Eventi
estremi, territori fragili, dighe che non reggono l’urto dell’acqua. Il nuovo
clima mediterraneo va in scena in Libia: il ciclone Daniel ha quasi cancellato
la città di Derna.
Libia orientale, epicentro del disastro è Derna, centro di centomila abitanti
affacciato sul Mediterraneo. Si temono più di 10mila vittime. La furia di
Daniel ha fatto crollare le dighe costruite lungo il fiume Wadi che scende
dalle vicine montagne fino alla città. E 33 milioni di metri cubi d’acqua hanno
travolto palazzi e sommerso strade.
Danni ad Apollonia, l’antico porto di Cirene, segnala il Manifesto. Ma le
interruzioni stradali non permettono né i soccorsi, né di monitorare lo stato
reale della tragedia. Il ciclone Daniel, dopo dieci anni di guerra tra i
jihadisti e il generale Haftar, documentata da Alberto Negri.
Derna tra
Bengasi e Tobruk
«Niente a
volte è più ingannevole della geografia. Stretta tra Bengasi e Tobruk, negli
anni Novanta Derna mi apparve scendendo dall’altopiano verso il mare alla fine
di una gola fatta di pareti verticali percorsa dallo uadi che veniva dal Gebel
al Akhdar irrigando palmeti, frutteti, agrumeti».
Il Gebel,
Montagna Verde
Credo che
oggi, dopo il ciclone Daniel e il crollo delle dighe, nulla esista più di tutto
questo. Ma anche allora il Gebel, chiamato anche la Montagna Verde, era
un’insidia assai temuta dallo stesso colonnello Gheddafi. Qui si annidavano
infatti islamisti e jihadisti che più volte avevano provato ad assassinarlo.
Per tenere buona la popolazione locale e contenere la predicazione degli imam
qui negli anni Duemila Gheddafi lanciò nel mezzo del ginnasio greco la ‘Dichiarazione
della Montagna Verde’, un grande progetto per di ridare splendore alla
regione della pentapoli, un piano ambizioso che come molti altri del regime
rimase sulla carta.
Ancora il
dopo Gheddafi
Anche questo
alla fine era un inganno. Con la fine di Gheddafi nell’ottobre del 2011, in un
Paese travolto dall’anarchia, a Derna nel 2015 tornarono i jihadisti: erano i
combattenti libici dell’Isis protagonisti delle battaglie a Dayr az Zor, in
Siria, e poi a Mosul in Iraq.
Dalla Libia
al Sahel l’anarchia
La
destabilizzazione scatenata sull’onda dalle primavere arabe del Medio Oriente
si allargava alla penisola arabica in Yemen e quindi anche in Africa. Finito il
rais libico le frontiere della Jamahyria erano sprofondate nel Sahel con la
diffusione del jihadismo, seguita successivamente dai colpi di stato militari:
storia di questi ultimi tempi, dal Mali al Burkhina Faso al Niger.
Il Califfato
di Derna
A Derna
allora fu issata la bandiera nera del Califfato ed ebbe inizio una lunga
sequela di omicidi mirati contro tutti gli oppositori, dai miliziani delle
altre fazioni compreso il battaglione Abu Salim, affiliato con al Qaeda – fino
agli attivisti, ai giudici, agli avvocati. La stessa tecnica utilizzata da
Ansar al Sharia a Bengasi per togliere di mezzo gli avversari. A Derna l’Isis,
allora ancora guidato da Abu Bakr, fece insediare un emirato e la città venne
trasformata nella triste e cupa capitale del Califfato in Cirenaica.
Campo di
battaglia
Derna e la
regione erano destinate a diventare un campo di battaglia. Prima tra le milizie
islamiste con gli affiliati di Al Qaeda che tentarono la rivincita per far
fuori il Califfato. Poi del generale Khalifa Haftar contro tutti i jihadisti e
quelli che volevano contrastarlo. La città fu il bersaglio dell’aviazione di
Haftar sostenuto da Egitto, Emirati, Russia e anche dalla Francia. Senza
contare un discreto appoggio americano visto che il generale aveva passato
oltre vent’anni in esilio negli Stati Uniti (e ne è diventato cittadino Ndr).
Derna fu ridotta in alcune zone della città a un colabrodo: distruzione su
distruzione.
In Marocco
almeno c’è uno Stato
Nel Marocco
colpito dal terremoto almeno c’è uno ‘stato’, una monarchia con il
sovrano padre padrone del Paese che però tace. Non come in Libia che dopo la
caduta di Gheddafi dopo la rivolta di Bengasi e l’intervento occidentale si è
spaccata tra Cirenaica e Tripolitania senza più ritrovare l’unità. Ormai sono
due anni che si devono tenere elezioni per riunificare i governi di Tripoli e
Bengasi ma francamente il traguardo appare ancora distante.
Il ciclone
su un ambiente tossico
Il ciclone
Daniel con il crollo di due dighe nella regione di Derna ha spazzato via
migliaia di vite che da anni vivono in un ambiente tossico: ma chi in questi
decenni ha fatto più manutenzione in Libia, se non a eccezione degli impianti
petroliferi utili a rimpinguare le entrate di governi più simili a cleptocrazie
di trafficanti di essere umani, divisi in clan e tribù, che non a una nazione?
Basta andare a Ras Jedir, al confine tra Libia e Tunisia, dove traffici di ogni
tipo alimentano un’economia da mezzo miliardo di dollari l’anno.
Lì dove i
migranti, derubati, sfruttati e vessati, muoiono nel deserto, lontani da ogni
testimonianza, senza alcuna possibilità di salvezza.
Le vittorie
a perdere di Haftar
La tragedia
è avvenuta proprio a Derna la cui liberazione da islamisti e jihadisti fu
annunciata qualche anno fa dallo stesso generale Haftar. La vittoria,
accompagnata dai raid americani, prima sullo Stato islamico poi sui gruppi
legati ad Al Qaeda aveva spianato la strada alla conquista di una città di
100mila abitanti ma era stata ottenuta con un alto prezzo di sangue e
distruzioni.
Popolo
abbandonato
Ma chi si
era poi occupato della sorte e della sicurezza della popolazione? Nessuno: il
generale Haftar ha pensato prima di tutto al suo potere, come quando nel 2019
tentò di conquistare anche Tripoli, fermato dal governo Sarraj e soprattutto
dai droni e dai soldati turchi. Nessuno in questi anni ha mai pensato ai libici
lasciati in mano alle divisioni claniche e regionali.
Non ci hanno pensato neppure le potenze straniere che tengono nel mirino gas,
petrolio e milizie utili alla detenzione dei migranti, ma non certo il
benessere della popolazione.
Queste tragedie hanno molti volti ma soprattutto una vittima, gli ultimi,
il popolo, lasciato al suo destino, una moltitudine di essere umani trattati
come sudditi privi di valore.
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