Tutti i concetti
importanti hanno contorni dialetticamente vaghi.
Herman E. Daly [1]
decr
Il termine decrescita indica un insieme di approcci
politico-economici che, di fronte all'attuale accelerazione della crisi
ecologica planetaria, rifiutano la crescita economica esponenziale e illimitata
come definizione di progresso umano.
Abbandonare la crescita economica nelle società ricche significa azzerare
la formazione di capitale netto. Con il continuo sviluppo tecnologico e il
miglioramento delle capacità umane, il mero investimento di sostituzione è in
grado di promuovere un costante progresso qualitativo della produzione nelle
società industriali mature, eliminando al contempo le condizioni di
sfruttamento del lavoro e riducendone l'orario. Unitamente alla ridistribuzione
globale del surplus sociale e alla riduzione degli sprechi, ciò consentirebbe
di migliorare notevolmente la vita della maggior parte delle persone. La decrescita,
che si rivolge specificamente ai settori più opulenti della popolazione
mondiale, è quindi diretta al miglioramento delle condizioni di vita della
grande maggioranza, mantenendo le condizioni ambientali dell'esistenza e
promuovendo uno sviluppo umano sostenibile.[2]
La scienza ha stabilito senza ombra di dubbio che, nell'odierna “economia
del mondo intero”, è necessario operare all'interno di un budget complessivo
del Sistema Terra rispetto alla portata fisica consentita.[3]
Tuttavia, anziché costituire un ostacolo insormontabile allo sviluppo
umano, questo può essere visto come l'inizio di una nuova fase di civiltà
ecologica basata sulla creazione di una società di uguaglianza sostanziale e
sostenibilità ecologica, o ecosocialismo. La decrescita, in questo senso, non
mira all'austerità, ma a trovare una «prospera via d'uscita» dal nostro attuale
mondo estrattivista, sprecone, ecologicamente insostenibile, mal sviluppato,
sfruttatore e diseguale, gerarchico e classista.[4] In alcuni
settori dell'economia si verificherebbe una crescita continua, resa possibile
da riduzioni in altri. La spesa per i combustibili fossili, gli armamenti, i
jet privati, i veicoli sportivi, le seconde case e la pubblicità, dovrebbe
essere tagliata per lasciare spazio alla crescita in settori come l'agricoltura
rigenerativa, la produzione alimentare, gli alloggi dignitosi, l'energia
pulita, l'assistenza sanitaria accessibile, l'istruzione universale, il welfare
comunitario, i trasporti pubblici, la connettività digitale e altri settori
legati alla produzione ecologica e ai bisogni sociali.[5]
Quando furono ideati i primi sistemi di contabilità del reddito nazionale,
all'epoca della Seconda guerra mondiale, tutti gli aumenti del reddito
nazionale, indipendentemente dalla fonte, furono considerati crescita
economica. Il Prodotto Interno Lordo, o PIL, divenne la misura principale del
progresso umano.[6] Tuttavia, molti di questi aspetti sono
discutibili dal più ampio punto di vista sociale ed ecologico. Secondo il
sistema prevalente di contabilità economica nazionale, tutto ciò che fornisce
“valore aggiunto”, secondo il processo di valorizzazione capitalistico,
rappresenta una “crescita”. Questo include cose come le spese di guerra, la
produzione di prodotti tossici e di scarto, il consumo di lusso da parte dei
più ricchi, il marketing (che comprende la ricerca della motivazione, il
targeting, la pubblicità e la promozione delle vendite), la sostituzione del
consumo sociale con quello privato, come nel caso della sostituzione del trasporto
pubblico con l'automobile privata, l'espropriazione dei beni comuni; le spese
aziendali per migliorare lo sfruttamento dei lavoratori; le spese legali legate
all'amministrazione, al controllo e alla valorizzazione della proprietà
privata; le attività antisindacali da parte della dirigenza aziendale; il
cosiddetto sistema giudiziario penale; l'aumento dei costi farmaceutici e
assicurativi; l'occupazione nel settore finanziario; le spese militari e
persino le attività criminali.[7] L'estrazione massima delle
risorse naturali è considerata cruciale per una rapida crescita economica,
poiché attinge al «dono gratuito... al capitale» della natura.[8]
Al contrario, la produzione non di mercato e di sussistenza realizzata in
tutto il mondo, il lavoro domestico svolto principalmente dalle donne, le
numerose spese per la crescita e lo sviluppo umano (viste come relativamente
non produttive), la conservazione dell'ambiente e la riduzione della tossicità
della produzione sono state considerate come se “non contassero nulla” o di
valore inferiore, poiché non aumentano la produttività o promuovono
direttamente il valore economico.[9]
Oggi, la tragedia elementare di tutto questo è sotto gli occhi di tutti. È
ormai opinione diffusa che la crescita economica, basata sull'accumulazione
continua di capitale, sia la causa principale della distruzione della Terra
come luogo sicuro per l'umanità. La crisi del Sistema Terra è evidente nel
superamento dei confini planetari legati al cambiamento climatico,
all'acidificazione degli oceani, alla distruzione dello strato di ozono,
all'estinzione delle specie, all'interruzione dei cicli dell'azoto e del
fosforo, al consumo del suolo (comprese le foreste), all'esaurimento dell'acqua
dolce, al carico di aerosol e alle nuove entità (come le sostanze chimiche di
sintesi, le radiazioni nucleari e gli OGM).[10] La spinta
all'accumulazione di capitale sta quindi generando una “crisi di abitabilità”
per l'umanità di questo secolo.[11]
Il consenso scientifico mondiale, rappresentato dal Gruppo Intergovernativo
di esperti sul Cambiamento Climatico (IPCC) delle Nazioni Unite, ha stabilito
che la temperatura media globale deve essere mantenuta, con l'entrata in
funzione di meccanismi di feedback positivi, al di sotto di un aumento di 1,5°C
rispetto ai livelli preindustriali in questo secolo – o altrimenti, con un
livello di rischio sproporzionatamente più elevato, «ben al di sotto» di un
aumento di 2°C – se non si vuole che la destabilizzazione del clima minacci una
catastrofe assoluta. Nel Sixth Assessment Report dell'IPCC
(AR6, pubblicato nelle sue varie parti nel 2021-23), lo scenario più
ottimistico è quello di un aumento della temperatura media globale alla fine
del secolo, rispetto ai livelli preindustriali, inferiore a 1,5°C. Ciò richiede
che il limite di 1,5°C non venga oltrepassato prima del 2040, aumentando di un
decimo di grado fino a 1,6°C, per poi scendere verso la fine del secolo fino a
un aumento di 1,4°C. Tutto ciò si basa sul raggiungimento di emissioni nette di
carbonio pari a zero (anzi, zero reali) entro il 2050, il che dà una
probabilità del 50% che il limite della temperatura climatica non venga
superato.[12]
Tuttavia, secondo l'autorevole scienziato del clima Kevin Anderson, del
Tyndall Center for Climate Change Research, questo scenario è già stato
superato. In base ai dati dell'IPCC, è ora necessario raggiungere il punto di
zero emissioni di anidride carbonica entro il 2040, per avere lo stesso 50% di
possibilità di evitare un aumento di 1,5°C. «A partire da ora», scriveva Anderson
nel marzo 2023,
per non superare l'aumento di 1,5°C di riscaldamento sono necessari tagli
alle emissioni dell'11% all'anno, e di quasi il 5% per [non superare] 2°C.
Tuttavia questi tassi medi globali ignorano il concetto di equità, centrale in
tutti i negoziati sul clima delle Nazioni Unite, che concede ai “paesi in via
di sviluppo” un po' di tempo in più per decarbonizzarsi. Se si tiene conto
dell'equità, la maggior parte dei Paesi “sviluppati” dovrà raggiungere
emissioni zero di CO2 tra il 2030 e il 2035, mentre i Paesi in
via di sviluppo ne seguiranno l'esempio entro il decennio successivo. Qualsiasi
ritardo ridurrà ulteriormente queste tempistiche.[13]
Nel maggio 2023, l'Organizzazione Meteorologica Mondiale ha indicato che
esiste una probabilità del 66% che la temperatura superficiale globale media
annua superi l'aumento di 1,5°C, rispetto ai livelli preindustriali, per
"almeno" un anno entro il 2027.[14]
Gli attuali scenari dell'IPCC fanno parte di un processo conservativo,
progettato per conformarsi ai prerequisiti dell'economia capitalistica, che
prevede in tutti gli scenari una crescita economica continua nei paesi ricchi,
escludendo qualsiasi cambiamento sostanziale nelle relazioni sociali. L'unico
strumento su cui si basa la modellazione climatica è l'ipotesi di cambiamenti
tecnologici indotti dai prezzi. Gli scenari esistenti si basano su tecnologie a
emissioni negative, come la bioenergia, la cattura e il sequestro del carbonio
(BECCS) e la cattura diretta del carbonio nell'aria (DAC), che attualmente non
esistono su larga scala e non possono essere introdotte nei tempi previsti.
Inoltre presentano enormi rischi ecologici. Questa esaltazione di tecnologie
essenzialmente inesistenti e di per sé distruttive per l'ambiente (dato il loro
enorme fabbisogno di terra, acqua ed energia) è stata contestata dagli stessi
scienziati dell'IPCC. Così, nel Summary for Policymakers for the
mitigation report, parte 3 dell'AR6, gli scienziati autori del rapporto
concordavano sul fatto che tali tecnologie non sono praticabili in un arco di
tempo ragionevole e suggerivano che le soluzioni a bassa energia, basate sulla
mobilitazione popolare, potrebbero offrire la migliore speranza di realizzare
le massicce trasformazioni ecologiche ora necessarie. Tutto questo, tuttavia, è
stato escluso nella pubblicazione finale del Summary for Policymakers,
come deciso dai governi nell'ambito di una procedura che consente loro la
censura degli scienziati dell'IPCC.[15]
Le soluzioni tecnologiche, indotte dai prezzi, che consentirebbero di
continuare la crescita economica e di perpetuare le attuali relazioni sociali,
non esistono di fatto nella scala e nel tempo necessari. Sono quindi necessari
grandi cambiamenti socioeconomici nel modo di produzione e di consumo, in contrasto
con l'egemonia politico-economica dominante. «Tre decenni di compiacenza»,
scrive Anderson, «hanno fatto sì che la tecnologia da sola non sia in grado di
ridurre le emissioni abbastanza velocemente». C'è quindi una drastica necessità
di soluzioni a basso consumo energetico, basate su cambiamenti nei rapporti di
produzione e consumo, che affrontino anche le profonde disuguaglianze. Le
necessarie riduzioni delle emissioni sono «possibili solo modificando la
capacità produttiva della società, evitando di consentire il lusso privato di
pochi e l'austerità per tutti gli altri, e orientandola verso una più ampia
prosperità pubblica e la sufficienza privata. Per la maggior parte delle
persone, affrontare il cambiamento climatico porterà molteplici benefici, da
alloggi a prezzi accessibili a un'occupazione sicura. Ma per quei pochi di noi
che hanno beneficiato in modo sproporzionato dello status quo», insiste
Anderson, «ciò significa una profonda riduzione della quantità di energia che
utilizziamo e delle cose che accumuliamo».[16]
Un approccio alla decrescita/deaccumulazione che metta in discussione la
società dell'accumulazione e il primato della crescita economica è fondamentale
in questo caso. L'approvvigionamento sociale per i bisogni umani e la forte
riduzione delle disuguaglianze sono parti essenziali di un passaggio verso
un'economia fondata su un basso consumo energetico e sull'eliminazione di forme
e scale di produzione ecologicamente distruttive. In questo modo, la vita della
maggior parte delle persone potrà essere migliorata sia economicamente che
ecologicamente. Per raggiungere questo obiettivo, tuttavia, è necessario andare
contro la logica del capitalismo e la mitologia di un sistema di mercato
autoregolato. Una trasformazione così radicale può essere raggiunta solo
introducendo livelli significativi di pianificazione economica e sociale,
attraverso la quale, se portata a compimento, i produttori associati
lavorerebbero insieme in modo razionale per regolare il lavoro e il processo
produttivo che governa il metabolismo sociale dell'umanità e della natura nel
suo complesso.
Il socialismo classico del XIX secolo, nell'opera di Karl Marx e Friedrich
Engels, vedeva la necessità di istituire una pianificazione collettiva
in risposta alle contraddizioni ecologiche e sociali, oltre che a quelle
economiche, del capitalismo. L'analisi di Engels insisteva sulla necessità di
una pianificazione socialista per superare la frattura ecologica tra città e
campagna, mentre la teoria della frattura metabolica di Marx, operando su un
piano più generale, insisteva sulla necessità di uno sviluppo umano
sostenibile.
La pianificazione è stata fondamentale per tutte le economie, sia
capitalistiche che socialiste, in tempo di guerra. Gigantesche corporazioni
monopolistiche hanno istituito di propria iniziativa quello che l'economista
John Kenneth Galbraith ha definito un «sistema di pianificazione», anche se
operante in gran parte all'interno, piuttosto che tra, conglomerati
multinazionali.[17] Tuttavia, l'intera idea di pianificazione
economica è vista, ideologicamente, come antagonista del mercato capitalistico
ed è stata effettivamente bandita dalla discussione pubblica – dichiarandola
inattuabile e una forma di dispotismo – dopo il trionfo del capitalismo con la
Guerra Fredda e la fine dell'Unione Sovietica.
Questa situazione sta ora rapidamente cambiando. Come ha recentemente
osservato l'economista francese Jacques Sapir, «il piano e la pianificazione
sono tornati di moda», a causa delle contraddizioni interne ed esterne del sistema
di mercato capitalistico.[18] È ormai chiaro che, senza il ritorno
alla pianificazione e a una regolamentazione ambientale-statale dell'economia
in un contesto di decrescita/deaccumulazione del capitale, non c'è alcuna
possibilità di affrontare con successo l'attuale emergenza planetaria e
garantire la continuazione della società industrializzata e la sopravvivenza
della popolazione umana.
Marx, Engels e la pianificazione ecologica
Marx ed Engels sono sempre stati riluttanti a fornire quelle che Marx
chiamava «ricette... per l’osteria dell’avvenire», delimitando le forme che le
società socialiste e comuniste avrebbero dovuto assumere. Come disse Engels,
«Speculare su fatti come il modo in cui la società futura regolerà la
distribuzione dei viveri e delle abitazioni porta difilato all'utopia».[19] Tuttavia,
in tutti i loro scritti fu chiaro che la riorganizzazione della produzione in
una società di produttori associati avrebbe comportato un lavoro cooperativo
organizzato secondo un piano comune.
Ne I principi del comunismo, Engels scrisse che nella società
futura «tutti i rami della produzione» sarebbero stati gestiti «dall'intera
società, cioè in conto comune, secondo un piano comune, e con la partecipazione
di tutti i membri della società». Lo stesso approccio fu adottato da Marx ed
Engels nel Manifesto del Partito Comunista, dove sottolinearono la
necessità di un «Aumento delle fabbriche nazionali e degli strumenti di
produzione, dissodamento e miglioramento dei terreni secondo un piano comune».[20] In
questo caso, il problema di porre fine alla divisione tra città e campagna
attraverso la distribuzione della popolazione in modo più uniforme nel paese,
in modo che non fosse più concentrata nelle grandi città industriali che
separavano le popolazioni urbane da quelle rurali, era al centro della loro
idea di piano comune.
Gran parte dell'analisi di Marx nei Grundrisse si
concentrava sulla necessità di una «economia di tempo e ripartizione
pianificata del tempo di lavoro nei differenti rami di produzione», che
costituiva «la suprema legge economica sulla base della produzione comune».[21] Come
scrisse a Engels l'8 gennaio 1868, riferendosi ai suoi Lineamenti di
una critica dell'economia politica del 1843: «Realmente, nessuna
forma sociale può impedire che, in un modo o nell'altro, sia il tempo
di lavoro disponibile della società a regolare la produzione. Finché questa
regolazione non si attua mediante il controllo, diretto e consapevole del tempo
di lavoro da parte della società – il che è possibile solo con la proprietà
comune –, ma mediante il movimento del prezzo delle merci, le cose rimangono al
punto da te già illustrato molto bene nei “Deutsch-Französische Jahrbücher”».[22] Questo
primo lavoro di Engels fu molto ammirato da Marx. Nel suo Compendio dell’articolo
di Friedrich Engels, «Lineamenti di una critica dell'economia politica» del
1843, Marx sottolinea la «Scissione fra suolo e uomo», e quindi l'alienazione
della natura, come base esterna della produzione capitalistica.
Nel Capitale, Marx ha sostenuto, a proposito della
pianificazione, che la parte del prodotto sociale destinata alla riproduzione
dei mezzi di produzione è propriamente collettiva, mentre l'altra parte,
destinata al consumo, è divisa tra i consumatori individualmente. Il modo in
cui una determinata società effettua questa importantissima divisione è la
chiave dell'intero modo di produzione e riflette lo sviluppo storico della
società stessa. Nel socialismo, il tempo di lavoro sarebbe necessariamente
ripartito «socialmente secondo un piano» che «regola l’esatta proporzione delle
differenti funzioni lavorative con i differenti bisogni». Ciò sarebbe possibile
solo quando «i rapporti della vita pratica quotidiana presentano agli uomini,
giorno per giorno, relazioni chiaramente razionali fra di loro e fra loro e la
natura» come risultato dello sviluppo storico; infatti, «il processo materiale
di produzione si toglie il suo mistico velo di nebbie soltanto quando sta, come
prodotto di uomini liberamente uniti in società, sotto il loro controllo
cosciente e condotto secondo un piano».[23] Come Marx spiegò in
occasione della Comune di Parigi, le «società cooperative riunite» nella
società futura avrebbero regolato «la produzione nazionale secondo un piano
comune».[24] Il fatto che tale pianificazione fosse tanto un
problema economico che ecologico era chiaro
in tutta la sua opera.
«La libertà in questo campo», in una società superiore, scrisse Marx nel
terzo libro del Capitale, «può consistere soltanto in ciò, che
l'uomo socializzato, cioè i produttori associati, governino razionalmente
questo ricambio organico con la natura, portandolo sotto il loro comune
controllo...; che essi eseguano il loro compito con il minore possibile impiego
di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne
di essa».[25] Il primato storico della distruzione ecologica
causata dall'uomo in forme come la deforestazione e la desertificazione,
incarnava, per Marx, una «tendenza socialista» inconscia, dal momento che
dimostrava la necessità di un controllo sociale.[26]
Tuttavia, fu Engels, nell'Anti-Dühring, a fondare in modo più
esplicito la necessità della pianificazione in relazione alle condizioni
ambientali. Per Engels, sono le esternalità negative della produzione
capitalistica, associate alla divisione tra città e campagna, al problema
permanente degli alloggi e alla distruzione delle condizioni naturali e sociali
dell'esistenza della classe operaia, a richiedere una pianificazione su larga
scala. La stessa industria moderna, sosteneva, aveva bisogno di «acqua
relativamente pura», in contrapposizione a quella che esisteva nella «città
industriale» che «trasforma qualsiasi acqua in fetido liquido di scolo».[27] Estendendo
temi presenti sia ne La situazione della classe operaia in
Inghilterra che nel Manifesto del Partito Comunista,
dichiarava:
La soppressione dell'antagonismo di città e campagna non solo è possibile,
ma è diventata una diretta necessità della stessa produzione industriale, così
come è diventata del pari una necessità della produzione agricola e inoltre
dell’igiene pubblica. Solo con la fusione di città e campagna può essere
eliminato l'attuale avvelenamento di acqua, aria e suolo, solo con questa
fusione le masse che oggi agonizzano nelle città saranno messe in una
condizione in cui i loro rifiuti siano adoperati per produrre le piante e non
le malattie... La soppressione della separazione di città e campagna non è
dunque un’utopia, neanche sotto l’aspetto per cui essa ha come sua condizione
la distribuzione più omogenea possibile della grande industria su tutto il
paese.[28]
Organizzare la produzione collettivamente secondo un «piano sociale»,
sosteneva Engels, avrebbe distrutto «il precedente asservimento degli uomini ai
loro propri mezzi di produzione», caratteristico della produzione capitalistica
di merci.[29] Nel socialismo, naturalmente «la società dovrà sapere
quanto lavoro richiede ogni oggetto d'uso per la sua produzione». Essa dovrà
quindi «organizzare il piano di produzione a seconda dei mezzi di produzione,
ai quali appartengono, in modo particolare, anche le forze-lavoro. Il piano, in
ultima analisi, sarà determinato dagli effetti utili dei diversi oggetti d'uso
considerati in rapporto tra di loro e in rapporto alla quantità di lavoro
necessaria alla loro produzione».[30] Ma al di là dell'uso
razionale ed economico del lavoro all'interno dell'industria, la pianificazione
sarebbe necessaria per superare l'esaurimento del suolo in campagna e il
relativo inquinamento della città. «Solo una società che faccia ingranare, armoniosamente,
le une nelle altre le sue forze produttive, secondo un solo grande piano»,
scrisse Engels, «può permettere all'industria di stabilirsi in tutto il paese
con quella dislocazione che è più appropriata al suo sviluppo e alla
conservazione, ovvero allo sviluppo, degli altri elementi della produzione».[31]
Nella Dialettica della natura, Engels si preoccupava in
particolare dell'incapacità dell'economia politica classica, in quanto «scienza
borghese della società», di rendere conto dell’«attività umana rivolta alla
produzione e allo scambio» che non fosse intenzionale, esterna al mercato e
remota. Il carattere anarchico e non pianificato dell'economia capitalistica
amplificava così i disastri ecologici. «Cosa importava (ai piantatori spagnoli
a Cuba)», scriveva, che bruciarono le foreste sui pendii delle montagne e
trovarono nella cenere concime sufficiente per una sola generazione di piante
di caffè altamente remunerative - cosa importava loro che dopo di ciò le piogge
tropicali portassero via l’ormai indifeso humus e lasciassero dietro di sé solo
nude rocce? Nell’attuale modo di produzione viene preso prevalentemente in
considerazione, sia di fronte alla natura che di fronte alla società, solo il
primo, più palpabile risultato. E poi ci si stupisce che gli effetti più remoti
delle azioni dirette a questo scopo si rivelino del tutto diversi, per lo più
di carattere opposto.[32]
Per promuovere gli interessi della comunità umana nel suo complesso, era
quindi necessario agire «secondo un piano» e regolare la produzione in linea
con la scienza, tenendo conto dell'ambiente terrestre, cioè in accordo con le
leggi della natura.[33]
Marx ed Engels vedevano nel socialismo un'espansione delle forze produttive
in senso quantitativo e qualitativo ed Engels, nell'Anti-Dühring, fa
addirittura riferimento al fatto che l'avvento del socialismo avrebbe
comportato «uno sviluppo ininterrotto e costantemente accelerato delle forze
produttive, e quindi ... un incremento praticamente illimitato della produzione
stessa». Tuttavia, il contesto in cui scrivevano non era l'odierna “economia
mondiale”, ma piuttosto una fase ancora iniziale dell'industrializzazione. Nel
periodo dello sviluppo industriale, che va dall'inizio del XVIII secolo fino
alla prima Giornata della Terra del 1970, il potenziale produttivo industriale
mondiale è aumentato di circa 1.730 volte, il che, da una prospettiva
ottocentesca, sarebbe sembrato «un incremento praticamente illimitato». Oggi,
invece, si pone il problema dell'overshoot ecologico.[34]
Pertanto, le conseguenze ecologiche a lungo termine della produzione,
sottolineate da Engels, sono sempre più in primo piano nel nostro tempo. Ciò è
simboleggiato dall'Epoca dell'Antropocene proposta nella Scala dei Tempi
Geologici, che inizia intorno al 1950 e che rappresenta l'emergere della
società umano-industrializzata come fattore primario del cambiamento del
Sistema Terra. Da questo punto di vista l'aspetto forse più notevole
dell'affermazione di Engels sullo sviluppo delle forze produttive nel
socialismo è che essa è immediatamente seguita – nello stesso paragrafo e in
quello successivo – dall'opinione che l'obiettivo del socialismo non sia
l'espansione della produzione in sé, ma piuttosto lo «sviluppo e l’esercizio
completamente liberi [delle … facoltà fisiche e spirituali]» degli esseri
umani, che richiede un rapporto razionale e pianificato con «la cerchia delle
condizioni di vita che circondano gli uomini».[35]
Marx ed Engels, quindi, consideravano cruciale la pianificazione
nell'organizzazione della società socialista/comunista, che l’avrebbe liberata
dal dominio dello scambio di merci, «secondo un piano». Tuttavia, non si può
pensare che essi immaginassero il tipo di pianificazione centralizzata di
un'economia di comando, come sarebbe emerso alla fine degli anni Venti e Trenta
nell'Unione Sovietica. Piuttosto, essi sostenevano che la pianificazione da
parte dei produttori diretti sarebbe stata democratica rispetto alla produzione
stessa.[36] L'intero sistema del socialismo, come diceva Marx,
«inizia con l'autogoverno delle comunità» in una società in cui il «lavoro
cooperativo» sarebbe stato «sviluppato su scala nazionale e, di conseguenza,...
promosso con mezzi nazionali».[37] L'organizzazione razionale del
lavoro umano come lavoro comune o cooperativo, inoltre, non poteva avvenire
senza un sistema di pianificazione. «Ogni lavoro sociale in senso immediato,
ossia ogni lavoro in comune, quando sia compiuto su scala considerevole,
abbisogna, più o meno, d’una direzione che procuri l’armonia delle attività
individuali e compia le funzioni generali che derivano dal
movimento del corpo produttivo complessivo», come un sistema di riproduzione
metabolica sociale. La produzione richiede quindi una guida, una previsione
e una gestione, nel senso di un “direttore” d'orchestra. La visione di Marx di
un'economia pianificata, come ha sottolineato Michael A. Lebowitz, era quella
di un'economia gestita da «direttori d'orchestra associati» che avrebbero
governato razionalmente il metabolismo fra l'umanità e la natura.[38]
Come scrisse Marx in Teorie sul plusvalore, sulla necessità di
un approccio non capitalista, e quindi non esaustivo, al lavoro e
alla natura, L'anticipazione del futuro – anticipazione reale
– nella produzione di ricchezza ha luogo in generale solo con riferimento
all'operaio e alla terra. Sia per l’uno che per l’altra, con uno sforzo e un
esaurimento prematuri, con la rottura dell'equilibrio fra dare e avere, si
può realiter anticipare e distruggere il futuro. Per entrambi,
ciò avviene nella produzione capitalistica. Ciò che qui è expended, exsists
come δύναμις [parola greca che indica la potenza, nel senso di forza causale di
Aristotele], e la durata di questa δύναμις è accorciata dal modo forzato della
expenditure*.[39]
Il capitalismo, secondo i fondatori del materialismo storico, promuoveva
una dialettica negativa e perversa di sfruttamento, espropriazione ed
esaurimento/sterminio, la «rovina comune delle classi in lotta». Ciò che era
necessario, pertanto, era la «trasformazione rivoluzionaria di tutta la
società».[40]
Questa dialettica negativa di sfruttamento, espropriazione ed
esaurimento/sterminio che caratterizza il capitalismo fu colta vividamente da
Engels nei termini della nozione di «vendetta» della natura, un'espressione
metaforica che Jean-Paul Sartre, nella sua Critica della ragione
dialettica, avrebbe convertito nel concetto di «controfinalità».[41] Gli
esseri umani, attraverso le loro formazioni sociali di classe, sono diventati
anti-physis (anti-natura). Questo si può vedere nella distruzione
delle foreste e nelle conseguenti inondazioni (Sartre aveva in mente la
produzione contadina cinese descritta nella Histoire de la Chine di
René Grousset del 1942), in cui le popolazioni hanno minato la propria
esistenza e le loro presunte vittorie sulla natura, con risultati catastrofici.
«La natura», scriveva Sartre, «diventa la negazione dell'uomo proprio nella
misura in cui l'uomo è reso anti-physis» e quindi «antipraxis».[42] L'unica
risposta al problema dell'alienazione della natura per Sartre, come per Marx ed
Engels, era quella di modificare i rapporti sociali di produzione che spingono
l'umanità verso la catastrofe finale. Ciò richiedeva una rivoluzione
della terra sotto forma di una nuova prassi socialista di sviluppo
umano sostenibile, in cui la vita stessa non fosse più posta come nemica
dell'umanità: la riunificazione di natura e società.
La tradizione del “comunismo della decrescita” all'interno del marxismo
risale a William Morris, il quale sosteneva che la Gran Bretagna poteva fare a
meno della metà del carbone che utilizzava.[43] Ma può anche essere
vista come collegata a quella che Paul Burkett definiva la «visione globale
dello sviluppo umano sostenibile» di Marx. In questo caso, l'accumulazione del
capitale doveva essere sostituita da progressi nello sviluppo umano qualitativo
e dedicata alla produzione di valore d'uso (piuttosto che di valore di scambio)
e al soddisfacimento dei bisogni di tutti gli individui, partendo dai bisogni
più elementari fino ad arrivare ai bisogni umani e sociali più sviluppati, in
armonia con l'ambiente nel suo complesso.[44]
L'efficacia della pianificazione centralizzata
Quando presero il potere nella Rivoluzione d'Ottobre del 1917, «i
bolscevichi», come ha osservato l'economista marxista Paul Baran, «non avevano
alcuna intenzione di instaurare immediatamente il socialismo (e una
pianificazione economica completa) nel loro paese affamato e devastato».[45] In
origine, prevedevano una rigida regolamentazione e un controllo del mercato
capitalistico sotto un governo diretto dai lavoratori e la nazionalizzazione
delle imprese chiave, con una lunga e lenta transizione verso un'economia
completamente socialista. In realtà, all'epoca non esisteva alcuna nozione
concreta di pianificazione centralizzata o di economia di comando.[46] «La
parola "pianificazione"», ha scritto Alec Nove in An Economic
History of the U.S.S.R, aveva un significato molto diverso [in Unione
Sovietica] nel 1923-6 rispetto a quello che acquisì in seguito. Non c'era un
programma di produzione e di allocazione completamente elaborato, non c'era una
"economia di comando". Gli esperti del Gosplan... lavorarono con
notevole originalità, lottando con statistiche inadeguate per creare il primo
"bilancio dell'economia nazionale" della storia, in modo da fornire
una sorta di base per la pianificazione della crescita.... Il punto è che ciò
che emerse da questi calcoli non furono piani nel senso di ordini di agire, ma
"dati di controllo”, che erano in parte una previsione e in parte una
guida per le decisioni strategiche di investimento, una base per discutere e
determinare le priorità.[47]
Il comunismo di guerra, iniziato a metà del 1918, otto mesi dopo la
Rivoluzione d'Ottobre, fu uno sforzo disperato per far fronte al caos e alle
devastazioni derivanti dalla guerra civile russa, compresa l'invasione del
paese da parte di tutte le maggiori potenze imperiali a sostegno delle forze
“bianche”. Il comunismo di guerra non si basava sulla pianificazione, ma sulle
nazionalizzazioni all'ingrosso, sulla produzione bellica, sul divieto di
commercio privato, sulla parziale eliminazione dei prezzi, sulle razioni
gratuite e sulla requisizione forzata dei rifornimenti e delle eccedenze.[48] Lo
Stato rivoluzionario sovietico vinse la guerra civile, sconfiggendo le armate
bianche e costringendo le potenze imperiali a lasciare il Paese. Ma l'economia
fu devastata e il piccolo proletariato industriale, che era stato la spina
dorsale della rivoluzione, fu decimato. Nel 1920 il numero degli operai
industriali era la metà rispetto al 1914.[49] Nel 1921, di fronte
al deterioramento economico, alla carestia e alla rivolta dei marinai di
Kronstadt, V. I. Lenin organizzò una ritirata strategica, reintroducendo una
parziale economia di libero mercato nella Nuova Politica Economica (NEP). A
partire dal 1920, Lenin prese anche l'iniziativa personale di introdurre un
piano per l'elettrificazione di tutta la Russia entro dieci o quindici anni,
costruendo centrali elettriche e relative infrastrutture in tutte le principali
regioni industriali. Questo si sarebbe rivelato il più grande risultato in
termini di sviluppo economico nei primi anni Venti.[50]
La NEP fu vista come un periodo di transizione nel movimento verso il
socialismo. Lenin la definì «capitalismo di Stato». Lo Stato sovietico mantenne
il controllo dei vertici dell'economia, tra cui l'industria pesante, la finanza
e il commercio estero. Nella concezione iniziale di Lenin, la NEP era
un'alleanza limitata con il grande capitale con l'obiettivo di trasformare la
produzione secondo la sua forma più sviluppata di capitalismo monopolistico, ma
sotto il controllo socialista, in accordo con i contadini. «Lo Stato
sovietico», ha scritto Tamás Krausz in Reconstructing Lenin,
«accordava un trattamento preferenziale al capitale organizzato su larga scala
e alla proprietà statale orientata al mercato piuttosto che alla proprietà
privata anarchica, all'economia caotica incontrollabile dei piccoli borghesi».
Lenin utilizzò il concetto di capitalismo di Stato per riferirsi non solo al
settore statale in un'economia mista, ma anche a una formazione sociale
definita, che andasse in direzione del socialismo, che costituisce l'essenza
della NEP.[51]
Fu durante la NEP che venne introdotto per la prima volta nell'economia un
livello di pianificazione dello sviluppo. Il Consiglio Supremo dell'Economia
Nazionale era stato istituito già nel 1917. Tuttavia, fu con la NEP che venne
istituito il Gosplan come principale commissione statale per la pianificazione.
Il Gosplan sviluppò il primo sistema di bilanci per un'economia nazionale,
fornendo dati di controllo per guidare le decisioni di investimento con
direttive limitate a pochi settori strategici sotto il controllo dello Stato.
Nel 1923-24 fu introdotto un metodo nuovo di tabelle input-output, ispirato al Tableau
économique di François Quesnay e agli schemi di riproduzione di Marx
nel Capitale.[52]
Nel 1925, la NEP era riuscita a ripristinare l'economia prebellica e la
produzione industriale all’infuori dell'agricoltura stava iniziando a
stabilizzarsi. Nel 1922 Lenin aveva accennato al fatto che la NEP avrebbe
potuto rimanere in vigore a lungo, ritenendo venticinque anni una stima «un po'
troppo pessimistica».[53] Ma con la sua morte nel 1924 e il
successo della NEP nel ripristino dell'economia, si aprì un Grande Dibattito
sulla trasformazione socialista e la pianificazione. La teoria marxista
classica si basava sulle rivoluzioni avvenute precedentemente nei paesi
sviluppati dell'Europa occidentale. La rivoluzione russa era stata
originariamente concepita come l'innesco di una più ampia rivoluzione
proletaria europea, che tuttavia non si è mai materializzata. La Russia si
trovò ad essere un paese sottosviluppato, prevalentemente contadino, in uno
stato di isolamento politico ed economico, di fronte alla continua minaccia di
nuove invasioni imperiali.
Tutti i principali partecipanti al Grande Dibattito concordarono sulla
necessità di passare a un'economia pianificata socialista, ma emersero
disaccordi sulla natura e i tempi del cambiamento e sul grado di espropriazione
delle terre da parte dei contadini. Alcuni bolscevichi di spicco, come Nikolaj
Bucharin, si schierarono a favore di quella che era allora la linea dominante,
insistendo su un approccio più lento, a crescita equilibrata, basato sulla
continuazione della NEP come periodo di transizione. Al contrario, coloro che,
come l'economista E. A. Preobraženskij, si identificavano con l'“opposizione di
sinistra”, erano favorevoli a un passaggio molto più rapido a un'economia
pianificata centralmente e all'espropriazione da parte dei contadini attraverso
un processo di accumulazione primitiva socialista.[54] I principali
esponenti dell'opposizione di sinistra, tra cui Preobraženskij e Lev
Trotskij, e di quella che Iosif Stalin avrebbe definito l'opposizione di
destra, cui apparteneva Bucharin (con cui Stalin si era schierato durante
il Grande Dibattito), vennero tutti eliminati ,uno dopo l'altro, lasciando a
Stalin l'intero comando.[55]
Con l'ascesa al potere di Stalin nel 1928, fu adottato un percorso di rapida
industrializzazione in linea con le proposte originariamente avanzate
dall'opposizione di sinistra, a cui lo stesso Stalin si era inizialmente
opposto. L'obiettivo divenne quello di costruire il «socialismo in un solo
paese», data la posizione isolata dell'URSS. Ciò, tuttavia, prese la forma di
una brutale accumulazione socialista primitiva e di un'economia di comando
burocratica gestita dall'alto, a partire dal primo piano quinquennale del 1929.
Nel 1925-26, sotto la NEP, il settore statale costituiva il 46% dell'economia;
nel 1932 era salito al 91%.[56]
La tragedia della pianificazione sovietica risiedeva nelle terribili
circostanze storiche in cui era nata, portando a quella che il noto storico
dell'URSS, Moshe Lewin, ha definito «la scomparsa della pianificazione nel
piano».[57] La produzione industriale nel 1928-29 sotto la NEP era
cresciuta a un tasso del 20%. Eppure, questo non era considerato sufficiente.
Bucharin si espresse contro i piani, sostenuti da “pazzi”, che cercavano un
tasso di crescita economica annuale doppio rispetto a quello che la NEP aveva
prodotto. Il processo di pianificazione fu quindi concepito fin dall'inizio su
basi irrealistiche. Sorse un sistema di pianificazione centrale che assunse la
forma specifica di un'economia di comando, in cui tutte le direttive
sull'allocazione della manodopera e delle risorse, sui fattori di produzione,
sugli obiettivi specifici e così via, venivano stabilite burocraticamente
dall'alto. Ciò fu accompagnato dalla perpetuazione del carattere di base del
processo lavorativo capitalistico, con l'incorporazione delle tecniche di
gestione scientifica taylorista, eliminando la possibilità di forme di
organizzazione dal basso o di controllo da parte dei lavoratori, come
originariamente previsto dai Soviet operai.
Le direttive stabilite nel primo piano quinquennale erano al di là di ogni
possibilità di realizzazione, con la conseguenza che il piano, di fatto, fu
accantonato fin quasi dall'inizio. Il sistema di comando che ne emerse era
amministrato in modo centralizzato e burocratico, mentre la pianificazione
razionale era quasi assente. Nel frattempo, il “ritmo sostenuto”
dell'industrializzazione comportò la confisca massiccia delle proprietà dei
contadini e la collettivizzazione forzata, che colpì milioni di persone. Come
ha scritto Lewin, «la spinta anti-contadina di Stalin fu un attacco contro le
masse popolari. Richiedeva una coercizione su così vasta scala che l'intero
Stato doveva essere trasformato in un'enorme macchina oppressiva». In tali
circostanze, la dura irreggimentazione della popolazione era inevitabile.[58]
Tuttavia, con tutti i suoi difetti e le sue barbarie, l'economia di comando
rozza, goffa e burocratica che sorse in Unione Sovietica, ebbe un enorme
successo nei suoi effetti sullo sviluppo. Fu in grado di dare priorità agli
investimenti nell'industria pesante in un modo mai visto prima. Il tasso di
crescita medio annuo della produzione industriale per gli anni 1930-40 fu
ufficialmente “del 16,5%”, che, come afferma Lewin, era «certamente una cifra
impressionante (e non molto meno impressionante anche nel caso in cui si
preferiscano valutazioni minori da parte degli economisti occidentali)».[59] L'Unione
Sovietica passò all'industrializzazione, espandendo anche i trasporti e la
produzione di energia elettrica, l'agricoltura rimase indietro. Altri grandi
miglioramenti si ebbero nel campo dell'istruzione e nell'urbanizzazione.[60] Tra
il 1928 e il 1941 furono costituite circa ottomila grandi imprese moderne.[61]
Nel 1928, l'Unione Sovietica era ancora un paese sottosviluppato, ma
all’epoca della Seconda guerra mondiale era già emersa come una grande potenza
industriale. Non si può mettere in dubbio il duro realismo di Stalin quando,
nel 1931, affermò: «Siamo indietro di 50-100 anni rispetto ai paesi avanzati.
Dobbiamo colmare questa distanza in dieci anni. O ce la faremo o saremo
schiacciati».[62] I suoi calcoli erano corretti. Quando la Wehrmacht tedesca
invase la Russia esattamente dieci anni dopo, nel 1941, con più di tre milioni
di truppe dell'Asse, organizzate in divisioni corazzate e schierate su un
fronte di 1.800 miglia, le forze di invasione si trovarono di fronte a una
grande potenza industriale e militare del tutto diversa dalla Russia che
avevano affrontato nella Prima Guerra Mondiale. Le forze sovietiche opposero
una resistenza straordinaria, di gran lunga superiore a quella che Adolf Hitler
e i suoi consiglieri prevedevano. La storia del mondo moderno si sarebbe
fondata proprio su questo fatto, portando alla sconfitta della Germania
nazista.[63]
Tuttavia, le debolezze dell'economia sovietica, con la sua produzione
pianificata e amministrata centralmente, avrebbero inciso negativamente sul
sistema dopo la Seconda guerra mondiale. Sebbene avesse mantenuto tassi di
crescita piuttosto impressionanti e, nel periodo post-stalinista, in
particolare all'inizio dell'era di Leonid Brežnev, fosse in grado di fornire
sia armi che burro, nel contesto della Guerra Fredda – in cui si confrontava
con una controparte molto più forte e aggressiva, gli Stati Uniti – le
debolezze del sistema sovietico divennero sempre più evidenti.[64] L'economia
pianificata burocratica aveva portato a una concentrazione del potere e
all'emergere di una nuova classe dirigente formata da vertici della burocrazia,
o nachal'niki, derivante dal sistema della nomenklatura (che
esercitava il controllo sui membri di alto livello del Partito), che pesava sul
sistema, impedendo i necessari cambiamenti.[65] Nonostante i primi
sviluppi nell'analisi input-output, l'economia di comando sovietica non integrò
mai i metodi della cibernetica e le possibilità di una pianificazione più
ottimale emersero con la nuova rivoluzione informatica nei decenni successivi
alla Seconda guerra mondiale, nonostante alcuni movimenti fossero avvenuti in questa
direzione.[66] L'eccessiva enfasi sui nuovi progetti di
investimento portò a trascurare gli investimenti di sostituzione [di
macchinari, attrezzature e impianti], con il risultato che la produzione fu
portata avanti con attrezzature obsolete con conseguenti numerose interruzioni
del lavoro.[67] La proletarizzazione del lavoro, unita alla piena
occupazione e ad altre garanzie, ridusse le possibilità di coercizione
economica all'interno del sistema, rispetto al capitalismo, ponendo il problema
di incentivi materiali per i lavoratori.[68]
Il sistema sovietico di gestione delle imprese, come Che Guevara riconobbe
acutamente, era basato sul capitalismo pre-monopolistico, non sul capitalismo
monopolistico, e quindi si basava soprattutto sulle transazioni interaziendali
piuttosto che intra-aziendali. Ciò significava che le imprese dipendevano dai
prezzi esterni, con l'ironico risultato che le relazioni di mercato
indebolivano la pianificazione a livello aziendale in modi che non si
verificavano all'interno di quello che Galbraith aveva definito il «sistema di
pianificazione» delle corporations in Occidente. Allo stesso
tempo, la produzione in fabbrica era organizzata secondo il vecchio modello
della Ford Motors, in cui ogni divisione o sindacato produceva tutti i
componenti, in contrapposizione al più sviluppato sistema di produzione
monopolistico capitalistico con fornitori multipli, che impediva il
rallentamento dei flussi produttivi.[69] Soprattutto, l'economia di
comando sovietica si basava fin dall'inizio su uno sviluppo estensivo,
piuttosto che intensivo, attraverso la selezione forzata di manodopera e
risorse, in contrapposizione all’implementazione di efficienze dinamiche.[70] Di
conseguenza, una volta che la manodopera e le risorse cominciarono a scarseggiare,
piuttosto che il contrario, l'economia entrò in stagnazione, creando una
diffusa carenza.[71]
Tuttavia, anche allora l'economia continuò a crescere, anche se più
lentamente, fino al caos dell'era Gorbaciov, fornendo nel contempo alla
popolazione ampi servizi sociali, invidiabili rispetto alla maggior parte dei
paesi del mondo, anche se privi di consumismo di massa e di beni di lusso.[72] Alla
fine, fu la direzione intrapresa dai vertici della gerarchia sociale
della nomenklatura, che aspirava allo stesso stile di vita opulento
delle alte sfere occidentali, a segnare il destino del sistema sovietico.[73]
Come spiegarono Harry Magdoff e Fred Magdoff in “Approaching Socialism”, “le carenze
dell'economia sovietica, che divennero evidenti non molto tempo dopo la ripresa
dalla Seconda guerra mondiale, non furono il risultato del fallimento della
pianificazione centralizzata, ma del modo in cui la pianificazione fu condotta.
La pianificazione centralizzata in tempo di pace non richiede il controllo, da
parte delle autorità centrali, di ogni dettaglio della produzione. Non solo il
comandismo e l'assenza di democrazia non sono ingredienti necessari della
pianificazione centralizzata, ma sono controproducenti per una buona
pianificazione. Ironia della sorte, furono il carattere di classe del sistema
sovietico e la corruzione dilagante a portarlo alla sua fine.[74]
Il periodo dell'economia di comando della Cina, dopo la rivoluzione del
1949, fu molto più breve, durando essenzialmente dal 1953 al 1978. La Cina
lanciò il suo primo piano quinquennale, basato sul modello sovietico, nel 1953
e la sua fase di pianificazione durò fino all’istituzione delle "riforme
di mercato", un quarto di secolo dopo. Durante il suo periodo di
pianificazione centralizzata, in cui dovette anche affrontare la minaccia
statunitense che la costrinse a dirottare le principali risorse necessarie alla
difesa nazionale, la Repubblica Popolare Cinese raggiunse comunque risultati
considerevoli, ponendo le basi industriali e sociali per l'ancor più notevole
sviluppo economico,che sarebbe seguito con l'apertura dell'economia cinese e la
sua integrazione controllata con l'economia mondiale.
Non c'è dubbio che nel periodo iniziale di pianificazione i risultati
dell'economia di comando cinese fossero discontinui. La pianificazione
centralizzata, com’è stata istituita in Cina, presentava molte delle stesse
criticità che aveva in Unione Sovietica, portò a squilibri ed allo stesso
fenomeno di «scomparsa della pianificazione nel piano». Tuttavia, furono
raggiunti enormi risultati. L'agricoltura fu posta su nuove basi, con i
collettivi e la proprietà sociale.[75] «Poche persone ne furono
consapevoli», scrisse Fred Magdoff nella sua prefazione a The Unknown
Cultural Revolution: Life and Change in a Chinese Village di Dongping
Han, «nella visita in Cina nell'estate del 1974, durante la Rivoluzione
Culturale, di una delegazione di agronomi statunitensi. Essi viaggiarono molto
e rimasero stupiti da ciò che osservarono, come descritto in un articolo
del New York Times (24 settembre 1974). La delegazione era
composta da dieci scienziati «esperti osservatori di colture con una vasta
esperienza in Asia». Come disse il premio Nobel Norman Borlaug: «Dovevi cercare
attentamente per trovare un terreno mal coltivato. Ovunque viaggiassimo, tutto
era verde e bello. I progressi erano molto più rimarchevoli di quanto mi
aspettassi». Il capo della delegazione, Sterling Wortman, vicepresidente della
Fondazione Rockefeller, descrisse il raccolto di riso come « … davvero di
prim'ordine. Un terreno coltivato dopo l’altro, come qualsiasi cosa che si
possa vedere». Gli osservatori rimasero colpiti anche dal livello di abilità
degli agricoltori nelle comuni. Wortman dichiarò: «Sono tutti elevati al
miglior livello di abilità. Condividono tutti gli input a loro disposizione».
Una dettagliata descrizione delle loro osservazioni sull’agricoltura cinese fu
pubblicata dal Dr. Sprague nel 1975 sulla prestigiosa rivista Science.
Gran parte dei progressi dell'agricoltura cinese dopo la Rivoluzione Culturale
furono resi possibili dai progressi compiuti in quel periodo. Anche l'aumento
dell'uso di fertilizzanti verificatosi tra la fine degli anni '70 e l'inizio
degli anni '80 fu reso possibile dalle fabbriche appaltate dalla Cina nel 1973.[76]
La crescita del potenziale industriale in Cina sotto Mao Zedong è stata
"relativamente rapida" se paragonata a quella di quasi tutti gli
altri Paesi in via di sviluppo.[77] L'alfabetizzazione e
l'aspettativa di vita media sono state completamente trasformate, ponendo la
Cina, alla fine degli anni '70, al pari dei Paesi a medio reddito in termini di
fattori di sviluppo umano, nonostante il reddito pro capite ancora estremamente
basso. L'«impatto netto della pianificazione» fu un enorme incremento del
"tasso di progresso tecnico". Come ha scritto Chris Bramall nella sua
opera principale del 1993, In Praise of Maoist Economic Planning,
«Se si pensa che le capacità siano un migliore indicatore dello sviluppo
economico rispetto all'opulenza, sia la Cina che la provincia del Sichuan si
erano molto sviluppate al momento della morte di Mao. Il fatto che la Banca
Mondiale scelga di dare maggiore risalto all'opulenza è una decisione puramente
normativa».[78]
Dopo il 1978 la Cina è passata rapidamente da un'economia interamente
pianificata centralmente a un sistema di economia mista, simile alla NEP di
Lenin. In termini marxisti potrebbe essere visto strutturalmente, come ha
osservato Samir Amin, come un "capitalismo di stato" sotto la guida
del Partito Comunista Cinese (sebbene siano stati utilizzati anche i termini
"socialismo di mercato" e persino "socialismo di stato").[79] Ciò
significa che c'è stata una brusca svolta verso il mercato, mentre il settore
statale è rimasto enorme, dominando i vertici dell'economia e guidando l'intero
sistema, sotto il "socialismo con caratteristiche cinesi". Il PIL
cinese è cresciuto di trenta volte tra il 1978 e il 2015, superando di gran
lunga tutti gli altri "miracoli economici" storici in materia di
industrializzazione.[80]
I terreni, soprattutto nelle aree rurali, sono rimasti per la maggior parte
di proprietà statale/collettiva. Attualmente la Cina ha circa 150.000 imprese
statali, di cui circa 50.000 di proprietà del governo centrale e il resto dei
governi locali. Le imprese statali rappresentano circa il 30% del PIL totale
(circa il 40% del PIL non agricolo) e circa il 44% del patrimonio nazionale.[81] Queste
imprese sono strettamente controllate dal governo (con i direttori generali
delle imprese statali nominati dal Dipartimento centrale per l’Organizzazione
del Partito). Sono integrate nel mercato, ma ricevono sostegno e sussidi
statali e devono soddisfare gli obiettivi governativi al di là della
massimizzazione dei profitti, fornendo al contempo un surplus economico allo
Stato, pari al 30% dei loro profitti. Durante la pandemia COVID-19, il Partito
ha assegnato alle imprese statali un ruolo significativo.[82]
La Cina continua a introdurre piani quinquennali in cui il controllo sul
settore statale è il suo principale punto di forza per guidare l'intera
economia.[83] Nel 2002, c'erano sei imprese statali cinesi nella
Global Fortune 500. Nel 2012 sono salite a sessantacinque. Il Partito Comunista
Cinese riconosce esplicitamente che il mercato è una forza senza cuore e senza
cervello, che richiede un ruolo diretto dello Stato nella guida dell'economia.
Ciò ha assunto la forma di quella che è nota come “regolazione statale (ovvero
regolazione pianificata)” e del principio di “coproduzione” di stato e mercato.[84]
Come ha osservato Yi Wen, economista e vicepresidente del Consiglio della
Federal Reserve di St. Louis, «la Cina ha compresso in una sola generazione i
circa 150-200 (o anche più) anni di cambiamenti economici rivoluzionari
sperimentati dall'Inghilterra nel 1700-1900 e dagli Stati Uniti nel 1760-1920 e
dal Giappone nel 1850-1960».[85] Un aspetto importante
dell'economia cinese, che conserva un settore statale trainante, e quindi una
capacità molto maggiore da parte dello Stato di regolare l'economia - e di
pianificare i cambiamenti nella ripartizione di lavoro e risorse - è una
maggiore immunità alle crisi economiche, generalmente limitate a disturbi
locali della produzione.[86] Tuttavia, le contraddizioni centrali
del “socialismo con caratteristiche cinesi” si trovano nel livello di
disuguaglianza che ha ormai quasi raggiunto proporzioni statunitensi, e
nell'estremo sfruttamento della manodopera migrante dalle aree rurali,
impiegata nella produzione di esportazioni per le multinazionali straniere.
Queste sono diventate le principali aree problematiche.[87]
La fine dell'Unione Sovietica e l'apertura della Cina all'economia mondiale
sono state universalmente accolte in Occidente - in particolare nell’ambito
dell'economia ortodossa, nucleo ideologico del sistema - come la prova
definitiva che la pianificazione economica era impraticabile e destinata a
fallire fin dall'inizio. Il socialismo veniva identificato interamente con la
pianificazione, che, si diceva, portava all'inevitabile fallimento. Implicito a
tutto ciò era il «presupposto che la pratica sovietica rivela la natura
essenziale di un'economia pianificata a livello centrale».[88]
Tuttavia, una condanna così categorica della pianificazione centralizzata
in tutte le sue forme e circostanze, avulsa dall'analisi concreta, non aveva
alcuna base teorica ed era contraddetta dalla realtà. Le stesse economie
capitaliste avevano spesso fatto ricorso alla pianificazione centralizzata di
emergenza in tempo di guerra. Durante la Seconda Guerra Mondiale, gli Stati
Uniti, ad esempio, istituirono un esteso sistema di pianificazione nazionale,
gestito dal War Production Board e da altre agenzie, che spostava risorse e
produzione mentre istituiva il razionamento e il controllo dei prezzi. La
produzione automobilistica civile, che costituiva il principale settore
industriale del paese, fu rapidamente convertita nella produzione di armamenti,
carri armati e aerei. C'era un disperato bisogno di produrre navi da guerra e
navi mercantili. I beni militari erano necessari non solo per gli Stati Uniti
ma anche per i loro alleati.[89] Ciò richiese anche una massiccia
espansione e importanti cambiamenti nella forza lavoro, poiché milioni di
uomini furono chiamati al servizio militare. L'occupazione retribuita delle
donne crebbe del 57% durante la guerra; nel 1943, le donne costituivano il 65%
della forza lavoro nell'industria aeronautica.[90] Tutto ciò
richiedeva una pianificazione centrale, con agenzie di pianificazione,
direttive statali e controlli fiscali e monetari. La ricerca governativa nel
campo della scienza e della tecnologia fu potenziata, soprattutto col famoso
Progetto Manhattan. Il surplus economico generato dalla società fu
massicciamente reindirizzato per facilitare la produzione bellica, mentre
l'industria doveva essere coordinata per massimizzare specifici beni militari
al momento e al ritmo giusto.[91] La pianificazione centralizzata,
come l'ha definita Michał Kalecki, «include il volume della produzione, il
fondo salari, i progetti di investimento più ampi, nonché il controllo dei
prezzi e la distribuzione dei materiali di base». La pianificazione americana
in tempo di guerra si adatta in larga misura a questa definizione, dimostrando
che un'economia mista non era sempre incompatibile con la pianificazione
centralizzata.[92]
Senza una pianificazione sociale ed economica, gli obiettivi del socialismo
volti all'uguaglianza sostanziale e alla sostenibilità ecologica sono
impossibili da raggiungere. La logica e l'esperienza storica mostrano che senza
un sistema di pianificazione di qualche tipo che operi a vari livelli, dal
luogo di lavoro locale a quello nazionale, non è possibile affrontare
efficacemente l'emergenza ecologica planetaria o permettere un «buen vivir per
tutte le persone».[93] Semplicemente, questo non può essere
realizzato in una società di «Accumulate, accumulate! Questo dicono Mosé e i
profeti!»[94] La pianificazione, tuttavia, deve essere democratica
se vuole ottenere risultati socialmente ottimali. «Non c'è nulla nella
pianificazione centrale» in sé, notano Fred e Harry Magdoff in
"Approaching Socialism", «che richiede il comandismo e la
consegna di tutti gli aspetti della pianificazione alle autorità centrali. Ciò
si verifica a causa dell'influenza di particolari interessi burocratici e del
potere sovrastante dello Stato. La pianificazione per il popolo deve
coinvolgere il popolo. I piani delle regioni, delle città e dei paesi
richiedono il coinvolgimento attivo delle popolazioni locali, delle fabbriche e
dei negozi nei consigli dei lavoratori e delle comunità. Il programma generale,
in particolare la decisione sulla distribuzione delle risorse tra beni di
consumo e investimenti, richiede la partecipazione del popolo. E per questo, il
popolo deve conoscere i fatti, un modo chiaro per informare il proprio pensiero
e contribuire alle decisioni fondamentali.[95]
Un'economia pianificata, unificata e diversificata, che comprenda più
livelli e preveda la "democrazia nell’intero processo", non richiede
l'eliminazione del mercato dei consumi o della libertà dei lavoratori di
lavorare dove vogliono (e quindi un mercato del lavoro in questo senso).[96] Richiede,
tuttavia, il controllo degli investimenti in beni capitali e della finanza, e
quindi dei controlli sociali che consentano l’investimento del surplus
economico in modi che vadano a beneficio della popolazione nella sua interezza
(comprese le generazioni future), assicurando condizioni egualitarie, le basi
fondamentali dello sviluppo umano per tutti gli individui e la protezione
dell'ambiente naturale.
Nel suo saggio “In Defense of Socialist Planning” del 1986, Ernest Mandel
sosteneva che il vantaggio principale della pianificazione economica è che le
decisioni sulla distribuzione delle risorse e del lavoro vengono prese a
priori e poi corrette per tentativi ed errori, piuttosto che a
posteriori attraverso la forza mediatrice del mercato delle merci (e
del suo «razionamento da parte del portafoglio»). La pianificazione consente
quindi di prendere decisioni direttamente sulla base di ciò che Marx chiamava
la «gerarchia dei ... bisogni». Ciò non richiede che tutte le decisioni siano
prese da una burocrazia centralizzata; è coerente con una democrazia socializzata
basata sulla «istituzionalizzazione della sovranità popolare». I
parametri fondamentali della produzione sarebbero stabiliti dai produttori
associati in una società organizzata sul principio della cooperazione. Una
società di questo tipo «crescerebbe nella civiltà piuttosto che nel
consumismo».[97]
Stati socialisti
e ambiente
C'è un'idea ampiamente diffusa, che è diventata quasi universalmente
accettata dopo la fine dell'Unione Sovietica, secondo cui i risultati sovietici
in merito all’ambiente fossero molto peggiori di quelli occidentali, e che
questo fosse attribuibile al socialismo e alla pianificazione centralizzata.[98] È
vero che i risultati dell'URSS in merito all’ambiente fossero deplorevoli sotto
molti aspetti. Basti pensare a Chernobyl e al lago d'Aral. Nell'era di Stalin,
molti dei pionieri ecologisti sovietici furono epurati, con importanti
conseguenze per lo sviluppo sovietico. Tuttavia, la visione dominante cancella
i successi ambientali sovietici, che si riscontrano nelle cinture verdi intorno
alle città, nelle famose zapovedniki (riserve ecologiche
scientifiche), nelle massicce campagne di rimboschimento/forestazione, nel
ruolo di guida nella promozione di accordi ambientali a livello internazionale
e nelle potenti organizzazioni ambientaliste, che esercitavano pressioni sul
governo. La All-Russian Society for the Preservation of Nature (Società Russa
per la Conservazione della Natura), guidata in gran parte da scienziati,
contava trentasette milioni di membri nel 1987, il che la rendeva la più grande
organizzazione di difesa della conservazione al mondo.[99]
Con l'industrializzazione e la modernizzazione dell'Unione Sovietica, che
ha dovuto affrontare elevati livelli di spesa militare a causa della minaccia
occidentale della Guerra Fredda, l'Unione Sovietica si è naturalmente allineata
ai livelli occidentali di distruzione ambientale. Come l'Occidente, alla fine
ha risposto, anche se non senza contraddizioni, ai propri movimenti
ambientalisti. La protezione e la conservazione dell'ambiente furono
incorporate, anche se in modo inadeguato, nel sistema di pianificazione
generale. L'Unione Sovietica disponeva di un sistema molto esteso di leggi
ambientali, che tuttavia non erano sufficientemente applicate. Furono gli
scienziati sovietici, presto seguiti da quelli statunitensi, a lanciare per
primi l'allarme sull'accelerazione del riscaldamento globale.[100] Grandi
sforzi furono compiuti anche nel settore della conservazione del suolo.[101] Negli
anni '80, il concetto di "civiltà ecologica" nacque per la prima
volta in Unione Sovietica e fu presto adottato in Cina, dove è diventato un
aspetto centrale della pianificazione generale, come si evince dai piani
quinquennali cinesi.[102] Importanti economisti sovietici, come P.
G. Oldak, sostennero la necessità di una trasformazione radicale della
contabilità del reddito nazionale sovietico per integrare le misure dirette
alla compensazione della distruzione ambientale. «'Di più'» sosteneva, «non è
sempre 'meglio'».[103]
I risultati ambientali dell'Unione Sovietica in materia di inquinamento,
pur non essendo soddisfacenti, erano generalmente migliori se confrontati con
quelli degli Stati Uniti, a parità di popolazione. Le emissioni pro capite di
anidride solforosa, protossido di azoto, particolato e anidride carbonica
dell'Unione Sovietica erano tutte molto inferiori a quelle degli Stati Uniti,
mentre le emissioni pro capite di anidride carbonica sono diminuite negli
ultimi anni. L'impronta ecologica pro capite dell'Unione Sovietica, la misura
più completa dell'impatto ambientale, era di gran lunga inferiore a quella
degli Stati Uniti, e il divario è aumentato negli anni '80, quando l'impronta
ecologica pro capite degli Stati Uniti ha continuato a crescere mentre quella
dell'URSS si è stabilizzata. Inoltre, questo era vero nonostante gli Stati
Uniti fossero in grado di «scaricare i danni ambientali su molti altri Paesi».
Gli Stati Uniti erano molto più ricchi e tecnologicamente avanzati, ma
causarono anche molti più danni all'ambiente globale.[104]
Sebbene la pianificazione sovietica e quella di altre società
post-rivoluzionarie siano state indirizzate alla crescita economica, imitando
in qualche misura il capitalismo, la spinta interna e di classe
all'accumulazione di capitale, non è una caratteristica strutturale intrinseca
di una società socialista pianificata. Per questo motivo, Paul M. Sweezy ha
sostenuto nel 1989 che le economie pianificate, realmente esistenti, offrissero
all'umanità le migliori possibilità di realizzare le rapide trasformazioni
della produzione e del consumo necessarie per affrontare la crisi ambientale
globale.[105]
Cuba, sebbene sia un paese povero che deve far fronte a un perenne blocco
economico da parte degli Stati Uniti, è stata a lungo riconosciuta come la
nazione più ecologica della Terra, secondo il Living Planet Report della
World Wildlife Federation. Cuba è stata in grado di dimostrare che un paese può
avere un’alta valutazione dello sviluppo umano pur avendo una bassa impronta
ecologica. Ciò è dovuto al fatto che nella sua pianificazione ha posto in primo
piano lo sviluppo umano per la popolazione nel suo complesso, comprese le
condizioni ambientali.[106]
Nel frattempo, la Repubblica popolare cinese ha fatto passi da gigante
nella direzione della "civiltà ecologica", nonostante il suo
tentativo di portare il reddito pro capite della popolazione al di sopra del
livello attuale, che attualmente è meno di un quinto di quello della Stati
Uniti (in termini di cambio di mercato), che necessita di alti tassi di
crescita economica.[107] Ciò è stato accompagnato da una continua,
seppur ridotta, dipendenza dalle centrali a carbone come principale fonte di
energia. Tuttavia, la Cina ha fatto passi da gigante nel campo delle tecnologie
sostenibili, dove è leader mondiale; nella rapida riduzione dell'inquinamento;
e nei livelli globali di riforestazione/rimboschimento.[108]
Nell'attuale clima ecologico, Cina e Cuba, insieme ad altre economie miste,
dirette dallo stato e semi-pianificate, come il Venezuela, con i suoi
tentativi, attraverso la Rivoluzione Bolivariana, di costruire uno stato
comunitario e i suoi straordinari risultati in termini di sicurezza e sovranità
alimentare - offrono una speranza di svolta ecologica nell'attuale emergenza
planetaria, attualmente assente nell'opulento mondo capitalista.[109]
Pianificare lo
sviluppo umano sostenibile
La decrescita pianificata o 'deaccumulazione' e il passaggio a uno sviluppo
umano sostenibile sono ormai inevitabili nei Paesi più ricchi, le cui impronte
ecologiche pro capite sono insostenibili su base planetaria, se si vuole che la
civiltà organizzata sopravviva. La portata e il ritmo della necessaria
trasformazione ecologico-energetica, come sottolineato nei rapporti scientifici
sul cambiamento climatico e su altri limiti planetari, indicano che per evitare
la catastrofe è necessario attuare una trasformazione rivoluzionaria
dell'intero sistema di produzione e consumo secondo il principio «Meglio più
piccolo, ma meglio».[110] Pertanto, i principali paesi
capitalisti/imperialisti, che costituiscono la principale fonte del problema,
devono cercare una « via d'uscita prospera», concentrandosi sul valore d'uso
piuttosto che sul valore di scambio.[111] Ciò richiede di passare a
livelli molto più bassi di consumo energetico e di gravitare verso uguali quote
globali pro capite, azzerando contemporaneamente le emissioni di carbonio.
Allo stesso tempo, i Paesi più poveri con una bassa impronta ecologica
devono potersi sviluppare in un processo generale che prevede la contrazione del
flusso di energia e materiali nei Paesi ricchi e la convergenza del
consumo pro capite in termini fisici nel mondo intero.[112] Il
ridimensionamento delle economie ricche richiederà un massiccio passaggio a
tecnologie sostenibili, tra cui l'energia solare ed eolica. Ma nessuna delle
tecnologie esistenti è in grado, da sola, di risolvere il problema climatico
nella tempistica richiesta, per non parlare dell'affrontare l'emergenza
planetaria nella sua interezza, consentendo al contempo la prosecuzione
dell'accumulazione esponenziale illimitata e la cattiva distribuzione imposte
dal capitalismo.[113]
Ciò che è oggettivamente necessario a questo punto della storia umana è
quindi una trasformazione rivoluzionaria delle relazioni sociali che regolano
la produzione, il consumo e la distribuzione. Ciò significa un drastico
allontanamento dal sistema del capitale monopolistico, dello sfruttamento,
dell'espropriazione, dello spreco e dell'incessante spinta all'accumulazione.[114] Al
suo posto, un'umanità rivoluzionaria basata sulla popolazione attiva - un
emergente proletariato ambientale - dovrà esigere una nuova formazione sociale
che provveda ai bisogni fondamentali di tutta la popolazione, seguiti dai
bisogni della comunità, compresi i bisogni di sviluppo di tutti gli individui.[115] Ciò
sarà reso possibile da miglioramenti qualitativi del lavoro, dal rilievo dato
al lavoro utile e al lavoro di cura, insieme alla condivisione dell'abbondante
ricchezza sociale, essa stessa prodotto del lavoro umano. Un rapporto
sostenibile con la terra è un requisito assoluto senza il quale non ci può
essere un futuro umano. Tutto questo richiede di andare contro la logica
dell'accumulazione capitalista nel presente. La pianificazione economica dovrà
essere riorganizzata, non per la crescita economica o per la guerra contro
altri Paesi, ma per creare una nuova serie di priorità sociali finalizzate alla
prosperità umana e a un metabolismo sociale sostenibile con la Terra.
Una «visione socialista degli Stati Uniti», ha scritto Harry Magdoff nel
1995, richiederebbe una diminuzione dell'uso di energia, della produzione di
auto civili e dei sussidi governativi alle imprese che distruggono l'ambiente.
«Nei Paesi ricchi sarebbe necessario uno stile di vita molto più semplice per
preservare la Terra come luogo dell'esistenza umana». Per raggiungere questo
obiettivo, «la crescita dovrebbe essere ridotta o controllata». In un tale
sistema sarebbe essenziale concentrarsi sui bisogni primari, come un alloggio
adeguato e dignitoso per tutti. Le spese belliche orientate all'imperialismo
dovrebbero cessare e le restrizioni all'immigrazione dovrebbero essere
eliminate. Tutto questo richiede una pianificazione sociale ed economica. Nulla
di tutto ciò potrebbe essere ottenuto affidandosi principalmente al sistema dei
prezzi di mercato, che promuove invariabilmente disuguaglianza, distruzione
ambientale, guerra ed esclusione.[116] Come ha scritto il sociologo
britannico Anthony Giddens in The Politics of Climate Change, «una
pianificazione di qualche tipo è inevitabile» di fronte all'attuale crisi
planetaria.[117]
Negli Stati Uniti e in altri Paesi ricchi esistono già attualmente i mezzi
per una trasformazione massiccia e qualitativa della società in linea con le
priorità sociali e i bisogni della classe operaia oppressa, allontanandosi
dall'imperialismo e dall'oppressione globale dei “miserabili della terra”.
Questo si può facilmente vedere nell’attuale bilancio militare di trilioni di
dollari, che potrebbe essere riutilizzato per realizzare quei cambiamenti
nell'infrastruttura energetica necessari per la sopravvivenza umana. Ma si può
anche vedere nei crescenti livelli di espropriazione del surplus dai produttori
diretti. Uno studio della RAND Corporation ha stimato che tra il 1980 e il 2018
sono stati espropriati 47 trilioni di dollari (in dollari del 2018), al 90% più
povero della popolazione statunitense, calcolati sulla base di quanto avrebbero
ricevuto se il reddito fosse cresciuto in modo equo all'interno dell'economia
del periodo. Questa cifra supera l'intero valore attuale del patrimonio
immobiliare statunitense, che nel gennaio 2022 era di 43 trilioni di dollari.[118] Alla
base di questo enorme surplus sociale c'è il lavoro sociale, che deve essere
considerato su base economica ed ecologica, e non più sulla base dell'accumulazione
privata.[119]
Anche l'esame più superficiale dei più ampi sprechi e sfruttamentiel
sistema solleva quello che Morris chiamava il problema del «lavoro utile contro fatica
inutile».[120] L'enorme surplus economico derivante dal lavoro sociale
- misurato non solo da profitti, dagli interessi e dagli affitti, ma anche
dagli sprechi, dalla cattiva distribuzione e dall'irrazionalità di base del
sistema - è già molte volte superiore a quello necessario per realizzare i
vasti cambiamenti necessari per creare una società di sviluppo umano
sostenibile. È il capitalismo stesso che impone la scarsità e l'austerità alla
popolazione per costringere i lavoratori a sacrificare ulteriormente le loro
vite per un sistema di sfruttamento, che ora minaccia una crisi di abitabilità
planetaria per tutta l'umanità e innumerevoli altre forme di vita.
La maggior parte delle strategie di decrescita, anche quelle promulgate
dagli ecosocialisti, rimandano all'ideologia dominante, preferendo non
sollevare la questione della pianificazione, anche di fronte all'emergenza
planetaria. In effetti, si tende a rinunciare a misure ovvie come la
nazionalizzazione delle società energetiche e il taglio obbligatorio delle
emissioni per le imprese. Invece, i teorici della decrescita propongono
generalmente un menu di "alternative politiche", come un Green New
Deal in stile keynesiano, un reddito di base universale, una riforma fiscale
ecologica, una settimana lavorativa più breve, una maggiore automazione e così
via, nessuna delle quali entra in conflitto diretto con il sistema, o si
avvicina ad affrontare l'enormità del problema, in quelle che vengono
considerate riforme non riformiste.[121]
Le proposte per una drastica riduzione dell'occupazione, non solo per un
orario di lavoro più breve, sostenute, in molti programmi di decrescita, da un
reddito di base garantito, cercano di aggiustare i parametri del capitalismo,
piuttosto che trascenderli, in un approccio che genererebbe il tipo di
condizioni distopiche descritte nel romanzo di Kurt Vonnegut, Player
Piano.[122] Come scrissero Leo Huberman e Sweezy quando la
nozione di un reddito di base garantito fu ventilata per la prima volta negli
anni '60, «la nostra conclusione può essere solo che l'idea di un reddito
garantito incondizionatamente non è il grande principio rivoluzionario che gli
autori di The Triple Revolution evidentemente credono che sia.
Se applicato nel nostro sistema attuale, sarebbe, come la religione, un
oppiaceo del popolo che tende a rafforzare lo status quo. E in un sistema
socialista... non sarebbeaffatto necessario e potrebbe fare più male che bene».[123]
Alcuni socialisti della non-decrescita, di fronte al cambiamento climatico,
hanno ceduto al feticismo della tecnologia, proponendo pericolose misure di
geoingegneria che inevitabilmente aggraverebbero la crisi ecologica planetaria
nel suo complesso.[124] Non c'è dubbio che molti a sinistra vedano
oggi l'intera soluzione come consistente in un Green New Deal che espanderebbe
i posti di lavoro green e la tecnologia green,
portando la crescita green in un circolo apparentemente
virtuoso. Ma poiché questo è solitamente orientato a un'economia di crescita
keynesiana e difeso in questi termini, i presupposti alla base di tutto ciò
sono discutibili.[125] Una proposta più radicale, più in linea con
la decrescita, sarebbe un People's Green New Deal orientato al socialismo e
alla pianificazione ecologica democratica.[126]
Sotto il capitale monopolistico-finanziario di oggi, interi settori della
professione sanitaria, dell'istruzione, delle arti e così via sono colpiti da
quella che è nota come la "malattia del costo di Baumol", dal nome di
William J. Baumol, che introdusse l'idea nel suo libro del 1966, Performing
Arts: The Economic Dilemma.[127] Questo si verifica quando i
salari aumentano e la produttività no. Così, come dichiara la rivista Forbes senza
alcuna traccia di ironia: «La produzione di un quartetto [d'archi] che suona
Beethoven non è aumentata dal XIX secolo», sebbene il loro reddito sia
aumentato. La malattia del costo di Baumol è considerata applicabile
principalmente a quei settori di lavoro in cui la nozione di aumento
quantitativo della produttività è generalmente priva di significato. Tuttavia,
come si misura la produttività di un'infermiera che cura i pazienti? Certamente
non dal numero di pazienti per infermiera, indipendentemente dalla quantità di
cure che ciascuno riceve e dai risultati ottenuti. Il risultato degli obiettivi
incentrati sul profitto, nell'economia altamente finanziarizzata di oggi, è il
sottoinvestimento e l'istituzionalizzazione di bassi salari proprio in quei
settori caratterizzati come soggetti alla cosiddetta malattia del costo di
Baumol, semplicemente perché non favoriscono direttamente l'accumulazione di
capitale.
Al contrario, in una società ecosocialista, dove l'accumulazione di
capitale non è l'obiettivo primario, sarebbero spesso quelle aree ad alta
intensità di lavoro nelle professioni di cura, nell'istruzione, nelle arti e
nelle relazioni organiche con la terra ad essere considerate più importanti e
integrate nella pianificazione sociale.[128] In un'economia
orientata alla sostenibilità, il lavoro stesso potrebbe sostituire l'energia
dei combustibili fossili, come nella piccola agricoltura biologica e
sostenibile, più efficiente in termini ecologici.[129]
Scrivendo nel 1957 in The Political Economy of Growth, Baran ha
sostenuto che il surplus economico pianificato potrebbe essere
intenzionalmente ridotto nella pianificazione socialista, rispetto a quanto era
allora possibile, al fine di garantire la «conservazione delle risorse umane e
naturali». In questo caso, l'accento non sarebbe stato posto semplicemente
sulla crescita economica, ma sul soddisfacimento dei bisogni sociali, compresa
la riduzione dei costi ambientali; ad esempio, scegliendo di tagliare
«l'estrazione del carbone».[130] Tutto ciò significava, in effetti,
dare priorità allo sviluppo umano sostenibile rispetto a forme distruttive di
crescita economica. Oggi, l'eliminazione dei combustibili fossili, anche se
comporta una riduzione del surplus economico generato dalla società, è
diventata una necessità assoluta per il mondo intero, che si trova di fronte a
quella che Noam Chomsky ha definito «la fine dell'umanità organizzata».[131] Per
dirla con le parole di Engels e Marx, è necessario sbloccare la «valvola di
sicurezza inceppata» sulla locomotiva capitalista «che corre verso la rovina».
La scelta è tra socialismo o sterminismo, «rovina
o rivoluzione».[132]
Note
* Expended: speso; exsists: esiste;
δύναμις: forza; expenditure: spesa.
[01] Herman E. Daly, Beyond
Growth, Boston, Beacon Press, 1996, p. 2.
[02] In termini marxisti, la
decrescita rappresenta un passaggio dalla riproduzione allargata, in termini di
rendimento materiale, alla riproduzione semplice. Vedi Paul M. Sweezy, The
Theory of Capitalist Development, New York, Monthly
Review Press, 1970, pp. 75–95. Il principale teorico dell'economia stazionaria
(finalizzata alla semplice riproduzione nel contesto di un'economia mondiale) è
il compianto Herman E. Daly, in opere come Beyond Growth e Steady-State
Economics. Daly fu un critico acuto dell'economia capitalista esistente e
fece spesso ricorso a Marx nelle sue analisi. Tuttavia, il suo approccio
all'economia stazionaria era originariamente ispirato alla concezione di John
Stuart Mill dello "stato stazionario" e, come Mill, cercava, secondo
le parole di Marx, di "riconciliare gli inconciliabili" del capitale
e del lavoro, vedendo un'economia senza crescita come compatibile con il
capitalismo o almeno con un sistema di mercato, e implementata da politiche
governative, licenze e limiti. L'irrealismo di tutto ciò è stato in parte
riconosciuto da Daly, che ha affrontato l'implementazione di un'economia senza
crescita come una questione di fede, concludendo la sua grande opera, Beyond
Growth, con Dio e una "economia centrata sulla Creazione".
Tuttavia, la sua analisi era profondamente critica e persino radicale. Vedi
Herman E. Daly, Beyond Growth, Boston, Beacon Press, 1996, pp.
216–24; Herman E. Daly, Steady-State Economics , Washington
DC, Island Press, 1991; Herman E. Daly e John B. Cobb, Jr., Per il bene
comune, Boston, Beacon Press, 1989. Per una critica ai tentativi di
riconciliare un'economia senza crescita con il capitalismo, vedi John Bellamy
Foster, Capitalism in the Anthropocene, New York, Monthly
Review Press, 2022, pp. 363–72.
[03] Herman E. Daly,
"Economics in a Full World", Scientific American,
settembre 2005, pp. 100–7.
[04] Howard T. Odum e Elisabeth C.
Odum, A Prosperous Way Down, Boulder, Colorado, University Press of
Colorado, 2001.
[05] Jason Hickel, Less Is
More, London, Windmill, 2020, p. 30.
[06] Per le critiche ecologiche
della contabilità del reddito nazionale si veda Daly e Cobb, For the
Common Good, pp. 64–84, pp. 401–55; John Bellamy Foster e Brett
Clark, The Robbery of Nature, New York, Monthly
Review Press, 2020, pp. 260–61; Marilyn Waring, Counting for Nothing,
Toronto, University of Toronto Press, 1999.
[07] Per una discussione sullo
spreco nel capitalismo si veda Victor Wallis, Red-Green Revolution: The
Politics and Technology of Ecosocialism, Toronto, Political Animal Press,
2022, pp. 24–30.
[08] Karl Marx and Friedrich
Engels, Collected Works, New York, International Publishers, 1975,
vol. 37, pp. 732-33.
[09] M. Waring, Counting for
Nothing, pp. 153–81.
[10] Johan Rockström et al.,
"A Safe Operating Space for Humanity", Nature 461,
n. 24, 2009, pp. 472–75; Will Steffen et al., "Planetary
Boundaries", Science 347, n. 6223, 2015, pp. 736–46;
Sadrine Dixson-Declève et al., Earth for All, Gabriella, BC., New
Society Publishers, 2022, pp. 13–19.
[11] Carles Soriano, Anthropocene, Capitalocene, and Other
'-Cenes,' Monthly Review 74, n. 6 novembre 2022, p. 1;
Trad. it. "Antropocene, Capitalocene e altri
“-cene”: perché una corretta comprensione della teoria del valore di Marx è
necessaria per uscire dalla crisi planetaria",
Antropocene.org, 04,12,2022.
[12] Gruppo intergovernativo delle
Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, Sixth Assessment Report, Working Group I: The Physical Science Basis, 2021, 14, ipcc.ch ; Andrea Januta, "Explainer: The UN Climate
Report's Five Futures Decoded", Reuters, 9 agosto 2021; International
Energy Agency, Net Zero by 2050 Scenario (MZE), Global Energy and
Climate Model, ottobre 2022, www.iea.org.
[13] Kevin Anderson, "La
natura conservatrice dell'IPCC maschera la vera portata dell'azione necessaria
per evitare cambiamenti climatici catastrofici", The Conversation, 24
marzo 2023; si veda anche David Spratt, Faster, Higher, Hotter: What We Learned
About the Climate System in 2022 , parte 1,
Resilience.org, 20 febbraio 2023
[14] "Global Temperatures Set to Reach New
Records in Next Five Years, World Meteorological Organization, May
17, 2023.
[15] Leaked Scientist Consensus Report on
Mitigation, AR6, part 3, section B4.3; “Notes from the Editors,” Monthly Review 74, n. 2
June 2022. Sulle soluzioni a basso consumo energetico per il cambiamento
climatico, vedi Joel Milward Hopkins, Julia K. Steinberger, Narasimha D. Rao,
and Yannick Oswald, “Providing Decent Living with Minimum
Energy: A Global Scenario,” Global Environmental
Change 65, November 2020; Jason Hickel et al., “Urgent Need for
Post-Growth Climate Mitigation Scenarios,” Nature Energy 6, 2021, pp.
766–68.
[16] Anderson, IPCC’s Conservative
Nature; Hickel, Less Is More, pp. 126–64
[17] John Kenneth Galbraith, Economics
and the Public Purpose, New York, New American Library, 1973, pp.
77–204; Paul M. Sweezy, “Utopian Reformism”, Monthly Review 25,
n. 6 novembre 1973, pp. 1–11.
[18] Jacques Sapir, “Is Economic
Planning Our Future?,” Studies on Russian Economic Development 33,
no. 6, 2022, pp. 583–97.
[19] Karl Marx, Capital,
vol. 1, London, Penguin, 1976, p. 99; Friedrich Engels, The Housing
Question, Moscow, Progress Publishers, 1975, p. 97.
[20] Karl Marx and Friedrich
Engels,The Communist Manifesto, New York,
Monthly Review Press, 1964, pp. 40, 74.
[21] Karl Marx, Grundrisse, London,
Penguin, 1973, p. 173; Michael A. Lebowitz, The Socialist
Imperative, New York, Monthly Review Press, 2015, pp. 70–71.
[22] Karl Marx and Friedrich
Engels, Selected Correspondence, Moscow, Progress Publishers,
1975, pp. 186–87; Marx e Engels, Collected Works, vol. 3, London, Penguin,
1981, pp. 375–76, pp. 418–43.
[23] Marx, Capital, vol. 1,
pp. 172–73.
[24] Karl Marx and Friedrich
Engels, Writings on the Paris Commune, ed. Hal Draper, New York, Monthly
Review Press, 1971, p. 77.
[25] Karl Marx, Capital,
vol. 3, p. 959. La maggior parte degli attuali approcci ecosocialisti alla decrescita
si basano fondamentalmente sulle nozioni di Marx di metabolismo sociale e
frattura metabolica. Vedi Mattias Schmelzer, Andrea Vetter e Aaron
Vansintjan, The Future Is Degrowth, London, Verso, 2022, pp.
84–86, pp. 122–23, pp. 237–44.
[26] Karl Marx and Friedrich
Engels, Selected Correspondence, p. 190 (Marx to Engels, 25 marzo
1868); John Bellamy Foster, “Capitalism and the Accumulation of Catastrophe ”, Monthly
Review 63, n. 7, dicembre 2011, pp. 3–5.
[27] Marx and
Engels, Collected Works, vol. 25,pp. 281–82; Engels, The Housing
Question, p. 92.
[28] Marx and
Engels, Collected Works, vol. 25, p. 279, pp. 282-83.
[29] Marx and
Engels, Collected Works, vol. 25, pp. 219, 282.
[30] Marx and Engels, Collected
Works, vol. 25, pp. 294-95.
[31] Marx and
Engels, Collected Works, vol. 25, pp. 277-82; Jasper Bernes, “The Belly of
the Revolution,” in Materialism and the Critique of Energy, eds. Brent
Ryan Bellamy and Jeff Diamanti, Chicago, MCM Publishing, 2018, pp. 340–42.
[32] Marx and
Engels, Collected Works, vol. 25, pp. 463-64.
[33] Marx and
Engels, Collected Works, vol. 25, pp. 460-63.
[34] William R. Catton, Overshoot, Urbana,
University of Illinois Press, 1982.
[35] Marx and
Engels, Collected Works, vol. 25, pp. 269-70; Walt Rostow, The
World Economy, Austin, University of Texas Press, 1978, pp. 47–48, pp.
659–62.
[36] Michał Kalecki sosteneva “una
sintesi di pianificazione centrale e controllo operaio”. Michał Kalecki, Selected
Essays on Economic Planning, Cambridge, Cambridge University Press,
1986, p. 31. Marta Harnecker ha evidenziato come modello praticabile il sistema
di pianificazione partecipativa sviluppato nello stato del Kerala in India.
Marta Harnecker, A World to Build, New York, Monthly Review Press,
2015, pp. 153–57. Ha anche fornito una guida per l'implementazione della
pianificazione partecipativa, in Marta Harnecker e José Bartolemé, Planning
From Below: A Decentralized Participatory Planning Proposal, New York,
Monthly Review Press, 2019. Per un'opera marxista critica sul ruolo dei
produttori diretti nel "socialismo reale" si veda Michael A.
Lebowitz,The Contradictions of “Real Socialism, New York, Monthly Review
Press, 2012.
[37] Marx and
Engels, Collected Works, vol. 24, p. 519; Karl Marx, Karl Marx, On
the First International, New York, McGraw Hill, 1973, p. 11;
Marx, Grundrisse, p. 159, pp. 171–72; Paul Burkett, “Marx’s Vision of
Sustainable Human Development,” Monthly Review 57, no. 5 October
2005, p. 43; Ernest Mandel, “In Defense of Socialist Planning,” New Left
Review 159 September–October 1986, p. 7; Ernest Mandel, "In Defense
of Socialist Planning", New Left Review 159
settembre-ottobre 1986, p. 7.
[38] Marx, Capital,
vol. 1, pp. 448–49; Lebowitz, Contradictions of “Real Socialism”,
p. 21. Il concetto di “riproduzione metabolica sociale” è stato sviluppato da
István Mészáros sulla base dell'uso di Marx del concetto di metabolismo sociale
nei Grundrisse. Vedi István Mészáros, Beyond Capital,
New York, Monthly Review Press, 1995, pp. 39–71.
[39] Karl Marx, Theories of
Surplus Value, vol. 3, Moscow, Progress Publishers, 1971, pp. 309–10; John
Bellamy Foster e Paul Burkett, Marx and the Earth, Chicago,
Haymarket, 2016, p. 149. La parola greca δίναμις, usata da Aristotele, si riferisce
alla "potenza" come fonte di cambiamento in qualcos'altro, quindi una
forza causale. William Charlton, "Aristotelian Powers", Phronesis 32,
n. 3 (1987): 277–89.
[40] Marx and
Engels, Communist Manifesto, p. 2.
[41] Marx and
Engels, Collected Works, vol. 25, p p.460-61; Jean-Paul
Sartre, Critique of Dialectical Reason, vol. 1, London, Verso, 2004, p.
164. Marx e Engels hanno utilizzato la nozione di “sterminio” nel senso
ottocentesco sia di morte che di rimozione nel contesto della rovina ecologica dell'Irlanda
nel diciannovesimo secolo sotto il colonialismo britannico. Vedi Foster e
Clark, The Robbery of Nature, pp. 64–77. Sulla dialettica di
sfruttamento, espropriazione ed esaurimento in Marx e Sartre, si veda Alberto
Toscano, “Antiphysics/Antipraxis: Universal Exhaustion and the Tragedy of
Materiality”, in Materialism and the Critique of Energy, eds .
Bellamy e Diamanti, pp. 480-92; Michael A.Lebowitz, Between Capitalism and
Community, New York, Monthly Review Press, 2020, pp. 176–77.
[42] Marx and
Engels, Collected Works, vol. 25, pp. 460-61; Jean-Paul
Sartre, Critique of Dialectical Reason, vol. 1, pp. 164-66. Lo stesso
Engels descrisse vividamente come la deforestazione in Russia «aveva distrutto
le riserve di acqua del sottosuolo», cosicché «l'acqua piovana e nevosa
scorreva veloce lungo i torrenti e i fiumi senza essere assorbita, producendo
gravi alluvioni», mentre «in estate i fiumi diventavano poco profondi e il
terreno si seccava. In molte delle aree più fertili della Russia si dice che il
livello dell'acqua del sottosuolo sia sceso di un metro intero, cosicché le
radici del mais non possono più raggiungerla e appassiscono. In modo che non
solo gli esseri umani sono rovinati, ma in molte zone anche la terra stessa per
almeno una generazione». Marx and Engels, Collected Works, vol. 27, p.
387. Tali osservazioni ecologiche avrebbero avuto un impatto sui successivi
pensatori socialisti. Lenin annotò in particolare questi passaggi di Engels
sulla deforestazione e l'impoverimento del suolo in Russia. V.I.
Lenin, Collected Works, vol. 39, Moscow, Progress Publishers, 1974, p.
501.
[43] John Bellamy Foster, The
Return of Nature, New York, Monthly Review Press, 2020, pp. 137–38.
[44] Burkett, “Marx’s Vision of
Sustainable Human Development,” pp. 34–62; Kohei Saito, Marxism in the
Anthropocene, Cambridge, Cambridge University Press, 2022, pp. 232–42.
[45] Paul A. Baran, The Longer
View, New York, Monthly Review Press, 1969, pp. 151.
[46] Andrew Zimbalist and Howard J.
Sherman, Comparing Economic Systems , Orlando, Academic Press
Inc., 1984, p. 130.
[47] Alec Nove, An Economic
History of the U.S.S.R., London, Penguin, 1969, p. 101.
[48] Nove, An Economic History
of the U.S.S.R., pp. 74, 80; Zimbalist and Sherman, Comparing Economic
Systems, p. 132.
[49] Zimbalist and Sherman, Comparing
Economic Systems, p. 130.
[50] Tadeusz Kowalik, “Central
Planming,” in Problems of the Planned Economy, ed. John Eatwell, Murray
Milgate e Peter Newman, London, Macmillan, 1990, p. 43.
[51] Tamás Krausz, Reconstructing
Lenin, New York, Monthly Review Press, 2015, pp. 335–38; Moshe
Lewin, L'ultima lotta di Lenin, London, Pluto, 1975, pp. 26–28, pp.
115–16; Nove, Storia economica dell'URSS , 52, 58; Alfred Rosmer, Mosca sotto
Lenin (New York: Monthly Review Press, 1972), 131–33.
[52] Nove, An Economic History
of the U.S.S.R., pp. 100–1, p. 134; Fyodor I. Kushirsky, Soviet Economic
Planning, 1965–1980, Boulder, Westview, 1982, pp. 6–8; Zimbalist and
Sherman, Comparing Economic Systems, p. 147.
[53] Nove, An Economic History
of the U.S.S.R., p. 120; V.I. Lenin, Collected Works, vol. 32, Moscow,
Progress Publishers, 1973, pp. 429–30.
[54] Nikolai Bukharin, The
Politics and Economics of the Transition Period, London, Routledge, 1979,
pp. 108–13; E. A. Preobrazhensky, The Crisis of Soviet
Industrialization, White Plains, New York, M. E. Sharpe, 1979, p. 63;
Harry Magdoff and Paul M. Sweezy, “Perestroika and the Future of Socialism—Part
Two,” Monthly Review 41, no. 11, April 1990, p. 2; Nicholas
Spulber, Soviet Strategy for Economic Growth, Bloomington, Indiana
University Press, 1964, pp. 102–3
[55] Nove, An Economic History
of the U.S.S.R., pp. 124–28, 132, 147; Spulber, Soviet Strategy for
Economic Growth, pp. 66-68, 72.
[56] Nove, An Economic History
of the U.S.S.R., p. 137; Harry Braverman, Labour and Monopoly
Capital, New York, Monthly Review Press, 1998, pp. 8–12; Gregory
Grossman, "Command Economy", in Problems of the Planned
Economy, eds. Eatwell, Milgate e Newman, 58-62.
[57] Moshe Lewin, Russia/URSS/Russia, New
York, New Press, 1995, pp. 95–114. Vedi anche Alec Nove, The Economics
of Feasible Socialism, London, George Allen and Unwin, 1983, pp.
79–81; Michael Ellman, “Socialist Planning,” in Problems of the Planned
Economy, eds. Eatwell, Milgate, and Newman, p. 14.
[58] Lewin, Russia/URSS/Russia,
p. 112, pp. 95–108; Magdoff and Sweezy, “Perestroika and the Future of
Socialism—Part Two,” 2; Spulber, Soviet Strategy for Economic Growth, p.
126.
[59] Lewin, Russia/URSS/Russia,
pp. 108–9.
[60] Ernest Mandel, Marxist
Economic Theory, vol. 2, New York, Monthly Review Press, 1968, pp. 557–59.
[61] Lewin, Russia/URSS/Russia,
p. 114. Per un elenco delle principali caratteristiche strutturali
dell'economia pianificata sovietica, vedi Paul Cockshott, How the World
Works, New York, Monthly Review Press, 2019, pp. 209–10.
[62] Stalin citato da Baran, The
Longer View, p. 179.
[63] "Invasion of the Soviet Union, June 1941", Holocaust
Encyclopedia, United States Holocaust Memorial Museum.
[64] David Kotz, “The Direction of
Soviet Economic Reform,” Monthly Review 44, no. 4, September 1992, p.
15.
[65] Lewin, Russia/URSS/Russia , p.
142, ix; Moshe Lewin, “Society and the Stalinist State in the Period of the
Five-Year Plans,” Social History 1, n. 2, maggio 1976, pp. 172–73;
Paul M. Sweezy, Post-Revolutionary Society, New York, Monthly
Review Press, 1980, pp. 144–45; Harry Magdoff and Fred Magdoff, “Approaching
Socialism”, Monthly Review 57, n. 3, luglio-agosto 2005, pp.
40–41.
[66] Elena Veduta, “Some Lessons on Planning from the World’s First Socialist Economy”, Monthly
Review 74, n. 5 October 2022, pp. 23–36; Lebowitz, Contradictions of
“Real Socialism,” pp. 115–20. L'idea promossa dalla scuola
economica "austriaca", con figure come Ludwig von Mises, Friedrich
Hayek e Lionel Robbins, secondo cui la pianificazione centralizzata era impossibile
perché avrebbe richiesto la risoluzione simultanea di milioni di equazioni, era
sbagliata fin dall'inizio, come adeguatamente dimostrato da Oscar Lange. Oggi
la maggior parte dei beni non viene prodotta sulla base di segnali di mercato,
ma è il prodotto di una pianificazione interna aziendale. Tuttavia,
l'informatizzazione degli input e degli output del sistema di pianificazione
avrebbe notevolmente favorito l'efficienza complessiva. Oskar Lange and Fred M.
Taylor, On the Economic Theory of Socialism, New York, McGraw-Hill,
1938, pp. 57–98; Ernest Mandel, “In Defense of Socialist Planning,” New
Left Review I/159, September–October 1986, p. 11; P. Cockshott, A.
Cottrell, and J. Dapprich, Economic Planning in an Age of Climate Crisis, London,
Cockshott, Cottree, and Dapprich, 2022.
[67] Magdoff and Sweezy,
"Perestroika and the Future of Socialism—Part Two,", p. 6; Magdoff
and Magdoff, "Approaching Socialism", p. 44.
[68] Sweezy, Post-Revolutionary
Society, pp. 140–41.
[69] Helen Yaffe, Che
Guevara: The Economics of Revolution, New York, Palgrave
Macmillan, 2009, pp. 38–39; Michael Löwy, The Marxism of Che Guevara, New
York, Rowman e Littlefield, 1973, pp. 440–41, pp. 7–51. Sulle imprese
sovietiche, vedi Spulber, Soviet Strategy for Economic Growth, pp.
119–129; Magdoff and Magdoff, “Approaching Socialism”, p. 44;
Galbraith, Economics and the Public Purpose, pp. 108–17.
[70] Zimbalist and
Sherman,Comparing Economic Systems, pp. 24–25.
[71] Magdoff e Sweezy,
"Perestroika and the Future of Socialism—Part Two", pp. 3–7; János
Kornai, The Socialist System, Princeton, Princeton University Press,
1992.
[72] Per un confronto tra i tassi
di crescita statunitensi e sovietici, vedi David M. Kotz with Fred Weir,
Russia's Path from Gorbachev to Putin, London, Routledge,
2007, pp. 35–36.
[73] Stephen F. Cohen, Soviet
Fates and Lost Alternatives, New York, Columbia University Press, 2011,
pp. 136–40; Stanislav Menshikov, “Russian Capitalism Today,” Monthly
Review 51, no. 3 July–August 1999, pp. 81–99; Kotz, Russia’s Path
from Gorbachev to Putin, pp. 105–25; Gordon M. Hahn, Russia’s Revolution
from Above, 1985–2000, New Brunswick, New Jersey, Transaction Publishers,
2002.
[74] Magdoff and Magdoff,
"Approaching Socialism", p. 49.
[75] Sulla riforma agraria cinese,
vedi William Hinton, Through a Glass Darkly, New York, Monthly
Review Press, 2006, pp. 37–84.
[76] Fred Magdoff, “Preface,” in
Dongping Han, The Unknown Cultural Revolution: Life and Change in a
Chinese Village, New York, Monthly Review Press, 2008, x.
[77] Rostow, World Economy, p.
522, 536.
[78] Chris Bramall, In Praise
of Maoist Economic Planning: Living Standards and Economic Development in
Sichuan Since 1931, Oxford, Oxford University Press, 1993, pp. 335–36.
[79] Samir Amin, “China
2013,” Monthly Review 64, no. 10 March 2013, p. 20.
[80] Yi Wen, “The Making of an
Economic Superpower: Unlocking China's Secret of Rapid Industrialization,”
Federal Reserve Board of St Louis, Economic Research, Working Paper Series,
August 2015, p. 2; John Ross, China's Great Road, Glasgow,
Praxis, 2021, p. 13, 178.
[81] Lowell Dittmer,
“Transformation of the Chinese Political Economy in the New Era,”
in China’s Political Economy in the Xi Jinping Epoch, ed. Lowell Dittmer,
Singapore, World Scientific Publishing, 2021, p. 8; Gang Chen, “Consolidating
Leninist Control of State-Owned Enterprises: China’s State Capitalism 2.0,”
in China’s Political Economy in the Xi Jinping Epoch, ed. Dittmer, p. 44.
[82] Chen, “Consolidating Leninist
Control of State-Owned Enterprises”, p. 59.
[83] Chen, “Consolidating Leninist
Control of State-Owned Enterprises,” pp. 45–49, 59; Tian Hongzhi and Li Hui,
“How Does the Five-Year Plan Promote China’s Economic
Development?,” Hradec Economic Days (2021), diglib.uhk.cz.
[84] Cheng Enfu, China's
Economic Dialectic, New York, International Publishers, 2021, pp.
48–49, 66–67, 143, 295–310.
[85] Wen, "The Making of a
Economic Superpower", p. 9.
[86] L'apparente capacità della
Cina di evitare le principali oscillazioni del ciclo economico non significa
che la società sia esente da crisi in un senso più ampio di trasformazione.
Vedi Wen Tiejun, Ten Crises: The Political Economy of China’s Development
(1949–2020), New York, Palgrave Macmillan, 2021; John Ross, “Why China’s Socialist Economy Is More
Efficient than Capitalism,” MR Online, June 6, 2023.
[87] “Wealth and Inequality in the
U.S. and China,” University of Southern California US-China Institute, November
19, 2020, china.usc.edu; Cheng Enfu, China’s Economic Dialectic, pp.
287–93; Marc Blecker, “The Political Economy of Working Class Re-formation,”
in China’s Political Economy in the Xi Jinping Epoch, ed. Dittmer, pp.
87–105; John Bellamy Foster and Robert W. McChesney, The Endless
Crisis, New York, Monthly Review Press, 2012, pp. 155–83.
[88] Magdoff e Sweezy,
"Perestroika and the Future of Socialism—Part Two", p. 1; Mandel,
"In Defense of Socialist Planning", p. 9.
[89] Si veda l'articolo di Martin
Hart-Landsberg “Planning an Ecologically Sustainable and Democratic
Economy” Monthly Review 75, n. 3 July-August 2023. Sulla
pianificazione britannica in tempo di guerra, vedi Cockshott, Cottrell e
Dapprich, Economic Planning in an Age of Climate Crisis, pp. 63–75.
[90] “Rosie the Riveter: More than a Poster Girl,” U.S. Army Ordnance
Corps, goordnance.army.mil; “Rosie the Riveter,” History.com, March
27, 2023.
[91] Magdoff and Magdoff,
"Approaching Socialism", pp. 53-54.
[92] Kalecki, Selected Essays
on Economic Planning, p. 27.
[93] Fred Magdoff and Chris
Williams, Creating an Ecological Society, New York, Monthly Review
Press, 2017, p. 290.
[94] Marx, Capital,
vol. 1, p. 742.
[95] Magdoff and Magdoff,
"Approaching Socialism", pp. 54-55.
[96] Lange, "On the Economic
Theory of Socialism", pp. 72-73. Il termine "democrazia popolare a
processo integrale" è intrinseco alle concezioni cinesi contemporanee di
come la democrazia possa essere resa più concreta. Nonostante le limitazioni
nell'applicazione di questo concetto in Cina, esso riveste un'importanza
critica nello sviluppo della democrazia socialista. Xi Jinping, The
Governance of China , vol. 4, Pechino, Foreign Languages Press, 2022,
pp. 299–301.
[97] Mandel, “In Defense of
Socialist Planning,” pp. 6–8, 13–17, 22, 25; Karl Marx, Texts on
Method, Oxford, Basil Blackwell, 1975, p. 195; Gregory Grossman, “Material
Balances,” in Problems of the Planned Economy, eds. Eatwell, Milgate, and
Newman, p. 178.
[98] Un'opera chiave nell'attacco
ideologico ai dati ambientali sovietici è stata quella di Murray Feshbach e
Arthur Friendly Jr., Ecocide in the USSR, New York, Basic
Books, 1992. La tecnica utilizzata è stata quella di mettere in risalto la
distruzione ecologica sovietica, ignorando il fatto che molte delle stesse
condizioni di ecocidio esistevano, e spesso su scala maggiore in termini pro
capite e di impatto globale, in Occidente.
[99] Salvatore Engel-Di
Mauro, Socialist States and the Environment, London, Pluto,
2021, p. 115; Foster, Capitalism in the Anthropocene, p. 328.
[100] Foster, Capitalism in
the Anthropocene, pp. 316–37.
[101] Engel-Di Mauro, Socialist
States and the Environment, pp. 120–24, 139.
[102] John Bellamy Foster, “Ecological Civilization, Ecological Revolution”, Monthly
Review 74, n. 5 ottobre 2022, pp. 1–11. Trad. it. "Civiltà ecologica, rivoluzione
ecologica. Una prospettiva ecologico marxista",
Antropocene.org, 17 novembre 2022.
[103] G. Oldak, “Balanced Natural
Resource Utilization and Economic Growth,” Problems in Economics 28,
no. 3 1985, p. 3; P. G. Oldak, “The Environment and Social Production,” Pyotr
Kapitsa et al., Society and the Environment: A Soviet View, Moscow,
Progress Publishers, 1977, pp. 56–68; P. G. Oldak and D. R. Darbanov, “A
Bioeconomic Program,” Soviet Studies in Philosophy 13, no. 2–3 1974,
pp. 68–73.
[104] Engel
Di-Mauro, Socialist States and the Environment, pp.129–31, 141–42.
[105] Paul M. Sweezy,“Socialism and
Ecology,”, Monthly Review 41, n. 4 September 1989, pp. 1–8.
[106] Engel
Di-Mauro, Socialist States and the Environment, pp. 170–94; “As World
Burns, Cuba Number 1 for Sustainable Development: WWF,” Telesur, October 27,
2016; Matt Trinder, “Cuba Found to Be the Most Sustainable Country in the
World,” Green Left, January 10, 2020; Mauricio Betancourt, “The Effect of Cuban
Agroecology in Mitigating the Metabolic Rift: A Quantitative Approach to Latin
American Food Production,” Global Environmental Change 63, 2020, pp.
1–10; Rebecca Clausen, Brett Clark, and Stefano B. Longo, “Metabolic Rifts and
Restoration: Agricultural Crises and the Potential of Cuba’s Organic, Socialist
Approach to Food Production,” World Review of Political Economy 6,
no. 1, 2015, pp. 4–32.
[107] “Comparing the United States
and China by Economy,” Statistics Times, May 15, 2021, statisticstimes.com.
[108] Foster, “Ecological
Civilization, Ecological Revolution”; Barbara Finamore, Will China Save
the Planet?, Cambridge, Polity Press, 2018, pp. 156–58.
[109] Ana Felicien, Christina M.
Schiavoni, and Liccia Romero, “The Politics of Food in Venezuela,” Monthly
Review 70, no. 2 June 2018, pp. 1–19; Owen Schalk, “Venezuela’s Seed Law Should Be a Global
Model,” Canadian Dimension, January 16, 2023. Sul Venezuela e la
decrescita, vedi Chris Gilbert, “‘Where Danger Lies…’: The Communal Alternative
in Venezuela,” Monthly Review 75, n. 3 July-August 2023; vedi anche John
Bellamy Foster, “Chávez and the Communal State,” Monthly
Review 66, no. 11 April 2015, pp. 1–17.
[110] Uno degli ultimi articoli di
Lenin era "Meglio meno, ma meglio". Baran in seguito scrisse un
saggio intitolato "Better Smaller But Better". Entrambi avevano a che
fare con ritirate politiche strategiche. Ma entrambi riflettevano anche un modo
di pensare che riconosceva che i cambiamenti qualitativi sono spesso più
importanti dei cambiamenti quantitativi per ottenere progressi significativi.
Vedi V.I. Lenin, “Better Fewer But Better,” in Lewin, Lenin’s Last
Struggle, pp. 156–76; Baran, The Longer View, pp. 203–9.
[111] Odum and Odum, A
Prosperous Way Down, p. 139.
[112] Erald Kolasi, “The Ecological State,” Monthly Review 72, no. 9,
February 2021, pp. 23—36, Trad.it. "Lo stato ecologico",
Antropocene.org, 3 giugno 2021; Tom Athanasiou and Paul Baer, Dead Heat:
Global Justice and Global Warming, New York, Seven Stories, 2002.
[113] Il rapporto originale degli
scienziati sulla mitigazione, trapelato prima della sua censura da parte dei
governi prima che venisse pubblicato, indicava che l'aumento di scala della
cattura e del sequestro del carbonio (CCS), della bioenergia con cattura e
sequestro del carbonio (BECCS) e delle tecnologie nucleari, erano tutte
impraticabili e non in grado di svolgere altro che un ruolo minore nella
mitigazione del cambiamento climatico. Vedi Leaked Scientist Consensus Report
on Mitigation, AR6, part 3, B4.3. Leaked Scientist Consensus Report on
Mitigation, AR6, part 3, B4.3. Vedi anche Mathilde Fajardy, Alexandre Köberle,
Niall MacDowell, and Andrea Fantuzzi, “BECCS Deployment: A Reality Check,”
Grantham Institute, Imperial College London, Briefing Paper no. 28, January 19,
2019; Julian Allwood, “Technology Will Not Solve the Problem of Climate
Change,” Financial Times, November 16, 2021.
[114] Sullo spreco ecologico ed
economico del capitale monopolistico, vedi Foster, Capitalism in the
Anthropocene , pp. 373–89.
[115] Sul proletariato ambientale,
vedi Foster, Capitalism in the Anthropocene , pp. 483–92.
[116] Harry Magdoff, “A Note on
Market Socialism,” Monthly Review 47, n. 1, May 1995, pp. 12–18.
[117] Anthony Giddens, The
Politics of Climate Change, Cambridge, Polity Press, 2011, p. 95; Andreas
Malm, Fossil Capital, London, Verso, 2016, p. 382; Sui vari
modi di combinare piano e mercato si veda Alec Nove, "Planned
Economy", in Problems of the Planned Economy, eds. Eatwell,
Milgate e Newman, pp. 195–97.
[118] Fred Magdoff and John Foster,
“Grand Theft Capital,” Monthly
Review 75, no. 1 May 2023, pp. 19–20; Carter C. Price and Kathryn A.
Edwards, “Trends in Income from 1975 to 2018,” RAND Corporation Working Paper
WR-A156-1, Santa Monica, 2020, p. 12 (fig. 2), p. 40; “U.S. Housing Market Has
Doubled in Value Since the Great Recession, Gaining 6.9 Trillion in 2021,”
Cision PR Newswire, January 27, 2002.
[119] Sul calcolo del surplus
economico, vedi Michael Dawson and John Bellamy Foster, “The Tendency of the
Surplus to Rise, 1963–1988,” in The Economic Surplus in Advanced
Economies, Brookfield, Vermont, Edward Elgar, 1992, pp. 42– 70.
[120] William Morris, Signs of
Change, London, Longmans, Green, and Co., 1896, pp. 141–73;
Foster, The Return of Nature, pp. 103–5.
[121] Schmelzer, Vetter and
Vansintjan, The Future is Degrowth, pp. 240.
[122] Kurt Vonnegut
Jr., Player Piano, New York, Dell, 1974.
[123] Leo Huberman and Paul M.
Sweezy, "The Triple Revolution", Monthly
Review 16, n. 7 November 1964, p. 422; Robert W. McChesney and John
Nichols, People Get Ready, New York, Nation Books, 2016, pp.
80–81; Giorgos Kallis, "The Degrowth Alternative", Great Transition
Initiative, February 2015, org .
[124] Vedi la critica proposta in
Foster e Clark, The Robbery of Nature, pp. 269–87.
[125] Vedi, ad esempio, Noam
Chomsky and Robert Pollin, Climate Crisis and the Global Green New
Deal, London, Verso, 2020. Pollin, il cui punto di vista si distingue
in qualche modo da quello di Chomsky, è un forte oppositore delle alternative
alla decrescita, insistendo sul fatto che il disaccoppiamento assoluto sulla
scala richiesta può essere raggiunto a costi minimi senza contrazione della
crescita economica attraverso un quadro di "politica
industriale" con gree taxes, finanziamenti statali e incentivi
di mercato.
[126] Max Ajl, A People’s
Green New Deal , London, Pluto, 2021.
[127] William J. Baumol and William
G. Bowen, Performing Arts: An Economic Dilemma, Cambridge,
Massachusetts, MIT Press, 1968.
[128] Varun Ganapathi,
“Understanding Baumol’s Cost Disease and its Impacts on
Healthcare,” Forbes, April 8, 2022; Aaron Benanav, Automation and the
Future of Work, London, Verso, 2020, pp. 57–60.
[129] Magdoff and
Williams, Creating an Ecological Society, pp. 251–57; Herman Daly,
“Postscript,” in Economics, Ecology, Ethics: Essays Toward a Steady State
Economy, ed. Herman E. Daly, San Francisco, W. H. Freeman, 1980, p. 366.
[130] Paul A. Baran, The
Political Economy of Growth, New York, Monthly Review Press, 1957, p.
42.
[131] Noam Chomsky, "The End of Organised Humanity", Climate
Damage, video di YouTube, 19:24, 12 April 2023.
[132] Marx and
Engels, Collected Works, vol. 25, pp. 145–46, 153, 270; Marx and
Engels, The Communist Manifesto, 2; Karl Marx and Friedrich
Engels, Ireland and the Irish Question, Moscow, Progress Publishers,
1971, p. 142. Vedi anche Walter Benjamin, Selected Writings, vol. 4,
Cambridge, Massachusetts, Harvard University Press, 2003, p. 402; Michael
Löwy, Fire Alarm, London, Verso, 2016, pp. 66–67; John Bellamy
Foster, “Engels’s Dialectics of Nature in the Anthropocene,” Monthly
Review 72, no. 6 (November 2020): 1–3. Trad. it. "La Dialettica della Natura di Engels
nell'antropocene", Antropocene.org, 22 gennaio
2021.
Traduzione a cura della Redazione
di Antropocene.org
Fonte: Monthly
Review vol.75 n. 3 (01.07.2023)
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