Con Taibo II riscopriamo i lettori nelle Americhe dal Rio Bravo al Polo sud/1 - Valerio Calzolaio
Francisco Ignacio Taibo Mahojo è un messicano nato in Spagna, a Gijón (Asturie) l’11 gennaio 1949, ha dunque compiuto settantaquattro anni ed è divenuto abbastanza famoso nel mondo come giornalista, scrittore, saggista e storico. Il padre Francisco Ignacio Taibo Lavilla era un giornalista cartaceo e televisivo, deceduto il 14 novembre 2008, lui noto editorialmente come Paco Ignacio Taibo pur se, negli ultimi decenni di vita, dovette aggiungere un "primo" (Taibo I) al proprio non de plume, quando il figlio cominciò anche lui a pubblicare libri conosciuti. Da almeno quaranta anni Paco Ignacio Taibo II ha notevole successo letterario e culturale, sia nella nuova patria messicana che in tanti altri paesi, non solo di lingua spagnola, molto anche in Italia.
Taibo II nacque in una famiglia spagnola dagli ideali politici legati alla sinistra. Il regime fascista franchista li costrinse a emigrare in Messico nel 1958, verso un paese con più o meno la stessa lingua, che tradizionalmente aveva sempre accolto profughi e perdenti di molte rivoluzioni e di altre dittature. Benito Taibo, nonno paterno, apparteneva al gruppo dirigente del PSOE (Partito Socialista Operaio Spagnolo) e partecipò all'insurrezione del 1934 e, poi, alla guerra civile, combattendo per il fronte repubblicano; il prozio (fratello della nonna paterna) era il direttore del giornale socialista El Avance. Patirono entrambi le carceri franchiste. Anche il nonno materno procurava armi di contrabbando agli anarco-sindacalisti durante la guerra civile e tentò di prendervi parte armando un peschereccio, finché non morì con tutto il suo equipaggio, affondando con la propria imbarcazione sotto i colpi nemici.
Dopo i primi infantili nove anni spagnoli, Taibo II crebbe dunque da adolescente in una famiglia messicana, stabilitasi e sempre rimasta nella immensa capitale Città del Messico. Ignacio Paco presto si rese autonomo e nel 1971 si sposò con Paloma Sáiz y Chela con la quale hanno avuto Marina, affermandosi giovanissimo come scrittore di allegra fiction sociale. Nell’ultimo quarto di secolo del millennio scorso il suo nome è associato al brulichio di grandi autori che, sull’onda dei capolavori di García Márquez e Vargas Llosa, affermarono nuovi stili e narrazioni in gran parte dei paesi a sud degli Stati Uniti d’America, un’altra America (non inglese-americana), uscita più di recente dal colonialismo, ribelle e indipendente. Divennero molto noti e letti un po’ in tutta Europa, non solo in Spagna, certamente in Italia; varianti intense e personalissime di uno stesso percorso letterario; i più conosciuti forse Daniel Chavarría (Uruguay 1933, e Cuba), Rolo Diez (Argentina 1940), proprio Paco Ignacio Taibo II e Leonardo Padura Fuentes (Cuba 1955), poi Luis Sepúlveda (Cile 1949).
Ha più volte spiegato il grande scrittore e traduttore (dallo spagnolo) Bruno Arpaia che la letteratura latinoamericana non esiste, chi vi fa riferimento finisce per “incasellare” in un luogo comune varietà e ricchezza di un intero continente e di 21 paesi. Non vi è nemmeno un’identica comune lingua spagnola, considerando innanzitutto i brasiliani, poi coloro che scrivono in inglese e infine le varianti. Le biografie sono comunque meticce (alcuni che sono nati proprio in Spagna o altrove o sono migrati) ed esistono molte articolazioni, sfumature e “parlate” nazionali. Resta purtuttavia costantemente valido un interrogativo. “Precisato tutto ciò, possiamo porci la domanda: c’è vita oggi nella letteratura tra il Río Bravo e Ushuaia?”. Proprio Arpaia, in uno dei suoi contributi su questo giornale, ha raccontato un panorama degli interessanti scrittori e scrittrici del primo quarto di secolo del nuovo millennio. Rileggere Paco Ignacio Taibo II appare pertanto un buon modo per approfondire un filo di pensieri letterari ed editoriali sull’America a sud degli Usa, insieme al relativo differente contesto geopolitico, tanto più che molti degli storici scrittori citati hanno portato una ventata di novità globale nella letteratura, in particolare di genere giallo e noir.
Paco Ignacio Taibo II è un fine popolare intellettuale manifatturiero che si lascia coinvolgere in tutte le filiere della produzione di idee e azioni collettive per conto di frasi e gesti individuali, che promuove congiuntamente cultura, lettura e arte, prima ancora di fare culture, scritture e arti, motorino sempre carico di passioni sociali e civili. La sua attività ha avuto stabilmente base in Messico, nella capitale. Per fare un esempio, nel 2010 promosse con la moglie (che fino all’anno prima lavorava al Ministero della cultura del Distrito Federal, licenziata per spoil system) una Brigada para leer en libertad, (“Brigata per leggere in libertà”). Con amici, colleghi e sodali raggiungevano i quartieri più poveri e le baraccopoli dove non c’era nemmeno un libro e trovavano spesso un pubblico appassionato (presunti “non” lettori), che smentiva l’idea che in periferia si legge poco o non si legge affatto: “se rompi le barriere, i blocchi che impediscono alla gente di arrivare ai libri, allora la gente legge, e molto… un’esperienza affascinante”.
La Brigada ha creato un modello di istituzione culturale: trovata una sede scalcagnata, hanno battuto le circoscrizioni della metropoli offrendosi di organizzare fiere del libro, locali, nazionali o internazionali a seconda del budget. Poi hanno convinto le case editrici a non mandare al macero i volumi invenduti, ma a consegnarli per organizzare immensi mercati del libro in saldo, dove si sono riversate centinaia di migliaia di persone. Quindi, grazie alle donazioni dei privati, i brigadistas (tutt’altro significato rispetto alla traduzione italiana) hanno messo su decine di biblioteche di quartiere o scolastiche. Infine, con il sostegno della Fondazione Rosa Luxemburg e con quello degli autori che regalavano alla Brigada i loro diritti, hanno cominciato a pubblicare libri e a regalarli durante le centinaia di dibattiti e di tavole rotonde organizzate nei quartieri più sperduti e sempre in spazi aperti.
La Brigada si autofinanzia e riesce a dare un piccolo stipendio ai propri componenti, con la collaborazione di centinaia di romanzieri, giornalisti, sociologi, artisti, poeti, storici, da Elena Poniatowska a Jorge Moch, da Pino Cacucci a Sanjuana Martínez, che offrono il loro tempo e il loro talento per entrare in contatto con migliaia di persone e spingerle alla lettura. Le storie, le foto e i video visibili sul sito raccontano di folle clamorose ai concerti e ai dibattiti o negli stand dei librai, di una partecipazione appassionata e combattiva. La prossima e 16° Gran Remate de libros y peliculas si svolgerà dal 2 al 6 agosto 2023. Leggere aiuta a socializzare, a condividere esperienze e informazioni, a diffidare dell’evidente, a esigere diritti e a compiere i doveri. E diventa un fattore chiave dell’identità e della democratizzazione. Mentre la lettura per obbligo non ti trasforma in lettore, ciò che ti porta a leggere è il piacere.
La Brigada ha subito avviato anche programmi di lettura con gruppi di lavoratori, per esempio poliziotti e pompieri, categorie che non sempre godono certo di buona stampa. Pare che gli agenti diventati lettori diventino più gentili e corretti e la gente li guardi con occhi diversi. Pure Paco, ovviamente, continua dall’inizio come volontario della Brigada. Da qualche anno, inoltre, ha un incarico ministeriale ufficiale, direttore del Fondo de Cultura Económica, una casa editrice transnazionale con 1600 lavoratori, che in Messico promuove cultura multiforme, pubblica mille libri all’anno, gestisce una rete di 120 librerie e ha filiali in undici paesi, grazie all’incarico conferitogli dal “nuovo” Presidente messicano Andrés Manuel López Obrador, conosciuto con l'acronimo di AMLO, eletto nel dicembre 2018 (e sempre alle prese con un’endemica criminalità, come raccontato su Il Bo Live da Andrea Gaiardoni poco più di un anno fa.
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Con Taibo II riscopriamo i lettori nelle Americhe dal Rio Bravo al Polo sud/2 - Valerio Calzolaio
Da quasi cinquanta anni, Taibo II risulta uno degli scrittori messicani più noti al mondo.
Iniziò nel 1976 con la serie gialla di Héctor Belascoarán Shayne. Inizia con la Genesi e finisce con il pianto desolato e un’esclamazione colorita sulla solitudine del protagonista la prima (Días de combate, Giorni di battaglia) delle finora dieci avventure del protagonista fino al 2012 (tutte tradotte in italiano con vari editori, con continuità grazie a una felice intuizione di Marco Tropea negli anni Ottanta), fra l’altro morto nella terza e risorto nella quinta. Nato nel 1944 (cinque anni prima dell’autore), figlio maggiore (una sorella Elisa, reduce da un divorzio, un fratello Carlos, impegnato a sinistra) di José, capitano di marina basco, socialista rivoluzionario in esilio in Messico e vicedirettore di una casa editrice, morto da qualche anno, e di Shirley, competente cantante folk irlandese, a fine vita, Héctor fino a trent’anni aveva fatto l’ingegnere supervisore alla General Electric di Città del Messico e il marito. Poi, d’improvviso, lascia il lavoro, si allontana dalla moglie Claudia, affitta un ufficio da detective (coabitandovi prima con un idraulico, poi anche con un tappezziere e un ingegnere che si occupa di fogne), studia serialkillerologia vincendo sessantaquattro mila pesos al quiz di Televisa, prende un diploma per corrispondenza e si getta per le strade (con una 38 sotto l’ascella) alla ricerca del Cervelo che ha strangolato dodici donne in due mesi.
Il doppio cognome Belascoarán Shayne deriva dai genitori spagnolo-irlandesi. Héctor vi tiene moltissimo, lui è bruttino (i casi lo renderanno inoltre orbo da un occhio e claudicante per un chiodo nella gamba zoppa) e pieno di cicatrici in corpo e spirito; politicamente marxista esistenziale e anarcoide, fuma Delicados con filtro, beve cola, indossa un impermeabile di gabardine; riesce a fare poco sesso (rimanda comunque a una fidanzata “fantasma” con la coda di cavallo), ingurgita tacos e donas, va spesso al cinema per pensare, dorme sempre pochissimo ma appagato (insonne per amore). Il fresco disincantato colto Taibo II iniziò così a giocare con il genere giallo (o negro che dir si voglia) e a scherzare con gli appassionati, narrando i simpatici tic noir in prima e terza persona, ammaliando meravigliosamente i lettori. In pochi anni vinse tre premi Hammett, vendendo poi un milione di copie del tenero testo su Che Guevara (Senza perdere la tenerezza, Il Saggiatore 2017, oltre trecento mila copie vendute solo in Italia).
La vena narrativa è ben presto apparsa fertile e inesauribile con quasi una quindicina di altri romanzi dal 1982 (alcuni splendidi, perlopiù tradotti), circa una decina di saggi e biografie dalla fine degli anni Ottanta, ricchi di humour e ritmo (dal Che a Pancho Villa, da Tony Guiteras a Sandokan e alla battaglia di Alamo), oltre a tante scritture no fiction e collaborazioni di ogni tipo dal 1971 (molte opere non tradotte di tutti i generi), a migliaia di articoli, a direzioni di raccolte e riviste, ad apparizioni in forbite teleconferenze e a divertenti presentazioni pubbliche (spesso anche in Italia). Per capire meglio la poliedrica cosmopolita personalità di Taibo II bisogna sapere che per oltre trent’anni dal 1988 al 2019 ha diretto il più grande festival di genere giallo noir in Europa. Una volta gli domandai quanti aerei avesse preso nell’anno procedente, rispose con precisione: “Ottantasei da luglio 2009 a luglio 2010, sto fuori casa (e scrittura) metà di ogni anno. Troppo.”
Ormai siamo alle nozze d’oro: da 49 anni a luglio si svolge a Gijon nelle Asturie una manifestazione denominata Semana Negra, SN. Quando vi partecipai nel 2010, partimmo con la tribù del Tren Negro il venerdì mattina da Madrid, arrivammo nel pomeriggio e tornammo indietro dopo il fine settimana successivo, vivendo in patria (loro) l’apoteosi spagnola dei mondiali di calcio. Indimenticabile! Ogni anno partecipano quasi duecento scrittori da almeno dieci differenti paesi, quelli dell’idioma (spagnoli, messicani, uruguaiani, argentini, peruviani, cubani, colombiani) ma anche “ospiti” (americani, francesi, inglesi, greci, pure italiani, spesso e tanti), perlopiù già tradotti all’estero (successo o caso). Agli appassionati, leggerli incontrarli ascoltarli fa proprio piacere. A loro, incrociarsi fa un gran bene: affinano personaggi, scoprono affinità, valutano percorsi, avviano collaborazioni. Proprio alla SN vi fu decenni fa per esempio il primo incontro fra Carlo Lucarelli e Manuel Vàzquez Montalbàn (Barcellona, 14 luglio 1939 - Bangkok, 18 ottobre 2003), altro amico “anziano” di Taibo II, nome tutelare della manifestazione asturiana come della colta alta letteratura gialla (o negra) di fine Novecento (a me capitò di intervistarlo nel 1987 a Cattolica), all’origine ovviamente pure dell’amatissimo commissario di Camilleri.
Alla Semana Negra non c’è catalogo, non si trovano libri gratis. Né si percepiscono rivalità, nemmeno fra i finalisti dei premi per opere originali in castellano. Molti dichiarano che gli scrittori “sanno” chi vale, chi quell’anno ha fatto meglio e chi non è stato all’altezza di altre prove. E così i riconoscimenti vengono assegnati da ristrette giurie di autori sulla base di una selezione ampissima di testi segnalati innanzitutto da altri autori. A Gijon non si vince altro che la gloria: niente soldi, niente targhe, niente statuette. Fra i vari prestigiosi riconoscimenti segnalo il premio Hammett (il più antico e ambito), il premio Celsius (fantascienza e dintorni), il premio Espartaco (romanzo storico), il premio Rodolfo Walsh (no fiction criminale), il memorial Silverio Cañada (esordio di “novela negra”), il premio del Direttore e quello del direttore del giornale speciale della manifestazione Quemarropa, che nel 2010 era Angel de la Calle.
Proprio Angel (Salamanca, 1958), disegnatore e fumettista (con studi noti anche in Italia su Tina Modotti e Hugo Pratt), nessun romanzo di fiction, da sempre subcomandante della SN, ora da quattro anni ha assunto il ruolo di direttore (ovvero da quando Taibo II ha assunto il suo nuovo incarico ministeriale in Messico). La manifestazione ha avuto sempre da regista fuori inquadratura Paloma, la moglie di Paco e ha cambiato varie volte sedi e struttura, in realtà si tratta di un happening, di una fiera, di una festa.
Nel 2010 SN si svolse nel grande parco urbano, direzione e organizzatori affittarono spazi nel “recinto” per tende, esposizioni, promozioni, divertimenti, classici “non luoghi” quasi universali. Trovavate la ruota gigante e la casa degli specchi, il galeone che oscilla e altre diavolerie meccaniche, la pesca e i fucili ad aria compressa. Trovavate i baracchini dei negozi locali di occhiali cappelli e oggetti da regalo, come le bancarelle di extracomunitari eguali in tutt’Europa. Trovavate bar e ristoranti, di tutti i tipi e gusti, qualità non sempre eccelsa, prezzo molto contenuto. Trovavate spazi di editori e librai (gli unici a non pagare l’affitto!), libri a buon mercato di ogni genere, collane gialle e nere, le rassegne bibliografiche degli autori presenti (pronti a firmare la copia), 34 mila volumi furono venduti nel 2010! E poi gli sponsor con attività specifiche e i veri “luoghi” della manifestazione: il grande tendone dei dibattiti (Carpa del Encuentro, con bar), lì fuori riproduzioni di eroi (come Batman) in mezzo a sedie e ombrelloni per chiacchierare, strutture che ospitavano mostre fotografiche o appositamente realizzate (nel 2010: fotogiornalismo, soldatini di piombo, pezzi archeologici messicani, fumetto cult), una sala adattabile alla visione di film (retrospettive, sapendo che il cinema non è una priorità), gli uffici.
Alla SN c’è sempre gente a tutte le ore, per ogni pizzo, con ogni tipo d’interesse (spesso la spiaggia è vicina). Il “negro” non c’entra. Famiglie con bimbi che non hanno mai letto nulla, comitive di ragazzi richiamati dall’allegra confusione, persone che cercano i soliti venditori ambulanti, gruppi che escono a mangiare, professionisti e mestieranti bisognosi di clienti o pubblico. Una marea di gente, quasi novecento mila visitatori stimati per esempio nel 2010. Ogni mattina esce il periodico di quattro “lenzuoli” con il programma del giorno. Un paio di volte vengono distribuiti libri editi per l’occasione. Le attività della manifestazione sono concentrate dalle cinque del pomeriggio a mezzanotte, perlopiù presentazioni di autori, a raffica, a ripetizione, uno ogni mezz’ora nel tendone e almeno in un’altra sala, uno per volta (il grande, l’autore con la novità) o in tavole rotonde a tema. Musica dal vivo dopo le 22. Taibo II partecipa anche ora, non è più direttore ma c’è sempre, presenta in contemporanea diversi libri autori inaugurazioni, talvolta apre chiude interrompe modera domanda risponde scompare, di rado delega ai due sosia del passato (che nessuno ha mai incontrato).
Il vero Paco Ignacio Taibo II ha la sigaretta accesa (non la stessa) e la maglietta spot (forse sempre la stessa), un paio di libri in tasca, fa tutto: sposta sedie, carica casse di volumi, rilascia interviste, interloquisce con chi parla inglese, ricorda orari, urla annunci, cerca i collaboratori per condividere impegni. La figlia Marina, fotografa e artista, è stata sempre la sodale “spalla” del direttore per tutta la preparazione (quasi due mesi) e la durata della manifestazione. Basta uno sguardo e lei capisce, accorre, sostituisce. Era già la piccola colta interprete quando quelli dell’AIEP (gli autori di gialli nel mondo) inventarono la Semana: portare la “cultura” sulla “strada”, radicandola nella città natale di Paco. Tirano avanti con pochi soldi (nel 2010 costava meno di un milione di dollari) e gran parte di volontariato. Un trenino apposito e un ottimo servizio tram collegano con il centro (dove non mancano iniziative collaterali).
Taibo II è ancora solida garanzia di fama e clamore, la manifestazione è un diversivo e un divertimento, l’identità politico culturale un punto fermo: la Disneyland dei rossi, fra Gramsci e il Che, passione e tenerezza per entrambi (anche se il primo sapeva le lingue, meglio russo e tedesco, e il secondo non vollero imprigionarlo per venti anni). C’è così un filo unitario nel mezzo secolo di scrittura militante di Paco Taibo II: entrare in sintonia con i cittadini attraverso parole condivise, allargando le platee attive dei lettori (e degli scrittori), mai settarie e autoreferenziali.
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Benjamin Malaussène: guida alla lettura dei sette romanzi di Daniel Pennac - Valerio Calzolaio
Benjamin Malausséne non smette di stupirci, si accommiata da tutti a proprio modo. Lo abbiamo conosciuto meno di quarant’anni fa quando lavorava già da un po’ come capro espiatorio e, nel tempo libero, faceva soprattutto da figura genitoriale ai tanti fratelli e sorelle abbandonati dalla madre (anche sua). Abbastanza presto aveva cambiato mestiere retribuito e mantenuto l’unica passione per Julie (la rossa giornalista originaria del Vercors; Pennac e signora vi vivono spesso ancora), ormai da decenni si esercita da dipendente tuttofare delle Edizioni del Taglione della Regina Zabo, esegue ordini editoriali, legge e valuta, tratta con scrittori grandi e piccoli, condivide occasioni e drammi della letteratura contemporanea, esercita comunque anche la funzione essenziale di capro espiatorio nell’azienda, domandandosi di continuo se non è il cado di smettere, sempre però travolto da fantasmagoriche avventure di parenti stretti e dei sapiens della tribù allargata.
Averlo inventato costituisce la meritata fortuna dell’esimio scrittore francese Daniel Pennac (Casablanca, Marocco, 1 dicembre 1944). Abbiamo già parlato della bio-bibliografia dell’autore, concentrandoci sull’insieme della produzione letteraria di mezzo secolo (1973 - 2023) e, in particolare, su saggi e romanzi senza Ben, il suo principale personaggio . Ora non si può più rinviare, il capro espiatorio va preso di petto e sviscerato un poco. Cominciamo dalla fine, andando a ritroso nel tempo. Partiamo dall’epilogo dichiarato della saga, dal settimo e ultimo romanzo, uscito con grande successo (è ancora in classifica) oltre due mesi fa: Daniel Pennac, Capolinea Malaussène. Il caso Malaussène 2, traduzione di Yasmina Melaouah, Noir, Feltrinelli 2023 (orig. Terminus Malaussène. Le cas Malaussène 2, 2023), pag. 397).
Siamo lontani dalle Alpi, dalle parti di Parigi, dentro e ai lati del cuore, ovvero nel XX° arrondissement. Verso il settembre 2021 (a otto mesi dalle elezioni presidenziali del 2022) abbiamo un pratico riassunto delle storie raccontate nel precedente volume: in scena il rapimento interrotto e ripreso del ricco sgargiante Georges Lapietà (che conosce a memoria l’elenco dei potenti corrotti) e la rischiosa rifinitura (ora lontano dal Vercors) del secondo romanzo-verità (terribile) del brasiliano Alceste Fontana, insieme a ogni anfratto e risvolto di tutte le vecchie note avventure dell’intera famiglia allargata. L’uomo d’affari era stato rapito dallo stesso figlio Iuc con gli amici Mara, Nange e Sigma, per fare una spettacolare opera d’arte. Solo che alcuni veri malviventi avevano compiuto la stessa scelta e ne era venuto fuori un gran casino.
Il capo dei cattivi è Nonnino, età vetusta e voce dolce, amante di gratin dauphinois, violento e implacabile, ha un esercito colto e fedele di delinquenti ai suoi ordini, li ha educati alla verità cash e formati professionalmente, li guida con risolutezza nera, possiede svariati nomi e identità, ha agganci internazionali e coperture insospettabili. Ispettori e magistrati, bravi e somari, cercano di essere all’altezza. Ben soprassiede ancora come sempre a Julius il Cane (pronipote dell’originale), al dormitorio familiare e all’orfanatrofio annesso; nella banda dei ragazzi c’erano il figlio e i cugini, Mara (incinta) sta con Iuc; dovrà occuparsi del rapimento.
Come sempre Malaussène “capofamiglia” si fa carico di tutto, ogni suo parente ha spesso sfiorato la morte, si vede scorrere davanti agli occhi il catalogo di esplosioni, massacri, violenze. Da dipendente tuttofare delle Edizioni del Taglione della Regina Zabo ha avuto ora soprattutto l’incarico di procrastinare l’uscita del libro (“La loro grandissima colpa”), in cui Fontana racconta senza metafore non solo i pessimi comportamenti della propria stessa parentela, otto fratelli (tre femmine e altri quattro maschi) e due genitori che li hanno adottati, ma anche i traffici sui piccoli calciatori rapiti in Brasile. La bella attempata irrequieta mamma dei sette figli si è rifatta viva: mentre accudisce il marito Paul (innamorato, un poco rimbambito agli Aliossi, residenza per anziani), fa le solite cazzate. Fuochi pirotecnici, arriva di tutto. Pure le bombe.
Daniel Pennac (Casablanca, 1944) chiude il cerchio (da cui il titolo) e narra meravigliosamente un’ultima gustosa avventura contemporanea della serie che iniziò col noir e si è sempre arricchita di realismo magico. All’inizio del romanzo odierno mette il riassunto del volume precedente (2016) e la figura genealogica, in fondo la semplificante ripetizione del repertorio delle denominazioni e definizioni dei mitici personaggi seriali “inventati” (ben oltre il centinaio), citati o evocati, di qualche luogo e archetipo. Con la travolgente lettura manteniamo così memoria di amorevoli storie noir (l’autore termina ringraziando chi lo accolse 40 anni fa nella cantina della Série Noire), di fiabe ironiche e horror, di avventure mirabolanti intorno al mondo, di empatiche figure inevolvibili, di significati multisenso e impatti multisensoriali, di dialoghi scoppiettanti e colpi di teatro, di scene orride o poetiche in luoghi metropolitani e naturali, oltre che degli innumerevoli sfaccettati battiti dei silenzi (saturi, logorroici, cinematografici, invasori, lunghi, pensosi, divertiti).
La narrazione s’avvia in terza persona su Nonnino; segue poi Ben in prima (come sempre); si occupa degli altri amici e sodali in terza; continuando ad alternarsi punti focali, scene e sequenze in quaranta capitoli e otto parti, l’ultima inevitabilmente intitolata alla “mamma” (che ha finora trascorso con figli e nipoti meno di mille giorni, non più di trenta mesi con la sua progenie), ogni parte con una frase del relativo testo in esergo. Ognuno dei precedenti romanzi della serie (1985, 1987, 1989, 1995, 2017; all’inizio anni diversi in Italia, ma sempre con la stessa straordinaria traduttrice, madre astigiana e padre tunisino, il cui nome sembra ma non è tratto dalla saga) trova riferimenti e agganci, pur se Ben non è più il giovanotto versatile che può cambiare lavoro come cambia umore; da qualche decennio si smazza autori celebri; è un essere sociale, un definitivo capofamiglia, un uomo con dei doveri, ligio alle sue responsabilità.
Ancora una volta è cruciale Verdun, la giudice Talvern, incaricata del caso Lapietà, minuscola saggia sorella di Ben (la più giovane, nata urlante nel secondo romanzo della serie), moglie di un enorme professore panettiere (all’altra sorella Thérèse, pure di padre ignoto, era stato dedicato la quinta novella della serie). Verdun aveva detto che “vivere significa passare il tempo a riempire i due piatti della bilancia”, arrivata a fine carriera è costretta a cambiare ancora vita, in meglio e con altre bilance. Segnalo il Père-Lachaise che plana più volte di notte sulle vie di Belleville, suscitando forse un qualche ulteriore stupore. Il calvados viaggia sugli 80 gradi. Il colonnello Nonnino gestisce anche i cori, Vivaldi e Vedrò con mio diletto sono utili a farsi reclutare. Sarebbe interessante descrivere se e come finisce lo scoppiettante romanzo, evitiamo! Torniamo indietro, piuttosto.
Nel 2017 era uscito Il caso Malaussène. Mi hanno mentito (stesso autore, stessa traduttrice e stesso editore, ovviamente), pag. 279, euro 18,50, ambientato a Parigi e nel Sud Vercors, Prealpi del Delfinato (sotto il Grand Veymont, 2346 m slm). Lì siamo verso il settembre 2016 (dal che si capisce che le datazioni storiche hanno tutte molto di arbitrario). In rue des Archers una banda rapisce appunto Georges Lapietà, uomo d’affari, ex ministro e consulente del gruppo LAVA. La lista di chi si era inimicato è lunghissima, a cominciare dagli ottomilatrecendodue dipendenti mandati a spasso quando ha chiuso le filiali che aveva rilevato per la cifra simbolica di un euro con la solenne promessa di non toccare i posti di lavoro. Come riscatto vengono chiesti ottocentosettemiladuecentoquattro euro, cifra corrispondente all’assegno che stava per intascare come paracadute d’oro per quei licenziamenti. Benjamin Malaussène lo scopre lontano tramite gli organi d’informazione, personalmente lui non c’entrava niente.
In quei giorni ha avuto l’incarico dalla sua capa editoriale di mettere al sicuro in un luogo segreto, un’inaccessibile area montana che solo lui ben conosce, lo scrittore Alceste Fontana, che ha appena pubblicato “Mi hanno mentito” e sta completando proprio l’atteso seguito (“La loro grandissima colpa”), racconto senza metafore dei pessimi comportamenti della propria stessa famiglia. Ben parla via skype con i nipoti Mara e Nange e con il figlio Sigma, volontari di belle Ong in tre varie lontane parti del mondo. Agogna solo di poterli presto riabbracciare, alla rentrée. Fatto sta che, pochi giorni dopo, due bravi poliziotti sottraggono alla legge i sequestratori per scarrozzarli con l’ostaggio (in un veicolo rubato da un collega) e nasconderli in un orfanatrofio per ordine di un giudice istruttore che non ha intenzione di deferire l’evento. Non è che l’ideale colpa sarà di Malaussène? Ca va sans dire!
Pennac già riuscì allora nel (quasi) impossibile. Venti anni dopo fece tornare protagonisti di una storia contemporanea i personaggi che lo avevano reso amatissimo e famoso in discreta parte del mondo (compresa l’Italia). A suo tempo, sette anni fa iniziammo la lettura con perplessità e diffidenza. Una prima questione viene risolta dal Repertorio iniziale, una decina di pagine con il centinaio degli “antichi”. Poi si comincia in terza persona, il rapimento dello squallido ridicolo in bermuda e canna da pesca; segue Ben in prima (come sempre), accanto al tipo da proteggere, certo antipatico ma ogni lavoro va accettato; poi un’altra prima persona, proprio Alceste, lo scrittore braccato che vuol raccontare solo l’effimero reale, convive con la calamita Ben e ne è (quasi) l’esatto opposto.
Sensate innovazioni narrative, coerenti con quel che via via si scopre, l’oscurità delle proprie storie, al centro tanto non può che esservi il moderno capro. Ritroviamo amici sdoppiati, cresciuti bambini e replicanti, già cruciale Verdun, le nuove questioni sociali da far risaltare con perizia. Segnalo il manifesto dei rapitori, a pag. 152-153. E tante parole bretoni. Il commissario in pensione Rabdomant sta scrivendo un libro sul Caso (l’errore giudiziario), se ne parla spesso; dunque quello era solo l’inizio, da cui il romanzo conclusivo odierno, come allora si evinceva dal titolo francese (Le Cas Malaussène. I. Ils m’ont menti), dalla vignetta finale e dall’incerta spietata condizione di Lapietà. Il precedente romanzo, quinto della serie, risaliva al 1999, La passione secondo Thérèse, più breve, originariamente realizzato per Le Nouvel Observateur a puntate quotidiane, poi rielaborato e arricchito per la pubblicazione in libro con illustrazioni di Jean-Philippe Chabot.
Era un periodo di stanca per il lavoro di capro espiatorio dal cranio di ferro, Ben era divenuto padre, una svolta. Anche l’avventura precedente non era nata come opera letteraria, bensì teatrale, essenziale tuttavia per seguire il personaggio. Fra il quinto e il quarto non dimenticate la paternità di Ben! Siamo a metà anni Novanta, Ben sta leggendo su una panchina il libro intitolato al suo Signor figlio. Racconta di quando il fratello Jérémy gli chiede spiegazioni su come nascono i bambini, di come la futura nonna ha fatto sette figli con compagni diversi, di chi ha fatto tifo e di chi ha messo i bastoni fra le ruote. Cerca di darci l’idea di cosa si prova quando si sta per diventar padre: l’annunciazione, la presentazione (soprattutto alla madre Julie), la desolazione (quasi un aborto spontaneo?), la risurrezione (nella pancia di una suora), l’apparizione.
Il monologo teatrale Monsieur Malaussène au théatre (dialogo dell’unico attore con le ecografie del suo nascituro) risultò una straordinaria pièce che Pennac si è divertito molto a scrivere, noi a leggere e vedere: il compendio dei pensieri sulla gravidanza del protagonista, con sensibilità e lirismo a contrappunto delle crude dinamiche fisiche dell’esistenza. debuttò nell’ottobre 1996 a Parigi, poi a luglio 1997 al festival di Spoleto e in vari teatri italiani, grazie all’adattamento dell’Archivolto di Genova (pubblicato in Italia insieme a un racconto a quattro mani, come “Ultime notizie dalla famiglia”). In Francia l’autore era in sala tutte le sere (in fondo, nascosto), in Italia il magnifico interprete fu Claudio Bisio, eravamo all’anteprima di umbra. Si parla molto della paternità responsabile, anche se si capisce che la vera fatica ed esperienza irripetibile è la maternità. Da un uomo a ogni sapiens, ironie e paure di fine secolo. Tra nuvole di cartapesta. Non fermiamoci ai ricordi, continuiamo ad andare indietro nel tempo.
I primi romanzi della serie Malaussène rappresentano un unicum compatto e conseguente, pensato e iniziato a scrivere quarant’anni fa (nel 1983) e completato in un decennio, definito dallo stesso Pennac come un quartetto, “le quatuor de Belleville”: il corposo Monsieur Malaussène (1995), La Petite Marchande de prose (1989), La Fée Carabine (1987), con cui vince il prestigioso “Premio Polar di Le Mans”, Au bonheur des ogres (1985), il “giallo” originato dall’iniziale scommessa con gli amici del giallo e del noir. Uno più bello dell’altro, un susseguirsi di fiabe e sogni e sfumature e tonalità e interrogativi comunitari e dubbi morali e dialoghi scoppiettanti, scartando per tanti percorsi culturali dentro una sola multiforme trama, come la vita, un compatto effluvio di fantasia narrativa e di acume sociale, che ha consacrato l’autore fra i grandi del Novecento e deliziato milioni di lettori e lettrici.
Pennac viveva e scriveva già da qualche anno in collina nell’allora poco noto quartiere parigino di Belleville, nel ventesimo arroindissement di Parigi, non lontano dal promontorio da cui si vede tutta la città da nord a ovest. Vi abiterà per decenni ed è proprio in questo cosmopolita e multiculturale quartiere-speranza che colloca il protagonista della saga: colline un tempo coperte di vigneti, poi focolaio di tutte le rivoluzioni, antiche radici operaie e patria di chansonniers, meta di immigrati spesso forzati alla migrazione (nel corso del tempo armeni, ebrei, algerini, neri, cinesi, vietnamiti e via di seguito), microcosmo per decenni degradato e tollerante, descritto anche nelle trasformazioni edilizie e speculative e nella sua permanente biodiversità sensoriale, sempre privilegiando metafore per le crude dinamiche sociali.
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