge Moch, da Pino Cacucci a Sanjuana Martínez, che offrono il loro tempo e il loro talento per entrare in contatto con migliaia di persone e spingerle alla lettura. Le storie, le foto e i video visibili sul sito raccontano di folle clamorose ai concerti e ai dibattiti o negli stand dei librai, di una partecipazione appassionata e combattiva. La prossima e 16° Gran Remate de libros y peliculas si svolgerà dal 2 al 6 agosto 2023. Leggere aiuta a socializzare, a condividere esperienze e informazioni, a diffidare dell’evidente, a esigere diritti e a compiere i doveri. E diventa un fattore chiave dell’identità e della democratizzazione. Mentre la lettura per obbligo non ti trasforma in lettore, ciò che ti porta a leggere è il piacere.

La Brigada ha subito avviato anche programmi di lettura con gruppi di lavoratori, per esempio poliziotti e pompieri, categorie che non sempre godono certo di buona stampa. Pare che gli agenti diventati lettori diventino più gentili e corretti e la gente li guardi con occhi diversi. Pure Paco, ovviamente, continua dall’inizio come volontario della Brigada. Da qualche anno, inoltre, ha un incarico ministeriale ufficiale, direttore del Fondo de Cultura Económica, una casa editrice transnazionale con 1600 lavoratori, che in Messico promuove cultura multiforme, pubblica mille libri all’anno, gestisce una rete di 120 librerie e ha filiali in undici paesi, grazie all’incarico conferitogli dal “nuovo” Presidente messicano Andrés Manuel López Obrador, conosciuto con l'acronimo di AMLO, eletto nel dicembre 2018 (e sempre alle prese con un’endemica criminalità, come raccontato su Il Bo Live da Andrea Gaiardoni poco più di un anno fa.

https://ilbolive.unipd.it/it/news/taibo-ii-riscopriamo-lettori-americhe-dal-rio

 

Con Taibo II riscopriamo i lettori nelle Americhe dal Rio Bravo al Polo sud/2 - Valerio Calzolaio

Da quasi cinquanta anni, Taibo II risulta uno degli scrittori messicani più noti al mondo.

Iniziò nel 1976 con la serie gialla di Héctor Belascoarán Shayne. Inizia con la Genesi e finisce con il pianto desolato e un’esclamazione colorita sulla solitudine del protagonista la prima (Días de combate, Giorni di battaglia) delle finora dieci avventure del protagonista fino al 2012 (tutte tradotte in italiano con vari editori, con continuità grazie a una felice intuizione di Marco Tropea negli anni Ottanta), fra l’altro morto nella terza e risorto nella quinta. Nato nel 1944 (cinque anni prima dell’autore), figlio maggiore (una sorella Elisa, reduce da un divorzio, un fratello Carlos, impegnato a sinistra) di José, capitano di marina basco, socialista rivoluzionario in esilio in Messico e vicedirettore di una casa editrice, morto da qualche anno, e di Shirley, competente cantante folk irlandese, a fine vita, Héctor fino a trent’anni aveva fatto l’ingegnere supervisore alla General Electric di Città del Messico e il marito. Poi, d’improvviso, lascia il lavoro, si allontana dalla moglie Claudia, affitta un ufficio da detective (coabitandovi prima con un idraulico, poi anche con un tappezziere e un ingegnere che si occupa di fogne), studia serialkillerologia vincendo sessantaquattro mila pesos al quiz di Televisa, prende un diploma per corrispondenza e si getta per le strade (con una 38 sotto l’ascella) alla ricerca del Cervelo che ha strangolato dodici donne in due mesi.

Il doppio cognome Belascoarán Shayne deriva dai genitori spagnolo-irlandesi. Héctor vi tiene moltissimo, lui è bruttino (i casi lo renderanno inoltre orbo da un occhio e claudicante per un chiodo nella gamba zoppa) e pieno di cicatrici in corpo e spirito; politicamente marxista esistenziale e anarcoide, fuma Delicados con filtro, beve cola, indossa un impermeabile di gabardine; riesce a fare poco sesso (rimanda comunque a una fidanzata “fantasma” con la coda di cavallo), ingurgita tacos e donas, va spesso al cinema per pensare, dorme sempre pochissimo ma appagato (insonne per amore). Il fresco disincantato colto Taibo II iniziò così a giocare con il genere giallo (o negro che dir si voglia) e a scherzare con gli appassionati, narrando i simpatici tic noir in prima e terza persona, ammaliando meravigliosamente i lettori. In pochi anni vinse tre premi Hammett, vendendo poi un milione di copie del tenero testo su Che Guevara (Senza perdere la tenerezza, Il Saggiatore 2017, oltre trecento mila copie vendute solo in Italia).

La vena narrativa è ben presto apparsa fertile e inesauribile con quasi una quindicina di altri romanzi dal 1982 (alcuni splendidi, perlopiù tradotti), circa una decina di saggi e biografie dalla fine degli anni Ottanta, ricchi di humour e ritmo (dal Che a Pancho Villa, da Tony Guiteras a Sandokan e alla battaglia di Alamo), oltre a tante scritture no fiction e collaborazioni di ogni tipo dal 1971 (molte opere non tradotte di tutti i generi), a migliaia di articoli, a direzioni di raccolte e riviste, ad apparizioni in forbite teleconferenze e a divertenti presentazioni pubbliche (spesso anche in Italia). Per capire meglio la poliedrica cosmopolita personalità di Taibo II bisogna sapere che per oltre trent’anni dal 1988 al 2019 ha diretto il più grande festival di genere giallo noir in Europa. Una volta gli domandai quanti aerei avesse preso nell’anno procedente, rispose con precisione: “Ottantasei da luglio 2009 a luglio 2010, sto fuori casa (e scrittura) metà di ogni anno. Troppo.”

Ormai siamo alle nozze d’oro: da 49 anni a luglio si svolge a Gijon nelle Asturie una manifestazione denominata Semana Negra, SN. Quando vi partecipai nel 2010, partimmo con la tribù del Tren Negro il venerdì mattina da Madrid, arrivammo nel pomeriggio e tornammo indietro dopo il fine settimana successivo, vivendo in patria (loro) l’apoteosi spagnola dei mondiali di calcio. Indimenticabile! Ogni anno partecipano quasi duecento scrittori da almeno dieci differenti paesi, quelli dell’idioma (spagnoli, messicani, uruguaiani, argentini, peruviani, cubani, colombiani) ma anche “ospiti” (americani, francesi, inglesi, greci, pure italiani, spesso e tanti), perlopiù già tradotti all’estero (successo o caso). Agli appassionati, leggerli incontrarli ascoltarli fa proprio piacere. A loro, incrociarsi fa un gran bene: affinano personaggi, scoprono affinità, valutano percorsi, avviano collaborazioni. Proprio alla SN vi fu decenni fa per esempio il primo incontro fra Carlo Lucarelli e Manuel Vàzquez Montalbàn (Barcellona, 14 luglio 1939 - Bangkok, 18 ottobre 2003), altro amico “anziano” di Taibo II, nome tutelare della manifestazione asturiana come della colta alta letteratura gialla (o negra) di fine Novecento (a me capitò di intervistarlo nel 1987 a Cattolica), all’origine ovviamente pure dell’amatissimo commissario di Camilleri.

Alla Semana Negra non c’è catalogo, non si trovano libri gratis. Né si percepiscono rivalità, nemmeno fra i finalisti dei premi per opere originali in castellano. Molti dichiarano che gli scrittori “sanno” chi vale, chi quell’anno ha fatto meglio e chi non è stato all’altezza di altre prove. E così i riconoscimenti vengono assegnati da ristrette giurie di autori sulla base di una selezione ampissima di testi segnalati innanzitutto da altri autori. A Gijon non si vince altro che la gloria: niente soldi, niente targhe, niente statuette. Fra i vari prestigiosi riconoscimenti segnalo il premio Hammett (il più antico e ambito), il premio Celsius (fantascienza e dintorni), il premio Espartaco (romanzo storico), il premio Rodolfo Walsh (no fiction criminale), il memorial Silverio Cañada (esordio di “novela negra”), il premio del Direttore e quello del direttore del giornale speciale della manifestazione Quemarropa, che nel 2010 era Angel de la Calle.

Proprio Angel (Salamanca, 1958), disegnatore e fumettista (con studi noti anche in Italia su Tina Modotti e Hugo Pratt), nessun romanzo di fiction, da sempre subcomandante della SN, ora da quattro anni ha assunto il ruolo di direttore (ovvero da quando Taibo II ha assunto il suo nuovo incarico ministeriale in Messico). La manifestazione ha avuto sempre da regista fuori inquadratura Paloma, la moglie di Paco e ha cambiato varie volte sedi e struttura, in realtà si tratta di un happening, di una fiera, di una festa.

Nel 2010 SN si svolse nel grande parco urbano, direzione e organizzatori affittarono spazi nel “recinto” per tende, esposizioni, promozioni, divertimenti, classici “non luoghi” quasi universali. Trovavate la ruota gigante e la casa degli specchi, il galeone che oscilla e altre diavolerie meccaniche, la pesca e i fucili ad aria compressa. Trovavate i baracchini dei negozi locali di occhiali cappelli e oggetti da regalo, come le bancarelle di extracomunitari eguali in tutt’Europa. Trovavate bar e ristoranti, di tutti i tipi e gusti, qualità non sempre eccelsa, prezzo molto contenuto. Trovavate spazi di editori e librai (gli unici a non pagare l’affitto!), libri a buon mercato di ogni genere, collane gialle e nere, le rassegne bibliografiche degli autori presenti (pronti a firmare la copia), 34 mila volumi furono venduti nel 2010! E poi gli sponsor con attività specifiche e i veri “luoghi” della manifestazione: il grande tendone dei dibattiti (Carpa del Encuentro, con bar), lì fuori riproduzioni di eroi (come Batman) in mezzo a sedie e ombrelloni per chiacchierare, strutture che ospitavano mostre fotografiche o appositamente realizzate (nel 2010: fotogiornalismo, soldatini di piombo, pezzi archeologici messicani, fumetto cult), una sala adattabile alla visione di film (retrospettive, sapendo che il cinema non è una priorità), gli uffici.

Alla SN c’è sempre gente a tutte le ore, per ogni pizzo, con ogni tipo d’interesse (spesso la spiaggia è vicina). Il “negro” non c’entra. Famiglie con bimbi che non hanno mai letto nulla, comitive di ragazzi richiamati dall’allegra confusione, persone che cercano i soliti venditori ambulanti, gruppi che escono a mangiare, professionisti e mestieranti bisognosi di clienti o pubblico. Una marea di gente, quasi novecento mila visitatori stimati per esempio nel 2010. Ogni mattina esce il periodico di quattro “lenzuoli” con il programma del giorno. Un paio di volte vengono distribuiti libri editi per l’occasione. Le attività della manifestazione sono concentrate dalle cinque del pomeriggio a mezzanotte, perlopiù presentazioni di autori, a raffica, a ripetizione, uno ogni mezz’ora nel tendone e almeno in un’altra sala, uno per volta (il grande, l’autore con la novità) o in tavole rotonde a tema. Musica dal vivo dopo le 22. Taibo II partecipa anche ora, non è più direttore ma c’è sempre, presenta in contemporanea diversi libri autori inaugurazioni, talvolta apre chiude interrompe modera domanda risponde scompare, di rado delega ai due sosia del passato (che nessuno ha mai incontrato).

Il vero Paco Ignacio Taibo II ha la sigaretta accesa (non la stessa) e la maglietta spot (forse sempre la stessa), un paio di libri in tasca, fa tutto: sposta sedie, carica casse di volumi, rilascia interviste, interloquisce con chi parla inglese, ricorda orari, urla annunci, cerca i collaboratori per condividere impegni. La figlia Marina, fotografa e artista, è stata sempre la sodale “spalla” del direttore per tutta la preparazione (quasi due mesi) e la durata della manifestazione. Basta uno sguardo e lei capisce, accorre, sostituisce. Era già la piccola colta interprete quando quelli dell’AIEP (gli autori di gialli nel mondo) inventarono la Semanaportare la “cultura” sulla “strada”, radicandola nella città natale di Paco. Tirano avanti con pochi soldi (nel 2010 costava meno di un milione di dollari) e gran parte di volontariato. Un trenino apposito e un ottimo servizio tram collegano con il centro (dove non mancano iniziative collaterali).

Taibo II è ancora solida garanzia di fama e clamore, la manifestazione è un diversivo e un divertimento, l’identità politico culturale un punto fermo: la Disneyland dei rossi, fra Gramsci e il Che, passione e tenerezza per entrambi (anche se il primo sapeva le lingue, meglio russo e tedesco, e il secondo non vollero imprigionarlo per venti anni). C’è così un filo unitario nel mezzo secolo di scrittura militante di Paco Taibo II: entrare in sintonia con i cittadini attraverso parole condivise, allargando le platee attive dei lettori (e degli scrittori), mai settarie e autoreferenziali.

https://ilbolive.unipd.it/it/news/taibo-ii-riscopriamo-lettori-americhe-dal-rio-0

 

 

Benjamin Malaussène: guida alla lettura dei sette romanzi di Daniel Pennac - Valerio Calzolaio


Benjamin Malausséne non smette di stupirci, si accommiata da tutti a proprio modo. Lo abbiamo conosciuto meno di quarant’anni fa quando lavorava già da un po’ come capro espiatorio e, nel tempo libero, faceva soprattutto da figura genitoriale ai tanti fratelli e sorelle abbandonati dalla madre (anche sua). Abbastanza presto aveva cambiato mestiere retribuito e mantenuto l’unica passione per Julie (la rossa giornalista originaria del Vercors; Pennac e signora vi vivono spesso ancora), ormai da decenni si esercita da dipendente tuttofare delle Edizioni del Taglione della Regina Zabo, esegue ordini editoriali, legge e valuta, tratta con scrittori grandi e piccoli, condivide occasioni e drammi della letteratura contemporanea, esercita comunque anche la funzione essenziale di capro espiatorio nell’azienda, domandandosi di continuo se non è il cado di smettere, sempre però travolto da fantasmagoriche avventure di parenti stretti e dei sapiens della tribù allargata.

Averlo inventato costituisce la meritata fortuna dell’esimio scrittore francese Daniel Pennac (Casablanca, Marocco, 1 dicembre 1944). Abbiamo già parlato della bio-bibliografia dell’autore, concentrandoci sull’insieme della produzione letteraria di mezzo secolo (1973 - 2023) e, in particolare, su saggi e romanzi senza Ben, il suo principale personaggio . Ora non si può più rinviare, il capro espiatorio va preso di petto e sviscerato un poco. Cominciamo dalla fine, andando a ritroso nel tempo. Partiamo dall’epilogo dichiarato della saga, dal settimo e ultimo romanzo, uscito con grande successo (è ancora in classifica) oltre due mesi fa: Daniel Pennac, Capolinea Malaussène. Il caso Malaussène 2, traduzione di Yasmina MelaouahNoirFeltrinelli 2023 (orig. Terminus Malaussène. Le cas Malaussène 2, 2023)pag. 397)

Siamo lontani dalle Alpi, dalle parti di Parigi, dentro e ai lati del cuore, ovvero nel XX° arrondissement. Verso il settembre 2021 (a otto mesi dalle elezioni presidenziali del 2022) abbiamo un pratico riassunto delle storie raccontate nel precedente volume: in scena il rapimento interrotto e ripreso del ricco sgargiante Georges Lapietà (che conosce a memoria l’elenco dei potenti corrotti) e la rischiosa rifinitura (ora lontano dal Vercors) del secondo romanzo-verità (terribile) del brasiliano Alceste Fontana, insieme a ogni anfratto e risvolto di tutte le vecchie note avventure dell’intera famiglia allargata. L’uomo d’affari era stato rapito dallo stesso figlio Iuc con gli amici Mara, Nange e Sigma, per fare una spettacolare opera d’arte. Solo che alcuni veri malviventi avevano compiuto la stessa scelta e ne era venuto fuori un gran casino.

Il capo dei cattivi è Nonnino, età vetusta e voce dolce, amante di gratin dauphinois, violento e implacabile, ha un esercito colto e fedele di delinquenti ai suoi ordini, li ha educati alla verità cash e formati professionalmente, li guida con risolutezza nera, possiede svariati nomi e identità, ha agganci internazionali e coperture insospettabili. Ispettori e magistrati, bravi e somari, cercano di essere all’altezza. Ben soprassiede ancora come sempre a Julius il Cane (pronipote dell’originale), al dormitorio familiare e all’orfanatrofio annesso; nella banda dei ragazzi c’erano il figlio e i cugini, Mara (incinta) sta con Iuc; dovrà occuparsi del rapimento.

Come sempre Malaussène “capofamiglia” si fa carico di tutto, ogni suo parente ha spesso sfiorato la morte, si vede scorrere davanti agli occhi il catalogo di esplosioni, massacri, violenze. Da dipendente tuttofare delle Edizioni del Taglione della Regina Zabo ha avuto ora soprattutto l’incarico di procrastinare l’uscita del libro (“La loro grandissima colpa”), in cui Fontana racconta senza metafore non solo i pessimi comportamenti della propria stessa parentela, otto fratelli (tre femmine e altri quattro maschi) e due genitori che li hanno adottati, ma anche i traffici sui piccoli calciatori rapiti in Brasile. La bella attempata irrequieta mamma dei sette figli si è rifatta viva: mentre accudisce il marito Paul (innamorato, un poco rimbambito agli Aliossi, residenza per anziani), fa le solite cazzate. Fuochi pirotecnici, arriva di tutto. Pure le bombe.

Daniel Pennac (Casablanca, 1944) chiude il cerchio (da cui il titolo) e narra meravigliosamente un’ultima gustosa avventura contemporanea della serie che iniziò col noir e si è sempre arricchita di realismo magico. All’inizio del romanzo odierno mette il riassunto del volume precedente (2016) e la figura genealogica, in fondo la semplificante ripetizione del repertorio delle denominazioni e definizioni dei mitici personaggi seriali “inventati” (ben oltre il centinaio), citati o evocati, di qualche luogo e archetipo. Con la travolgente lettura manteniamo così memoria di amorevoli storie noir (l’autore termina ringraziando chi lo accolse 40 anni fa nella cantina della Série Noire), di fiabe ironiche e horror, di avventure mirabolanti intorno al mondo, di empatiche figure inevolvibili, di significati multisenso e impatti multisensoriali, di dialoghi scoppiettanti e colpi di teatro, di scene orride o poetiche in luoghi metropolitani e naturali, oltre che degli innumerevoli sfaccettati battiti dei silenzi (saturi, logorroici, cinematografici, invasori, lunghi, pensosi, divertiti).

La narrazione s’avvia in terza persona su Nonnino; segue poi Ben in prima (come sempre); si occupa degli altri amici e sodali in terza; continuando ad alternarsi punti focali, scene e sequenze in quaranta capitoli e otto parti, l’ultima inevitabilmente intitolata alla “mamma” (che ha finora trascorso con figli e nipoti meno di mille giorni, non più di trenta mesi con la sua progenie), ogni parte con una frase del relativo testo in esergo. Ognuno dei precedenti romanzi della serie (1985, 1987, 1989, 1995, 2017; all’inizio anni diversi in Italia, ma sempre con la stessa straordinaria traduttrice, madre astigiana e padre tunisino, il cui nome sembra ma non è tratto dalla saga) trova riferimenti e agganci, pur se Ben non è più il giovanotto versatile che può cambiare lavoro come cambia umore; da qualche decennio si smazza autori celebri; è un essere sociale, un definitivo capofamiglia, un uomo con dei doveri, ligio alle sue responsabilità.

Ancora una volta è cruciale Verdun, la giudice Talvern, incaricata del caso Lapietà, minuscola saggia sorella di Ben (la più giovane, nata urlante nel secondo romanzo della serie), moglie di un enorme professore panettiere (all’altra sorella Thérèse, pure di padre ignoto, era stato dedicato la quinta novella della serie). Verdun aveva detto che “vivere significa passare il tempo a riempire i due piatti della bilancia”, arrivata a fine carriera è costretta a cambiare ancora vita, in meglio e con altre bilance. Segnalo il Père-Lachaise che plana più volte di notte sulle vie di Belleville, suscitando forse un qualche ulteriore stupore. Il calvados viaggia sugli 80 gradi. Il colonnello Nonnino gestisce anche i cori, Vivaldi e Vedrò con mio diletto sono utili a farsi reclutare. Sarebbe interessante descrivere se e come finisce lo scoppiettante romanzo, evitiamo! Torniamo indietro, piuttosto.

Nel 2017 era uscito Il caso Malaussène. Mi hanno mentito (stesso autore, stessa traduttrice e stesso editore, ovviamente), pag. 279, euro 18,50, ambientato a Parigi e nel Sud Vercors, Prealpi del Delfinato (sotto il Grand Veymont, 2346 m slm). Lì siamo verso il settembre 2016 (dal che si capisce che le datazioni storiche hanno tutte molto di arbitrario). In rue des Archers una banda rapisce appunto Georges Lapietà, uomo d’affari, ex ministro e consulente del gruppo LAVA. La lista di chi si era inimicato è lunghissima, a cominciare dagli ottomilatrecendodue dipendenti mandati a spasso quando ha chiuso le filiali che aveva rilevato per la cifra simbolica di un euro con la solenne promessa di non toccare i posti di lavoro. Come riscatto vengono chiesti ottocentosettemiladuecentoquattro euro, cifra corrispondente all’assegno che stava per intascare come paracadute d’oro per quei licenziamenti. Benjamin Malaussène lo scopre lontano tramite gli organi d’informazione, personalmente lui non c’entrava niente.

In quei giorni ha avuto l’incarico dalla sua capa editoriale di mettere al sicuro in un luogo segreto, un’inaccessibile area montana che solo lui ben conosce, lo scrittore Alceste Fontana, che ha appena pubblicato “Mi hanno mentito” e sta completando proprio l’atteso seguito (“La loro grandissima colpa”), racconto senza metafore dei pessimi comportamenti della propria stessa famiglia. Ben parla via skype con i nipoti Mara e Nange e con il figlio Sigma, volontari di belle Ong in tre varie lontane parti del mondo. Agogna solo di poterli presto riabbracciare, alla rentrée. Fatto sta che, pochi giorni dopo, due bravi poliziotti sottraggono alla legge i sequestratori per scarrozzarli con l’ostaggio (in un veicolo rubato da un collega) e nasconderli in un orfanatrofio per ordine di un giudice istruttore che non ha intenzione di deferire l’evento. Non è che l’ideale colpa sarà di Malaussène? Ca va sans dire!

Pennac già riuscì allora nel (quasi) impossibile. Venti anni dopo fece tornare protagonisti di una storia contemporanea i personaggi che lo avevano reso amatissimo e famoso in discreta parte del mondo (compresa l’Italia). A suo tempo, sette anni fa iniziammo la lettura con perplessità e diffidenza. Una prima questione viene risolta dal Repertorio iniziale, una decina di pagine con il centinaio degli “antichi”. Poi si comincia in terza persona, il rapimento dello squallido ridicolo in bermuda e canna da pesca; segue Ben in prima (come sempre), accanto al tipo da proteggere, certo antipatico ma ogni lavoro va accettato; poi un’altra prima persona, proprio Alceste, lo scrittore braccato che vuol raccontare solo l’effimero reale, convive con la calamita Ben e ne è (quasi) l’esatto opposto.

Sensate innovazioni narrative, coerenti con quel che via via si scopre, l’oscurità delle proprie storie, al centro tanto non può che esservi il moderno capro. Ritroviamo amici sdoppiati, cresciuti bambini e replicanti, già cruciale Verdun, le nuove questioni sociali da far risaltare con perizia. Segnalo il manifesto dei rapitori, a pag. 152-153. E tante parole bretoni. Il commissario in pensione Rabdomant sta scrivendo un libro sul Caso (l’errore giudiziario), se ne parla spesso; dunque quello era solo l’inizio, da cui il romanzo conclusivo odierno, come allora si evinceva dal titolo francese (Le Cas Malaussène. I. Ils m’ont menti), dalla vignetta finale e dall’incerta spietata condizione di Lapietà. Il precedente romanzo, quinto della serie, risaliva al 1999, La passione secondo Thérèse, più breve, originariamente realizzato per Le Nouvel Observateur a puntate quotidiane, poi rielaborato e arricchito per la pubblicazione in libro con illustrazioni di Jean-Philippe Chabot.

Era un periodo di stanca per il lavoro di capro espiatorio dal cranio di ferro, Ben era divenuto padre, una svolta. Anche l’avventura precedente non era nata come opera letteraria, bensì teatrale, essenziale tuttavia per seguire il personaggio. Fra il quinto e il quarto non dimenticate la paternità di Ben! Siamo a metà anni Novanta, Ben sta leggendo su una panchina il libro intitolato al suo Signor figlio. Racconta di quando il fratello Jérémy gli chiede spiegazioni su come nascono i bambini, di come la futura nonna ha fatto sette figli con compagni diversi, di chi ha fatto tifo e di chi ha messo i bastoni fra le ruote. Cerca di darci l’idea di cosa si prova quando si sta per diventar padre: l’annunciazione, la presentazione (soprattutto alla madre Julie), la desolazione (quasi un aborto spontaneo?), la risurrezione (nella pancia di una suora), l’apparizione.

Il monologo teatrale Monsieur Malaussène au théatre (dialogo dell’unico attore con le ecografie del suo nascituro) risultò una straordinaria pièce che Pennac si è divertito molto a scrivere, noi a leggere e vedere: il compendio dei pensieri sulla gravidanza del protagonista, con sensibilità e lirismo a contrappunto delle crude dinamiche fisiche dell’esistenza. debuttò nell’ottobre 1996 a Parigi, poi a luglio 1997 al festival di Spoleto e in vari teatri italiani, grazie all’adattamento dell’Archivolto di Genova (pubblicato in Italia insieme a un racconto a quattro mani, come “Ultime notizie dalla famiglia”). In Francia l’autore era in sala tutte le sere (in fondo, nascosto), in Italia il magnifico interprete fu Claudio Bisio, eravamo all’anteprima di umbra. Si parla molto della paternità responsabile, anche se si capisce che la vera fatica ed esperienza irripetibile è la maternità. Da un uomo a ogni sapiens, ironie e paure di fine secolo. Tra nuvole di cartapesta. Non fermiamoci ai ricordi, continuiamo ad andare indietro nel tempo.

I primi romanzi della serie Malaussène rappresentano un unicum compatto e conseguente, pensato e iniziato a scrivere quarant’anni fa (nel 1983) e completato in un decennio, definito dallo stesso Pennac come un quartetto, le quatuor de Belleville: il corposo Monsieur Malaussène (1995), La Petite Marchande de prose (1989), La Fée Carabine (1987), con cui vince il prestigioso “Premio Polar di Le Mans, Au bonheur des ogres (1985), il “giallo” originato dall’iniziale scommessa con gli amici del giallo e del noir. Uno più bello dell’altro, un susseguirsi di fiabe e sogni e sfumature e tonalità e interrogativi comunitari e dubbi morali e dialoghi scoppiettanti, scartando per tanti percorsi culturali dentro una sola multiforme trama, come la vita, un compatto effluvio di fantasia narrativa e di acume sociale, che ha consacrato l’autore fra i grandi del Novecento e deliziato milioni di lettori e lettrici.

Pennac viveva e scriveva già da qualche anno in collina nell’allora poco noto quartiere parigino di Belleville, nel ventesimo arroindissement di Parigi, non lontano dal promontorio da cui si vede tutta la città da nord a ovest. Vi abiterà per decenni ed è proprio in questo cosmopolita e multiculturale quartiere-speranza che colloca il protagonista della saga: colline un tempo coperte di vigneti, poi focolaio di tutte le rivoluzioni, antiche radici operaie e patria di chansonniers, meta di immigrati spesso forzati alla migrazione (nel corso del tempo armeni, ebrei, algerini, neri, cinesi, vietnamiti e via di seguito), microcosmo per decenni degradato e tollerante, descritto anche nelle trasformazioni edilizie e speculative e nella sua permanente biodiversità sensoriale, sempre privilegiando metafore per le crude dinamiche sociali.

https://ilbolive.unipd.it/it/news/benjamin-malaussene-guida-lettura-sette-romanzi

Il turismo dei diplomifici. Pochi giorni di frequenza e «rette» fino a 10mila euro per una maturità facile - Gian Antonio Stella


Mandereste vostro figlio a fare la maturità in una scuola tanto al chilo? Eppure così appaiono certi istituti paritari denunciati in un dossier di Tuttoscuola. Una rete di diplomifici che sfornano ogni anno migliaia di «titoli» buoni per i concorsi pubblici e si vantano online di «rilasciare certificati in media in un giorno» e di «irradiarsi in tutta la penisola con centri di ascolto» e di scansare perfino l’obbligo più ovvio: quello di frequentare almeno una parte delle lezioni. Alla faccia del «merito».

Sia chiaro: il rapporto «Maturità: boom dei diplomi facili» (frutto d’un lavoro capillare sui numeri ufficiali e in uscita oggi a ridosso dei risultati sugli esami di maturità appena pubblicati dal ministero regione per regione) non fa nomi. E il direttore Giovanni Vinciguerra si rifiuta di puntare l’indice su questo o su quell’istituto: «È il sistema con le sue regole a consentire storture indecenti». Incrociando i dati e le «promesse» contrattuali offerte sul mercato agli aspiranti diplomandi, però, sul web si trova di tutto. Compresi indirizzi che si sdoppiano e si moltiplicano e rimandano nelle «street view» di Google map a sgarrupate periferie metropolitane, orrendi «bassi» popolari e talora vere e proprie catapecchie: muri scrostati, grondaie arrugginite, mattonelle divelte, spiazzi ingombri di sterpaglie.

Guai a fare d’ogni erba un fascio: la larga maggioranza delle «paritarie» italiane, quattro quinti, è estranea allo spaccio di attestati. I diplomifici, però, ci sono. Al punto di dar vita addirittura a fenomeni di «turismo diplomante». E sono riconoscibili per una caratteristica: hanno pochi o pochissimi studenti iscritti fino alla vigilia della prova finale per il pezzo di carta utile per i concorsi pubblici e poi iscritti che miracolosamente si moltiplicano tra il quarto e il quinto anno. Un’impennata che nell’ultimo anno scolastico è arrivata a uno stratosferico +166%. Con punte paradossali.

Un esempio? Quello di un istituto «passato da 11 iscritti in quarta a 296 l’anno dopo in quinta»: ventisette volte di più. Tutto «normale»? «Un altro istituto ha complessivamente avuto negli ultimi sei anni soltanto 31 studenti iscritti al quarto anno, diventati in tutto 1.083 al quinto con un incremento di 1.052 iscritti nel sessennio (+3.194%)». Un altro ancora partito da 138 è salito nello stesso periodo, sempre per il 5° anno, a 1.388: «Ipotizzando una retta media di 5 mila euro, i ricavi di questo istituto solo per le iscrizioni al 5° anno sfiorerebbero in sei anni i 7 milioni».

In realtà, come dicevamo, il fenomeno riguarda sì migliaia di persone più o meno giovani appartenenti all’Italia intera e disposte a farsi anche centinaia di chilometri e un po’ di giorni in trasferta (spostamento del domicilio incluso!) per «frequentare» almeno in minima parte le scuole cui si sono iscritte. Ma queste scuole accuratamente scelte per ottenere la benedetta pergamena sono 92. Una quota minore ( il 6,5%) delle 1.423 «paritarie» che portano gli studenti all’esame di maturità. Ma concentrata in una roccaforte: «Il 90,5% dei 10.941 nuovi iscritti sono in istituti paritari della Campania. Il 6,3% in istituti del Lazio. Il 3,2% in istituti della Sicilia. Stop: nessuno è localizzato in altre regioni d’Italia». In pratica, su oltre un centinaio di province italiane quei 92 «paritari» sono concentrati in nove: tutte quelle della Campania più quelle laziali di Roma e Frosinone e quelle siciliane di Palermo e Agrigento». Sintesi finale: su 356 «paritari» in Campania quelli finiti nel dossier sono 82. Quasi uno su quattro. Un’enormità.

Una progressione inarrestabile: dal 2015/16 fino a questo anno scolastico «l’incremento di iscritti a livello nazionale nelle paritarie tra il quarto e il quinto anno delle superiori è stato di 166.314». Oltre 105 mila in Campania, gli altri in tutte le altre regioni messe insieme. Un caso? Dice il Dpr 122/2009 che «ai fini della validità degli anni scolastici, compreso l’ultimo anno di corso (…) è richiesta la frequenza di almeno tre quarti dell’orario annuale». Ma in realtà «in base a quanto risulta da contratti per l’iscrizione nella scuola visionati da «Tuttoscuola», in molti casi sono esplicitamente previste nel corso dell’anno scolastico trasferte di 48-72 ore presso l’istituto dove si svolgerà l’esame finale per un numero di visite che si conta sulle dita di una mano».

Un weekend ogni tanto… «La violazione di legge sulla frequenza per almeno tre quarti dei giorni di lezione messa in atto quasi sempre dagli istituti in odore di diplomificio è la loro carta vincente verso la clientela». Pronta a pagare, stando ai tariffari on-line, «una cifra compresa tra i 1.500 e i 3.000 euro, più una tassa d’iscrizione che va da 300 a 500 euro. Per gli esami di idoneità, il prezzo varia tra i 1.500 e i 3.000 Euro. Per il diploma di maturità la retta media è 2.500-4.500 Euro. Ma ci sono casi in cui si arriva a 8.000 o addirittura a 10.000…»

E lo Stato che fa? Boh… «Sembra abbia rinunciato alla lotta contro i diplomi facili, azzerando o quasi i controlli». Due numeri: negli anni 90 gli ispettori che facevano le verifiche «erano 696. Ne sono rimasti in servizio solo 24. Alcuni prossimi alla pensione. Ai quali si aggiungono 59 dirigenti tecnici con incarichi triennali che dovrebbero vigilare su circa 8 mila istituzioni scolastiche statali e circa 12 mila paritarie. Ottantatré ispettori per 20 mila scuole… Nel Regno Unito gli ispettori sono circa 2 mila (inclusi quelli part-time), in Francia circa 3 mila». Auguri… Perché non ne assumono? Una parola: «Il penultimo concorso è stato nel 1989; il successivo iniziato nel 2005 si è concluso nel 2014. Infine il nuovo concorso ha mosso i primi passi nel 2019 e ad oggi non è stato ancora bandito». Due concorsi in 34 anni. Prova provata che l’andazzo non scandalizza poi più di tanto.

Sono anni, del resto, che fior di intellettuali, economisti, studiosi della scuola, chiedono inutilmente di rovesciare il principio, ormai fossile, del valore legale del titolo di studio. «Quel valore legale non garantisce un suo valore reale», spiega ad esempio Andrea Ichino, autore con Guido Tabellini del libro Liberiamo la scuola, «Allo stesso modo, la certificazione legale di un insegnante non garantisce la sua qualità: tutti ricordiamo gli insegnanti davvero bravi avuti nella nostra carriera scolastica così come quelli pessimi, eppure erano tutti insegnanti certificati dallo Stato». Che senso ha restare inchiodati lì, alla scartoffia timbrata, in un contesto così?

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sabato 29 luglio 2023

La critica di Gramsci all’antropologia del prof. Crisanti – Stefano Fassina

 

 

«Anche l’Organizzazione mondiale della Sanità definisce l’infertilità una malattia. La Gestazione per altri (Gpa) è una cura: se ho un deficit funzionale di tutti e due i reni, faccio un trapianto di reni… La Gpa è tecnicamente una donazione d’organo temporanea e reversibile». Sono le parole del professor Andrea Crisanti, senatore del Pd, a questo quotidiano. Sono l’oggetto, oltre un secolo fa, della critica feroce, moralistica secondo la cultura politically correct, di Antonio Gramsci.
Il leader dei comunisti italiani, su L’Avanti del 6 Giugno 1918, in un pezzo intitolato «Merce», scriveva: «Il dottor Voronoff ha già annunziato la possibilità dell’innesto delle ovaie. Una nuova strada commerciale aperta all’attività esploratrice dell’iniziativa individuale. Le povere fanciulle potranno farsi facilmente una dote. A che serve loro l’organo della maternità? Lo cederanno alla ricca signora infeconda ... Venderanno la possibilità di diventar madri …. La vita, tutta la vita, non solo l’attività meccanica degli arti, ma la stessa sorgente fisiologica dell’attività, si distacca dall’anima, e diventa merce da baratto … simbolo del capitalismo moderno».
Nella agghiacciante visione antropologica del senatore Dem, proprio come descriveva Gramsci, la gravidanza, come il filtraggio compiuto dai reni, è una ordinaria attività corporea meccanica e una creatura umana è un organo inanimato, vivo, ma inanimato, come un rene appunto. Quindi, la Gpa diventa cura per l’infertilità. Poiché il commercio degli organi umani è vietato, coerentemente, si vieta anche il commercio della gestazione. Come per gli organi umani trapiantabili, se ne consente il dono. Quindi, sì alla cosiddetta «Gpa solidale», a maggior ragione in nome dell’autodeterminazione della donna, purché sia «una parente o un’amica che non è in uno stato di indigenza» (per autodeterminarsi è richiesto l’Isee).
I nodi sono complessi e sensibili, ma complessità e sensibilità o il timore dell’accusa di intelligenza con il nemico, non devono portare al silenzio complice sulla deriva di larga parte della classe dirigente "progressista", da ultimo nella scelta compiuta di uscire dall’Aula, astenersi, finanche votare a favore (lodevole eccezione il No dei Verdi) sull’emendamento presentato alla Camera dall’onorevole Riccardo Magi per introdurre la Gpa solidale nella legislazione italiana.
Si deve parlare, per risalire la china. Primo e decisivo punto: tra le persone coinvolte nella Gpa va riconosciuta, innanzitutto, la creatura portata in grembo da una mamma e poi ceduta. Non è cosa, merce o dono. Non può essere oggetto di scambio tra committente e fornitrice. La gravidanza, a differenza del filtraggio del sangue, scolpisce l’anima della vita nascente e della vita che la nutre. La separazione innaturale segna per sempre entrambe.
Secondo: l’autodeterminazione della persona, in particolare della donna, è sacrosanta e irrinunciabile. Ma la cultura del limite va parimenti affermata. I desideri, anche i più nobili come paternità e maternità, non diventano diritti soltanto perché il Mercato e la Tecnica, potenze amorali, lo consentono. Su tale punto, ripropongo quanto scrissi qui il 5 marzo 2016, in risposta a Bia Sarasini, intervenuta per stigmatizzare una mia intervista, a suo dire «proibizionista», ad Avvenire: «Nella logica dell’autodeterminazione, lasciamo ad ogni persona la disponibilità del proprio corpo anche quando i rapporti di forza tra chi compra e chi vende sono strutturalmente asimmetrici?».
Qui, arriviamo alla scappatoia ipocrita della Gpa fuori dal Mercato. Domanda: quante e quanti mamme e papà intenzionali, in piazza per la gestazione solidale, hanno ricevuto un vero dono? Come ha coraggiosamente denunciato l’onorevole Luana Zanella alla Camera per motivare il No alla proposta Magi, «la Gpa solidale è una mistificazione».
La sinistra per avere senso politico deve riconquistare alterità etica all’antropologia liberista: ritornare umanista, come nelle sue origini. Nella proclamazione di diritti di un individuo consumatore sovrano, senza cultura del limite, rimane a servizio del Mercato.

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30+1 cifre che raccontano l’Italia

Decrescita Italia: radiografia di un trentennio inglorioso - Giuliano Garavini

Non si scampa alle conversazioni da bar in cui qualcuno (normalmente di destra) se ne esce con “ci sono troppi laureati e pochi falegnami” oppure “l’Italia ha troppi dipendenti pubblici che non combinano niente”. Altri (normalmente di sinistra) moraleggiano che “l’immigrazione è un finto problema” o quanto sia “bello pagare le tasse”. In questo contesto, il libro di Guendalina Anzolin e Simone Gasperin (30+1 cifre che raccontano l’Italia) è un manualetto di resistenza ai luoghi comuni scritto in modo chirurgico da due “giovani” economisti appassionati del loro Paese e con studi in prestigiosi centri di ricerca britannici. Trentuno capitoli e altrettanti affreschi su economia e società italiana nel trentennio “inglorioso” seguito alla firma del trattato di Maastricht.

Il declino economico è ben rappresentato dal calo della ricchezza che rende quello italiano un caso più unico che raro nel mondo occidentale. Il 16 maggio del 1991 il Corriere titolava “Italia quarta potenza”, avendo superato la Gran Bretagna per Pil pro-capite: trent’anni dopo, era più basso in termini reali rispetto al 1990, accompagnato da una riduzione dei salari reali, diminuiti da allora al 2020 del 2,9 per cento.

L’implosione è avvenuta in un quadro di politiche macroeconomiche improntante al raggiungimento di avanzi primari (lo Stato spende meno di quanto preleva da cittadini e imprese al netto degli interessi). Tra il 1991 al 2019 sono stati accumulati 819 miliardi di avanzi primari accompagnati da un’esplosione del debito, lievitato nel 2020 alla cifra record del 154% sul Pil. Il processo di “nanizzazione” industriale ha fatto sì che mentre nel 1990 l’Iri e l’Eni erano rispettivamente all’11° e al 18° posto tra le più grandi aziende al mondo secondo l’indice Fortune 500 (Enel era la terza azienda elettrica al mondo per fatturato, prima per clienti), trent’anni dopo le italiane siano scivolate in fondo alle classifiche. Pezzi pregiati dell’industria italiana, da Telecom a Pirelli sono stati venduti, trend proseguito oggi con Alitalia a Lufthansa. I soliti del bar diranno: “È la globalizzazione!”. Questo non spiega perché l’Italia sia precipitata al 15° posto della classifica Fortune per il numero di aziende annoverate mentre la Germania resti in 4ª posizione, la Francia in 5ª. Mentre la grande industria italiana sbiadisce, emerge con prepotenza il settore turistico che impiega il 19,2% di occupati in più che nella manifattura (crollata ulteriormente negli ultimi mesi del 7,2 per cento). Agli spingitori di B&B e “Open to Meraviglia”, gli autori rispondono con un’asciutta considerazione: “Questo ragionamento è tuttavia una trappola logica, smentita dall’esperienza storica dello sviluppo economico. I Paesi a più alto reddito sono quelli che hanno “forzato” i loro vantaggi comparati” investendo in settori ad alto valore aggiunto”.

Le difficoltà della grande impresa sono andate di pari passo a un tracollo degli indicatori sociali: il “lavoro povero” ha raggiunto il 12 per cento, il 14 per cento della popolazione vive oggi in condizioni di povertà relativa. Il settore pubblico, vessato da tagli lineari, è tra i più anemici nell’Ue. Alla spesa sanitaria sono stati sottratti 37 miliardi (in 10 anni chiusi 173 ospedali e 837 strutture di assistenza). Il disinvestimento nell’università ha fatto sì che solo il 9 per cento degli italiani compresi nella fascia tra i 24 e i 35 anni possieda un titolo di laurea o equivalente: l’Italia si ritrova in penultima posizione fra i Paesi OCSE (meglio solo del Messico, che però ha un Pil pro-capite tre volte inferiore). Le destre italiane, demonizzando l’intervento pubblico hanno contribuito alla crisi del sistema industriale e all’indebolimento delle strutture statuali. Le sinistre hanno pochi fiori all’occhiello. Per esempio l’immigrazione, lungi dall’essere un “non problema”, è una questione di portata epocale. Dal 1870 al 1971 l’Italia ha registrato un saldo migratorio costantemente negativo. A partire dal ‘72 la dinamica si è invertita e negli anni Duemila l’afflusso netto di immigrati è stato costante per 239mila ingressi all’anno. La popolazione non italiana è passata da appena 356.159 unità nel ‘91 agli oltre 5 milioni attuali. È avvenuto mentre la popolazione residente è diminuita per la prima volta nella storia unitaria nel 2021 (a 59 milioni), anche a causa di un deflusso verso l’estero che ha toccato quota 198mila nel 2020, portando la popolazione italiana residente all’estero al 13 per cento del totale (non solo giovani laureati, ma intere famiglie). Un cambiamento epocale.

Anche sulle tasse i numeri di Anzolin e Gasperin ci raccontano che pagarle non sempre è bello. L’Italia ha una pressione fiscale sul Pil (42,4 per cento) che è tra le più alte fra i Paesi Ocse, davanti alla Germania. Mentre è calata la progressività fiscale data dall’imposizione diretta, sono aumentate le imposte indirette come l’Iva (arrivata al 22 per cento) che gravano sui consumatori indipendentemente dal reddito, dunque sono socialmente regressive. Alcune tasse andrebbero alleggerite (ridurre l’Iva al livello pre-2011 contribuirebbe a controllare l’inflazione), altre andrebbero aumentate.

I mali dell’economia italiana sono noti, non da ieri. Competizione a basso costo, sottodimensionamento delle imprese, fratture territoriali, interazione con un vincolo esterno che ha imposto politiche macroeconomiche segnate da austerità e privatizzazioni. Se è insensato glorificare Berlusconi, protagonista del degrado economico e culturale del Paese, altrettanto fuori luogo sarebbe incensare le sinistre per il sostegno all’austerità, nonché per l’infatuazione per privatizzazioni e liberalizzazioni che hanno arricchito percettori di dividendi italiani e non (anche nelle imprese partecipate dallo Stato il 40%dei dividendi va ad azionisti stranieri).

Come chiosa dei numeri forniti dagli autori, è giusto trarre due considerazioni. In primo luogo la retorica della “crescita”, fatta di flessibilità del lavoro, concorrenza sui prezzi, incentivi alle imprese, ha connotato in senso regressivo la contrazione del Pil. La “decrescita” andrebbe invece abbracciata come un dato di fatto di un mondo in cui emergono altre regioni industriali e in cui i limiti naturali all’espansione produttiva sono stati superati. Abbracciare la decrescita (o la “prosperità”, termine preferito da Bruno Latour) significherebbe orientare le scelte non tanto all’aumento del Pil, quanto al miglioramento della qualità della vita e alla transizione ecologica. Per esempio, rilanciando servizi pubblici più efficienti di quelli privati, intervenendo sulle produzioni industriali, riducendo gli orari di lavoro, redistribuendo ricchezza verso le fasce più povere (e meno responsabili dell’inquinamento), rilanciando l’economia pubblica nella gestione del settore energetico. Persino sul Financial Times è stato scritto che “i governi, non BlackRock, devono guidare questo nuovo Piano Marshall… massicce spese in deficit saranno necessarie, non un nuovo Etf”.

Un’altra questione riguarda l’immigrazione. L’idea che si possa cambiare di segno al declino italiano con ulteriori massicci innesti di manodopera non italiana a basso costo per spingere il Pil, o per equilibrare il sistema pensionistico, non tiene conto del cambiamento epocale già in atto, né delle conseguenze sociali, drammaticamente evidenti nel degrado delle periferie francesi. Ci sono ragioni di carattere morale per l’accoglienza, nonché di carattere politico e culturale sulle responsabilità che gli europei devono assumersi per l’epoca coloniale, ma la priorità dovrebbe andare internamente alla piena inclusione dei migranti (per esempio con l’apertura di nuove moschee), ed esternamente a una battaglia per modifiche strutturali dell’economia internazionale. Qualcosa come un vero “Piano Mattei” per l’Africa in cui soldi e risorse naturali restino lì, non le mosse predatorie che Eni-Meloni spacciano a nome del fondatore.

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venerdì 28 luglio 2023

Un Consiglio superiore della magistratura che piace al Governo - Domenico Gallo

 

Della decisione del Consiglio superiore della magistratura di non confermare il giudice Emilio Sirianni nel proprio incarico già si è detto su queste pagine (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/07/19/un-giudice-pericoloso-o-un-ritorno-agli-anni-50/) ma qualche ulteriore rilievo e una contestualizzazione si impongono.

Si è da poco conclusa l’avventura umana di Silvio Berlusconi, ma appena celebrati i funerali è ripreso a soffiare fortissimo il vento del berlusconismo. Il Governo, avendo il ministro Nordio come uomo di punta, ha ripreso il percorso di manipolazione del giudiziario che Berlusconi aveva perseguito, con alterne vicende, in tutta la sua carriera politica. L’asse portante del percorso è quello di neutralizzare il controllo giudiziario rispetto agli abusi dei ceti dirigenti, politici, affaristici o imprenditoriali. In altre parole depotenziare l’incisività dello strumento penale nei confronti dei reati dei c.d. “colletti bianchi” e allargare l’area dell’impunità di fatto per le “persone perbene” (https://volerelaluna.it/commenti/2023/06/26/il-pacchetto-nordio-e-la-giustizia-dopo-berlusconi/), realizzando le opportune riforme di sistema.

È ritornato così prepotentemente d’attualità il mito dello scontro Magistratura-potere politico (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/07/14/la-vicenda-giudiziaria-del-sottosegretario-delmastro-e-uno-scandalo-che-non-ce/). Ha cominciato il Ministro Nordio, che da Taormina, irritato per le critiche ricevute alla sua miniriforma, ha imposto all’Associazione magistrati di tacere, accusandola di interferenza indebita nell’azione di governo. È curioso che alla caduta del fascismo il Ministro liberale dell’epoca Arangio Ruiz, con una circolare del 6 giugno 1944, abbia restituito ai magistrati il diritto di esprimersi liberamente e di partecipare alla vita politica, che Mussolini aveva cancellato, mentre adesso la libertà di espressione viene guardata nuovamente in cagnesco da un Ministro che si autodefinisce “liberale”. Ma il problema rimane pur sempre il controllo giudiziario esercitato nei confronti dei ceti dirigenti. Così nella giornata di giovedì 6 luglio è stata diffusa una nota di “fonti di Palazzo Chigi” nella quale si contestava l’operato della magistratura nei casi Dalmastro e Santanchè, affermando che «è lecito domandarsi se una fascia della magistratura abbia scelto di svolgere un ruolo attivo di opposizione. E abbia deciso così di inaugurare anzitempo la campagna elettorale per le elezioni europee». Alle dichiarazioni non firmate arrivate dalla presidenza del Consiglio sono seguite anche due note da parte di fonti del ministero della Giustizia, che proprio alla luce dei due casi giudiziari che stanno mettendo in difficoltà il Governo evocava la riforma del giudiziario. Bene ha reagito il Presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, respingendo al mittente le accuse e mettendo in evidenza che lo scontro è a senso unico: è la politica che attacca la magistratura.

Il punto dolente è lo scandalo del “potere diviso”, cioè quello snodo insuperabile di pluralismo istituzionale rappresentato dal sistema di indipendenza del potere giudiziario che, secondo il disegno costituzionale, non può essere assoggettato né condizionato dall’esercizio dei poteri politici di governo, né da nessun altro potere. Il controllo di legalità effettuato da una magistratura indipendente da ogni altro potere è la principale garanzia per la tutela dei diritti fondamentali che la Costituzione riconosce come inviolabili. Inutile dire che da diversi decenni la politica vuole mettere fine a questo scandalo del potere diviso che, in linea di principio, è inaccettabile per tutti gli ordinamenti fondati su una concezione monista del potere. Nel libro Magistrati, pubblicato nel 2009, Luciano Violante richiama la concezione della magistratura formulata quattro secoli prima dal filosofo inglese Francis Bacon, secondo il quale: «I giudici devono essere leoni, ma leoni sotto il trono». In altre parole l’esercizio della funzione giudiziaria deve essere reso compatibile con l’esercizio del potere politico sovrano. Non v’è dubbio che il modello di giudice, leone sotto il trono, è quello preferito dal nostro sistema politico. I leoni sotto il trono sono feroci verso chi è sgradito al Sovrano (vedi il caso Lucano), ma all’occorrenza questi leoni si trasformano in cagnolini quando si trovano di fronte agli abusi del Sovrano: certamente al leone sotto il trono non verrà mai in mente di mordere la mano del padrone.

Questa concezione dei magistrati come “leoni sotto il trono” è presente in ampi settori della magistratura associata, specialmente nella corrente conservatrice di cui fu segretario Cosimo Ferri, le cui qualità furono molto apprezzate dal mondo politico che lo chiamò a esercitare la funzione di sottosegretario alla Giustizia, mantenuta sotto tre differenti governi. Non è un caso che i collaboratori del ministro Nordio provengano quasi tutti da quel gruppo. Così nello scontro politica-magistratura, per quanto l’Anm, con il suo presidente, si sforzi di tenere la barra dritta lungo la rotta della Costituzione, il corpo dei magistrati non si presenta compatto nel difendere le garanzie costituzionali. Se il ministro Nordio sogna di applicare il Berufsverboten (cioè l’esclusione dei soggetti di idee radicali o “estremiste”) al corpo dei magistrati, senza riuscirci perché – purtroppo per lui – c’è la Costituzione, all’interno della magistratura si è levato un vento di normalizzazione che porta ad applicare a se stessa il Berufsverboten, anticipando il potere politico.

È in questo contesto che si colloca la mancata conferma nell’incarico di presidente della Sezione lavoro della Corte d’appello di Catanzaro del giudice Sirianni, reo di aver usato espressioni critiche e duri giudizi nei confronti di un prefetto, di un ministro dell’Interno e di un noto magistrato in alcune conversazioni private con l’allora sindaco di Riace, Mimmo Lucano, del quale era amico e con cui condivideva l’impostazione dell’esperienza di accoglienza dei migranti conosciuta in tutto il mondo come “modello Riace”. La vicenda, come già si è detto in queste pagine, è illuminante. Pur in presenza di conversazioni private, destinate a restare tali e diventate pubbliche sol perché intercettate nel procedimento penale a carico di Mimmo Lucano e divulgate (ancorché non utilizzate nel processo siccome irrilevanti) da un quotidiano incline alla caccia alle “toghe rosse”, Sirianni – dopo l’(ovvia) archiviazione di un processo penale, di un processo disciplinare e di una procedura di trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale – è stato “processato”in sede associativa per violazione del codice etico, evitando la censura solo perché la proposta non ha raggiunto il quorum di voti necessario nel Comitato direttivo centrale. Ma il segnale più grave è venuto, appunto, dal Consiglio superiore della magistratura, l’organo deputato, per Costituzione, a tutelare il corretto e indipendente esercizio della giurisdizione che, chiamando in causa le conversazioni intercorse con Lucano, ha negato a Sirianni la conferma nella funzione semidirettiva ricoperta. Per tale conferma, la legge prevede che, oltre alla verifica della capacità organizzativa, siano esaminate «la competenza tecnica, l’autorevolezza culturale e l’indipendenza da impropri condizionamenti, espresse nell’esercizio delle funzioni». Avendo verificato tali requisiti il Consiglio giudiziario di Catanzaro aveva espresso, per due volte e all’unanimità, parere positivo. Non così il Csm. Eppure la conferma o il diniego di conferma in un incarico direttivo o semidirettivo è, di norma, una questione di ordinaria amministrazione, che attiene al controllo delle capacità professionali e di equilibrio del magistrato nello svolgimento del suo lavoro mentre non ha nulla a che vedere con il controllo del profilo culturale, dei sentimenti o delle opinioni espresse dal magistrato in conversazioni private, ove non si riferiscano espressamente all’attività del proprio ufficio. In questo caso invece, attraverso un banale provvedimento amministrativo, è stata realizzata una grave discriminazione politico-culturale. Di fatto è stata istituita una sorveglianza sui magistrati che esprimano idee sgradite al potere o al mainstream politico-culturale.

Inutile dire che, se passerà questa linea interna alla magistratura, Nordio e Meloni tireranno un sospiro di sollievo. Il Berufsverboten i magistrati se lo applicheranno da soli!

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