Pubblicità e
modernità
La nascita della pubblicità si fa comunemente risalire agli ultimi decenni
dell’ottocento; solo a partire dai primi decenni del ‘900 però compaiono gli
strumenti che permettono di superare l’ambito locale del commercio e della
comunicazione, ampliando le possibilità di circolazione di beni e messaggi. Le
vetrine dei negozi (celebri i “passages” parigini), le esposizioni universali,
i cataloghi per corrispondenza permettono la nascita delle prime marche
aziendali; nel 1904, dopo la nascita nel 1895 del cinematografo dei fratelli
Lumiére, viene creato il primo spot, un filmato sullo champagne Moet &
Chandon.
AD
La nascita della pubblicità però non può essere compresa se non si mette in
relazione con un altro grande fenomeno, che si sviluppa nello stesso periodo:
la nascita della moda; questa viene fatta risalire al 1857, con l’apertura del
primo atelier in Francia. Walter Benjamin sostiene che la moda è apotropaica:
esorcizza la morte diffondendo il nuovo, ciò che è appena nato, proprio come la
pubblicità, che lo fa praticando la religione del nuovo a tutti i costi.
{Leopardi, invece, un secolo prima aveva scritto che la moda e la morte sono
sorelle, in quanto figlie della caducità: come la morte elimina i viventi, così
la moda trasforma gli abiti.} La produzione artistica è esclusa da queste
dinamiche, perché i suoi ritmi risalgono a un tempo lontano e sono lontani
dalla velocità del capitalismo; fanno eccezione le avanguardie storiche (citare
il futurismo italiano, russo ecc). Il primo tentativo di commistione tra
pubblicità e arte è del 1886, con il quadro Bubbles di Millais; successivamente
ricordiamo Chéret, Toulouse-Lautrec, Mucha, Dudovich, Cappiello…
Critica della pubblicità
Nel dopoguerra numerosi intellettuali si occupano di pubblicità; Marshall
McLuhan, a differenza di molti studiosi dell’epoca che attaccano la pubblicità,
incolpandola di essere la principale fautrice del consumismo, assume un diverso
atteggiamento: convinto che coloro che protestano siano una manna per i
pubblicitari, poiché “nessuno applaude meglio di chi protesta”, ne La sposa
meccanica espone il metodo che il ricercatore deve assumete nei confronti della
modernità. Si ispira ad un racconto di Edgar Allan Poe, Una discesa nel
Maelstrom, nel quale un marinaio riesce a salvarsi dal vortice che lo risucchia
non combattendo contro di esso, ma studiando l’azione delle onde e cooperando
con essa, aggrappandosi a un barile; così McLuhan suggerisce di affrontare la
cultura di massa con un atteggiamento da surfista, non cercando di entrare all’interno
delle onde integrandosi con esse, come i nuotatori, ma nemmeno rimanendo la
loro esterno, come chi le affronta in barca. E’ quindi inutile combattere
contro la modernità; è meglio prenderne atto e cercare di indirizzarla verso il
meglio. Le pagine seguenti sono poi un’analisi dei saggi
Horkheimer e
Adorno. Réclame nell’industria culturale
AD
La cultura moderna si fonde con la réclame. Mentre nella società
concorrenziale la réclame orientava il consumatore sul mercato e ne facilitava
le scelte, ora invece ribadisce solo il vincolo che lo lega alle grandi
aziende.
Quanto più il linguaggio diventa comunicazione, tanto più le parole diventano,
da portatrici di significato, segni privi di qualità, opache e impenetrabili; e
la parola che non significa più nulla si irrigidisce in formula, diventa uno
stereotipo.
La ripetizione cieca e il rapido espandersi di parole stabilite collegano la
pubblicità alla parola d’ordine totalitaria: molte persone usano parole ed
espressioni che o non capiscono nemmeno più, o si adoperano solo come simboli
protettivi, che si fissano più tenacemente quanto meno si è in grado di
comprenderne il significato. Il totalitarismo dell’industria culturale rende da
una parte tutti liberi di scegliere; ma questa libertà si rivela in ultima
analisi falsa, poiché è una “libertà di omologazione” al modello offerto
dall’industria culturale stessa. “Personalità non significa altro che denti
bianchi e libertà dal sudore: è il trionfo della réclame dell’industria
culturale”.
In questo contesto lo slogan deve essere ripetuto, ribadito in continuazione,
attirare l’attenzione; deve anche risultare familiare, per poter essere
compreso. La ripetitività però, come abbiamo visto, lo trasforma in pura forma,
svuotata di significati: diventa un cliché; perdendo significato assume la
stessa perentorietà delle dittature.
Annamaria Testa sottolinea le differenze tra gli slogan in pubblicità e in
politica: in pubblicità questo è scritto nella lingua del destinatario,
altrimenti non viene compreso; nella propaganda politica è invece scritto nella
lingua dell’emittente, quasi in forma dittatoriale.
Raymond
Williams. Pubblicità: un sistema magico
AD
Il sistema. La pubblicità è diventata uno dei principali elementi del mondo
capitalistico: oltre al ruolo commerciale, costituisce una delle principali
fonti finanziarie del mondo della comunicazione. Ha oltrepassato la frontiera
della vendita di beni e servizi, giungendo ad avere un ruolo importante nella
trasmissione di valori personali e sociali; infine è diventata anche l’arte
ufficiale della moderna società capitalistica.
Williams parte dalla considerazione che la società contemporanea non sia
abbastanza materialista: la pubblicità interviene proprio perché l’oggetto
materiale da vendere non è mai sufficiente. Se gli individui fossero davvero
materialisti, troverebbero la maggior parte della pubblicità stupida e inutile,
e non avrebbero bisogno di associare idee e valori a prodotti (come birre o
lavatrici) per essere venduti. E’ evidente quindi che nel nostro modello
culturale gli oggetti da soli non bastano, ma devono essere associati con
significati personali e sociali; il modello potrebbe essere descritto con il
termine magico, un sistema di esortazioni e soddisfazioni magiche simili ai
sistemi magici delle società primitive.
“Consumatori”. I membri della società capitalistica vengono descritto come
consumatori, piuttosto che “utenti”, poiché visti come i canali lungo i quali
il prodotto fluisce e scompare; mentre ai consumatori basta avere una quantità
adeguata di beni di consumo a un prezzo accettabile, per gli utenti questo non
basta, visto il desiderio di soddisfazione di bisogni umani che il consumo non
può soddisfare, come quelli di tipo sociale. Visto che il consumo lascia
insoddisfatta l’area del bisogno umano, il magico tenta di associare a questo
consumo desideri umani con i quali esso non ha nessun rapporto reale: vi si
associano idee, emozioni e valori sempre positivi; Williams in questo caso
critica l’eccessiva edulcorazione della pubblicità, e dei pubblicitari che
agiscono come fossero perennemente in guerra.
McLuhan sulla
pubblicità
AD
Il mezzo è il messaggio vuol dire che mentre il mezzo assume importanza, i
contenuti del messaggio sono sempre più intercambiabili; si va incontro ad un
appiattimento dei contenuti a vantaggio dei mezzi di comunicazione di massa.
Vi è la tendenza a creare richiami pubblicitari che corrispondono sempre più
alle motivazioni e i desideri del pubblico: aumentando la partecipazione,
diminuisce così l’importanza del prodotto in sé. La pubblicità sembra basarsi
sul principio secondo il quale la più piccola unità modulare, se ripetuta in
modo rumoroso e ridondante, finirà per imporsi; ciò corrisponde alle tecniche
del lavaggio del cervello, e può darsi che la ragione di tutto questo sia
proprio l’assalto all’inconscio. McLuhan sostiene che, se si presta
coscientemente attenzione ai messaggi pubblicitari, molti di questi risultano
ridicoli; ne deduce che questi annunci non sono destinati a una fruizione
cosciente, ma sono pillole subliminali per il nostro subconscio, a un livello
di semi-consapevolezza. La loro esistenza è una testimonianza della situazione
di sonnambulismo di una metropoli stanca.
Dopo la seconda guerra mondiale, un ufficiale dell’esercito americano abituato
alla pubblicità notò che gli italiani sapevano i nomi dei loro ministri, ma non
quelli dei prodotti preferiti dai loro connazionali; inoltre notò che lo spazio
murario delle città italiane era occupato più da slogan politici che da annunci
commerciali. Predisse allora che gli italiani difficilmente sarebbero arrivati
a una forma di prosperità o tranquillità fin quando non avessero cominciato a
interessarsi, anziché delle capacità degli uomini pubblici, delle diverse
marche di dentifricio o di spaghetti. Qualsiasi comunità che vuole accelerare e
aumentare lo scambio di prodotti o servizi deve omogeneizzare la sua vita
sociale; la pubblicità, invece di presentare una tesi o una prospettiva
personale, offre un sistema di vita che è per tutti o per nessuno.
Secondo McLuhan i critici della pubblicità, gli apocalittici, si comportano in
modo sbagliato: coloro che passano la vita a protestare, infatti, “sono una
manna per i pubblicitari, come lo sono gli astemi per i birrai o i censori per
i produttori cinematografici; nessuno applaude meglio di chi protesta”. Si deve
cercare invece di entrare nei processi, al fine di orientarli.
Alberoni.
Pubblicità nelle innovazioni dei consumi
AD
Il sociologi analizza il caso della proposta di nuovi beni di consumo che vanno
a sostituire precedenti modalità d’uso o beni strumentali; il meccanismo è
simile a quello che opera nel caso delle resistenze all’innovazione dei beni
strumentali artigiani e contadini. Il bene, appena introdotto, viene visto come
pericoloso, distruttivo; Alberoni fa l’esempio delle lavatrici o dei cibi in
scatola, spiegando come lo schema interpretativo delle resistenze passi per tre
fasi.
Ogni soggetto ha, nei riguardi dei propri oggetti strumentali d’uso,
un’ambivalenza di base che tiene a freno mediante meccanismi riparativi; nel
caso del lavare le attività sono a un tempo sadiche (strofinare, battere) e
riparative (curare, stirare), mentre, nel caso del cucinare, adottare un
prodotto che permette un risparmio di tempo e fatica significa inconsciamente
prendere coscienza del proprio odio verso questa e le altre attività. Poiché
però allo stesso tempo la donna ama queste attività, nella prima fase si
difende da quegli impulsi proiettando l’aggressività sul prodotto che la tenta,
che viene dotato di caratteristiche distruttive.
In una seconda fase il prodotto, nonostante i timori, viene accettato, ma non
come sostitutivo del vecchio metodo, bensì come una specie di compromesso in
cui i componenti del vecchio schema ora hanno un significato ripartivo per il
danneggiamento prodotto dal nuovo bene (la massaia farà la pasta in casa nelle
occasioni importanti, laverà i panni delicati a mano). A poco a poco (siamo
nella terza fase) la nuova modalità assume anch’essa un significato di amore, e
la fase dell’aggressività passa alla vecchia modalità del rapporto; in questa
fase la massaia deride coloro che si comportano come lei faceva in passato. In
questo passaggio è cruciale l’apporto della pubblicità, che ha il compito di
negare l’aggressività: i meccanismi in gioco sono la riparazione e la
negazione; in particolare la negazione allevia le ansie prodotte
dall’immissione sul mercato di nuovi beni, che alleviano l’impegno ripartivo
verso l’oggetto d’amore. Le pubblicità della pasta mostreranno piatti succulenti
e famiglie felici, e quelle delle lavatrici sottolineeranno l’impegno e
l’amore della massaia verso la famiglia, con biancheria e vestiti puliti.
La pubblicità, proponendo un nuovo prodotto, suscita ansie; contemporaneamente
però, attraverso la sua funzione di negazione, le abolisce. Regola generale è
di non dire alcunché negativamente, ma solo in maniera positiva.
Quando il meccanismo di negazione fallisce, lascia libero il campo a esperienze
depressive; la comparsa di meccanismi schizoparanoidei costituisce una minaccia
gravissima per il settore merceologico colpito (esempio del dado per il brodo).
Nel settore dei consumi l’oggetto d’amore principale non è il sé, ma il sociale
stesso (vedi casi di dentifrici, deodoranti).
Quando il gruppo sociale esterno, gli altri, cominciano ad acquistare
importanza, e rifiutano la barbarie e l’aggressività, l’individuo deve
adeguarsi, pena l’esclusione; questa situazione è vista da molti individui come
problematica, e la pubblicità può tentare di risolverla.
Baran e Sweezy,
tesi sulla pubblicità. Economia, consumatore, media
AD
La pubblicità e l’economia. Nell’industria internazionale si è creato un
sistema oligopolistico in cui poche grandi compagnie sono responsabili del
grosso della produzione del loro settore; il problema dell’industria sta nella
carenza di domanda in rapporto al suo potenziale produttivo: come riuscire a
vendere i prodotti. Le aziende si fanno concorrenza non attraverso i prezzi, ma
attraverso il marketing e quindi la pubblicità. Sulla pubblicità vi è una
differenza di posizioni: coloro che la difendono fanno notare come questa dia
un forte impulso alle vendite e ai consumi (indispensabili per il funzionamento
dell’economia capitalistica), favorisce l’introduzione di nuovi prodotti e
l’apertura a nuove possibilità di investimento; inoltre fornisce le risorse
finanziarie per i mezzi di comunicazione. I critici della pubblicità invece
partono da presupposti differenti: sostengono che la pubblicità porti a uno
spreco massiccio di risorse materiali e umane; inoltre si pensa che se non ci
fosse la pubblicità si affermerebbe la piena occupazione, poiché le risorse
destinate alla pubblicità sarebbero destinate altrove. Ma, sostengono i
difensori, i tentativi di ridurre o abolire la pubblicità potrebbero avere
conseguenze dannose, se non fossero accompagnati da una pianificazione efficace
per il conseguimento di un’occupazione piena e socialmente desiderabile.
La pubblicità e il consumatore. Secondo i critici della pubblicità le campagne
possono influenzare il consumatore al punto da vendergli qualsiasi cosa; i
difensori obbiettano però che nessuna campagna può indurre all’acquisto di un
prodotto inutile o meno economico di altri sul mercato; se il prodotto non va
incontro ai desideri del consumatore, la pubblicità fallisce. Gli effetti della
pubblicità sui consumatori non si possono misurare valutando le reazioni a
singole campagne, ma solo se si tiene conto della totalità degli stimoli
fisiologici e delle forze sociali che determinano la formazione dei bisogni in
un determinato contesto storico.
La pubblicità è più efficace quando mira a rafforzare i bisogni latenti dei
consumatori; il desiderio di comprare un determinato oggetto, di seguire le
ultime mode non può essere attribuito alla pubblicità, ma proviene
dall’atmosfera generale che si respira nella società, di cui la pubblicità è
fautrice. Inoltre, la pubblicità offre al consumatore a posteriori la
giustificazione di un comportamento d’acquisto che potrebbe apparirgli
inaccettabile su altri piani.
La pubblicità e i mezzi di comunicazione di massa. Le grandi cifre investite
dalle aziende in pubblicità mantengono in vita i grandi mezzi di comunicazione;
questi ultimi per massimizzare gli introiti si rivolgono a strati di
popolazione quanto più ampi possibile. Questo dà un forte impulso a non
trattare argomento alti, intellettuali, ma argomenti sensazionali come i
delitti, il sesso ecc.
La pubblicità e i valori. La pubblicità e i programmi veicolati dai media non
creano nuovi valori ed atteggiamenti, ma riflettono valori già esistenti e
sfruttano gli atteggiamenti più diffusi, rafforzandoli e contribuendo alla loro
diffusione. La pubblicità ha successo quando non cerca di mutare gli
atteggiamenti, ma quando si collega ad atteggiamenti esistenti.
Il danno più grave che la pubblicità porta è quello di mercificare tutto ciò
che tocca, attraverso la prostituzione di uomini e donne che prestano la loro
intelligenza, voce e faccia a scopi in cui non credono.
Roland Barthes.
Società, immaginazione, pubblicità
AD
La pubblicità viene accusata di essere l’alleata del capitalismo; il denaro
è il movente esplicito della pubblicità, lo scopo è commerciale, di far
conoscere colui che paga.
Il muro La pubblicità è vistosa, fatta per saltare agli occhi: è un gesto
culturale, il rapporto materiale che il creatore e il consumatore stabiliscono
con l’oggetto culturale quando lo rappresentano o lo decifrano. Il segno ha
bisogno di una materia di sostegno, che in pubblicità viene chiamata supporto.
All’inizio il gesto pubblicitario sembrava aggressivo, poi con la
differenziazione dei supporti è divenuto un gesto integrato; l’utente di
pubblicità si adatta a questa, e non fa nemmeno più caso ai contenuti,
lasciando che il messaggio scivoli via.
Il linguaggio. Ogni annuncio pubblicitario implica tre messaggi diversi,
interconnessi e sovrapposti.
Il primo è il messaggio letterale (o denotato): l’immagine o la frase bruta,
ridotta alle parole essenziali per descriverla; il senso è immediato, la
descrizione è semplice.
Il secondo messaggio è associato (o connotato), composto da tutti i valori e i
sensi che vengono associati al messaggio; queste associazioni implicano una
cultura e delle disposizioni variabili per ogni individuo.
Il terzo messaggio è quello dichiarato (referenziale): è la marca, o il
prodotto stesso, la cui menzione costituisce il fine ultimo della pubblicità;
la sua presenza è obbligatoria, e da della pubblicità una comunicazione franca.
Pubblicità e
Barthes. Messaggio letterale, associato e dichiarato
Questi tre messaggi sono equivalenti, e vengono letti contemporaneamente. Il
secondo messaggio è quello più importante, poiché, come un ponte, stabilisce
una relazione fra l’immagine letterale e il prodotto; è questo il centro del
messaggio pubblicitario, e per elaborarlo il pubblicitario dispone di due
figure (individuate da Roman Jakobson): la metafora e la metonimia. Nella
metafora si sostituisce un significante con un altro, a fronte di uno stesso
significato; nella pubblicità per metafora è sempre possibile poter ristabilire
il primo termine di paragone. Esistono talvolta metafore rovesciate, quando un
attributo del prodotto viene significato, paradossalmente, dal suo contrario (è
il caso di tanta pubblicità per la Volkswagen). In campo pubblicitario è
abbastanza rara, al contrario della metonimia, su cui si basa la maggior parte
dei messaggi pubblicitari; questa di basa su una sostituzione di senso per
contiguità: quando siamo abituati ad associare naturalmente due oggetti, perché
nel senso comune uno sta per l’altro, cioè lo significa. La forma più comune di
metonimia è la sineddoche, in cui il tutto sta per la parte e viceversa;
ricordiamo che mentre la metafora agisce a livello paradigmatico, in absentia
(uno dei due termini non compare), la metonimia agisce a livello sintagmatico,
in praesentia (anche per questo è più efficace, poiché sono necessarie minori
competenze decodificative). La metonimia ha successo perché spesso, desiderando
l’oggetto associato al prodotto, si desidera il prodotto stesso (bella donna
ecc).
L’immaginario Questo linguaggio pubblicitario così descritto ha due
funzioni: comunicare il movente dell’annuncio e tutti i suoi attributi, e
creare un immaginario, attraverso il quale i fruitori del messaggio esercitano
la loro psicologia.
Il linguaggio euforico ed eufemico della pubblicità dispone di un immaginario
rasserenante, che trae alimento da tre grandi riserve: il repertorio dei
soggetti antropologici, ovvero schemi di classificazione che la società assume
per affrontare il mondo (la vita, il sesso, la famiglia, il lavoro) e che
diventano presto degli stereotipi; gli oggetti, attributi di cui questi
soggetti possono essere provvisti, e che usano nella vita quotidiana: possono
essere realistici oppure sovra connotati, onirici, ma in entrambi i casi
forniscono all’individuo una finestra sul mondo; infine vi sono i simboli
culturali: la pubblicità con questi simboli attinge dall’immaginario
collettivo, al nostro sapere e al nostro passato.
Il corpo Il corpo umano è il motivo che il pubblicità ricorre con maggior
frequenza; il più delle volte, per questo motivo, si è parlato di erotismo
pubblicitario, ma l’autore vede questa tesi esagerata: le rappresentazioni di
belle donne e uomini virili, talvolta anche svestiti, sono il segno
dell’erotismo, e non l’erotismo in sé, e non vanno oltre i limiti dell’eufemia
pubblicitaria, che impone di fornire allo spettatore una rappresentazione del
mondo piacevole e confortevole.
Il vero erotismo consiste invece nel corpo parziale, frammentato, di cui
soltanto alcune parti sono significanti; ma il corpo erotico non è mai quello
tutto intero; le tracce dell’erotismo vanno allora ricercate nel feticismo.
L’ironia L’uomo dei nostri giorni possiede tutti gli strumenti per comprendere
il linguaggio pubblicitario, ma non per parlarlo; attraverso i collage, i
tagli, le composizioni della pop art, le deformazioni dei manifesti
pubblicitari, allora, il pubblico cerca di appropriarsi del messaggio
pubblicitario, di falsificarlo, di dargli nuova forma. Questo plagio, che
significa libertà, costituisce un atto di profonda ironia, che è il solo modo
per parlare la lingua della pubblicità.
Umberto Eco e la
pubblicità televisiva
AD
L’autore vuole analizzare quali sono gli effetti delle comunicazioni di
massa, ponendosi in una posizione intermedia fra gli apocalittici, che
pensavano che le tecniche di comunicazione avrebbero massificato l’intera
umanità, e gli integrati, fiduciosi in una diffusione di valori culturali alla
portata di tutti. La comunicazione di massa livella le notizie, offrendole al
proprio pubblico come una sorta di rumore indifferenziato. Eco critica McLuhan:
il pubblico della comunicazione pubblicitaria non è indifferente ai contenuti
(come invece pensava lo studioso americano, parlando del “villaggio globale”);
è invece consapevole, e o non vuole difendersi dai messaggi pubblicitari, o sa
già come farlo.
I discorsi della pubblicità si avvolgono su sé stessi, senza comunicare nulla,
e lasciando che sia il pubblico a parlare per loro, portandoli a dire qualcosa
che in realtà la pubblicità non voleva dire. Vladimir Propp aveva scoperto,
studiando le fiabe russe, che ciascuna raccontava la stessa storia e tutte si
strutturavano intorno ad alcune funzioni fondamentali, combinando alcuni
elementi fondamentali; tutte le storie non erano altro che la stessa, e
l’umanità continuava a raccontarsi una storia che ben conosceva dall’inizio.
Non si provava però alcun sentimento di noia: il piacere del raccontare, e
dell’ascoltare racconti, consisterebbe proprio nel ritrovare il già noto, anche
se con qualche illusione di novità, qualche deviazione dalla linea maestra. Se
il piacere dell’iterazione funziona, questo discorso può essere fatto anche per
le storie raccontateci dai mezzi di comunicazione di massa: il pubblicitario in
realtà non vuole rivelarci nulla, e utilizza un linguaggio stereotipato, che è
già stato parlato, che è entrato a far parte di un codice e ci appare comunicante
in blocco, come un motto, un proverbio, in definitiva un emblema. Il linguaggio
pubblicitario è una pura funzione proposizionale che può sostituire le X e le Y
della propria formula, senza che nulla accada; il pubblico infatti non si
attende che dica qualcosa, ma che dica (non diversamente dai convenevoli
quotidiani “Come stai?”, che non ci dicono affatto che l’altro vuol sapere
qualcosa di noi, ma dicono solo che l’altro è là, che è in contatto con noi).
In definitiva il linguaggio pubblicitario non è persuasivo o emotivo, ma bensì
fàtico, o di contatto.
Il linguaggio pubblicitario, allora, si auto reclamizza in ciascun prodotto,
non lavorando per i prodotti singoli, ma per sé stesso, facendo metapubblicità:
il rumore di fondo crea quella che Eco definisce “coazione al consumo”, che
spinge i consumatori fuori di casa a comprare qualcosa, magari anche molto
diversa da quella che effettivamente volevano acquistare
(dentifricio-automobile). Il messaggio deve puntare su un elemento che sia
riconoscibile, simbolo di associazioni già note e riassuntivo di un carattere:
ecco l’importanza del personaggio, nel quale si riassume uno slogan, una
formula. Nel momento in cui questi personaggi e slogan circolano, però,
distruggono il prodotto: lo slogan diventa modo di dire, nuovo patrimonio
linguistico, argomento fàtico e va sclerotizzandosi, uccidendo il referente
(come i quadri di Warhol per Campbell Soup). L’immaginario collettivo si popola
di eroi molto esili, che a differenza di quelli dei miti che si imparano a scuola,
non sono portatori di un’idea, come i personaggi mitologici di cui si è persa
la nozione di ciò che dovevano simboleggiare, e rimangono portatori di valori
ambigui. Questi personaggi sembrano colmare un’esigenza di un’epoca senza miti
e senza eroi, che ha spinto i mezzi di comunicazione di massa a creare degli
eroi sostitutivi, per colmare quel bisogno di figure esemplari che rimane nel
pubblico. Questi eroi però sono deperibili, invadendo la scena per qualche
stagione, e venendo poi completamente dimenticati.
Morin e natura
ambivalente della pubblicità
AD
La pubblicità ha bisogno di fondarsi su conoscenze scientifiche, e deve
utilizzare ricerche motivazionali per conoscere i propri utenti; inoltre
attraverso le ricerche mira a conoscere l’andamento del mercato, ma nello
stesso tempo cerca di mantenere il segreto sulle sue indagini. La pubblicità si
dispiega quando c’è distanza tra produttore e consumatore, e quest’ultimo ha
bisogno di stimolare il consumo; fiorisce quindi dove c’è produzione industriale
di beni di consumo.
Morin analizza due coppie di elementi concettuali che possono spiegare il
funzionamento della pubblicità: da una parte la coppia
informazione/incitamento, dall’altra la coppia ripetizione/innovazione. Se
l’informazione può essere considerata come ciò che in un messaggio è nuovo, le
info di base che il mittente fornisce al destinatario, e la ripetizione il
fattore primario dell’incitamento, si può pensare che queste ultime due si
confondano tra di loro: la ripetizione è così un modo di moltiplicare
l’informazione per pubblici differenti mentre si ottiene un effetto di
incitamento sullo stesso pubblico. Per quanto riguarda l’innovazione, questa
deve giocare sia al livello del prodotto, dove deve significare quindi continuo
progresso, sia al livello della propria efficacia, per rinnovare sempre il
messaggio.
La pubblicità si sforza con tutti i mezzi di eccitare il desiderio della merce,
e ha compreso immediatamente che bisognasse introdurre nella merce qualità
libidinali non necessariamente ad essa intrinseche: il produttore le introduce
nell’estetica del prodotto, il pubblicitario nell’associazione del messaggio.
La pubblicità utilizza dunque l’attrattiva estetica, che mescola all’attrattiva
ludica e alla desiderabilità erotica: un intero settore pubblicitario si sforza
di divertire, attirando l’attenzione del pubblico riconoscente per il
divertimento provocatogli.
L’altra via molto importante per risvegliare il desiderio è quella dell’eros:
ma se è utile erotizzare le merci, è pur vero che non tutte si prestano
all’erotizzazione; e inoltre quest’ultima non è soggetta solo a limiti (come la
censura), ma anche pericoli, rischiando di suscitare la sofferenza più che il
piacere del desiderio, e di deviare sull’eros vero e proprio il piacere che
invece dovrebbe far deviare sulla merce. Nel frattempo, la pubblicità deve
impegnarsi anche a adulare il consumatore, sottolineando il suo individualismo;
e nello stesso tempo però lo rende schiavo, sottomesso al mondo del consumismo.
Possiamo andare ad analizzare quindi l’evoluzione della pubblicità, in tre
diverse ere: nell’era primaria c’era bisogno di beni di prima necessità, e la
pubblicità era fondata essenzialmente sull’informazione del messaggio e sulla
sua ripetizione; nella seconda era, quella del progresso, si doveva comunicare
l’innovazione, e favorire l’incitamento; la terza era è infine quella dello
sviluppo, privilegia prodotti che riguardano la personalità individuale;
finiamo in un universo in cui tutti i prodotti hanno una qualità magica, e la
pubblicità è fautrice della coazione al consumo: l’azione pubblicitaria è
mirata a trasformare il prodotto in droga, in modo che il suo acquisto-consumo
procuri l’immediata euforia e sollievo, ma comporti l’asservimento; il
messaggio deve sia eccitare che turbare, far pregustare il prodotto e obbligare
il consumatore all’acquisto.
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