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Terrorizzati dai coloni, i pastori palestinesi in
Cisgiordania sono costretti a lasciare i villaggi in cui vivono da decenni. La
scorsa settimana è stata la volta di Al-Baqa’a
Tutto ciò che rimane nella valle è terra nera e bruciata, un ricordo di
quello che fino alla scorsa settimana era un luogo di abitazione umana. C’è
anche un recinto per le pecore, che i residenti cacciati hanno lasciato come
ricordo o forse anche nella speranza di giorni migliori, quando potranno
tornare alla loro terra, una prospettiva che al momento sembra davvero molto
lontana.
Di fronte al terreno annerito si profilano due tende che preannunciano il
problema, insieme a un furgone e a un trattore, tutti appartenenti ai signori
della terra: i coloni che hanno invaso questa comunità di pastori e hanno terrorizzato i suoi abitanti giorno e notte
fino a quando, venerdì scorso, l’ultima delle famiglie, che viveva qui da più
di 40 anni, è partita verso il deserto per trovare un nuovo luogo di
abitazione. Non potevano più sopportare gli attacchi e le incursioni dei coloni
e il loro sfacciato pascolare le greggi sulla terra dei palestinesi, le
intimidazioni ai figli dei pastori, le minacce, i furti e le aggressioni. Anche
la vantata sumud (fermezza) dei
palestinesi ha i suoi limiti.
Una comunità dopo l’altra di pastori beduini, la popolazione più debole e indifesa della
Cisgiordania, sta abbandonando la terra che abita da decenni, non riuscendo più
a sopportare la violenza dei coloni, che negli ultimi mesi ha subito
un’impennata. Lontano dagli occhi degli israeliani e della comunità
internazionale, è in corso un incredibile trasferimento sistematico di
popolazione: di fatto la pulizia etnica di vaste aree nelle Colline a Sud di
Hebron, nella Valle del Giordano e ora anche di aree nel cuore della
Cisgiordania.
A luglio abbiamo assistito alla partenza della famiglia Abu Awwad dal
proprio villaggio, Khirbet Widady, dopo essere stata costretta ad andarsene a
causa delle tattiche intimidatorie dei coloni di Havat Meitarim. Un mese prima,
abbiamo accompagnato 200 membri di famiglie che vivevano a Ein Samia e che
hanno dovuto fuggire per salvarsi la vita a causa delle violente vessazioni dei
coloni degli avamposti non autorizzati vicino all’insediamento di Kochav
Hashahar.
Questa settimana siamo arrivati ad Al-Baqa’a, una distesa arida ai piedi
delle montagne desertiche che si affacciano sulla Valle del Giordano. I circa
60 membri di questa comunità sono stati costretti a lasciarsi alle spalle la
terra su cui hanno vissuto per circa 40 anni, e con essa a lasciare i loro
ricordi, prima di disperdersi nel paesaggio desertico. L’appropriazione da
parte dei coloni non solo priva le persone delle loro proprietà, ma distrugge
anche comunità abituate a vivere insieme per generazioni.
La terra – che in questo caso è proprietà dei residenti del villaggio
palestinese di Deir Dibwan – è rocciosa, arida e praticamente inaccessibile. La
pulizia etnica in quest’area continua senza sosta. Terra senza arabi, la più
“pura” possibile: una condizione che si raggiunge più facilmente quando sono
coinvolte comunità di pastori beduini.
Incontriamo il capo della comunità di Al-Baqa’a, Mohammed Melihat, 59 anni,
nel nuovo sito in cui i suoi due figli hanno stabilito la loro casa, a circa
cinque chilometri a sud di dove vivevano un tempo, in mezzo al nulla.
I due figli hanno piantato qui cinque tende a brandelli. Un cane e un gallo
si riparano sotto il contenitore dell’acqua, cercando di sopravvivere al caldo
estivo. I membri della famiglia allargata si sono trasferiti qui il 7 luglio;
nel tempo trascorso da allora hanno ricevuto tre ordini di sfratto
dall’Amministrazione Civile del governo militare. Il termine ultimo per
andarsene è il 20 settembre.
Melihat ha sei figli e una figlia; due dei figli, Ismail, 23 anni, e suo
fratello maggiore, Ali, 28, si sono trasferiti qui con le loro famiglie. Il
padre alloggia da un amico nel villaggio di Ramun, a nord di Al-Baqa’a, ma sta
aiutando i figli a stabilire il loro nuovo “avamposto” su un terreno privato
ricevuto dagli abitanti di Deir Dibwan. Del gregge originario della famiglia,
composto da 600 pecore, ne rimangono solo 150.
Al-Baqa’a era la loro dimora dal 1980. Le 25 famiglie iniziali che vi si
erano insediate si erano gradualmente disperse in seguito agli ordini di
demolizione emessi dalle autorità israeliane e alla violenza esercitata dai
coloni israeliani. Negli ultimi anni sono rimaste solo 12 famiglie, tra cui 30
bambini, e anche loro hanno iniziato a disperdersi in vari modi. Solo i Melihat
sono finiti nel nuovo sito che stiamo visitando.
È impossibile immaginare che un essere umano possa vivere in questa regione
inospitale, montagnosa e arida, senza acqua corrente o elettricità, senza strade
di accesso, scuole o cliniche in vista. In un Paese gestito correttamente,
quest’area diventerebbe un patrimonio culturale: “Ecco come vivevano i pastori
secoli fa”. Le scolaresche verrebbero portate qui per vedere questa meraviglia.
Ma in Israele è solo un altro bersaglio dell’avidità dei coloni e della loro
insaziabile brama di proprietà immobiliari.
La cosa peggiore è che queste persone non hanno alcuna protezione contro i
loro oppressori. Nulla. Né dalla polizia, né dall’esercito, né dall’Amministrazione
Civile, né dall’Autorità Palestinese. Con la loro vita e le loro proprietà in
bilico, sono stati costretti a cedere, ad arrendersi e ad abbandonare la loro
casa. Completamente indifesa, la famiglia Melihat non ha avuto altra scelta che
seguire l’esempio di altre famiglie.
Dal 2000, la vita ad Al-Baqa’a è diventata impossibile. I coloni,
apparentemente sostenuti dai soldati e talvolta anche con la loro
partecipazione attiva, hanno reso la vita dei palestinesi un continuo tormento.
Venivano lanciati gas lacrimogeni e granate stordenti nelle tende, venivano
rubati abbeveratoi e pecore. All’inizio, i predoni provenivano dall’avamposto
di Mitzpeh Hagit, guidato da un colono di nome Gil. Secondo Mohammed, l’agenzia
umanitaria delle Nazioni Unite OCHA ha documentato tutto. Mentre parliamo con
lui durante la nostra visita di questa settimana, arriva Patrick Kingsley, il
capo ufficio del New York Times per Israele e i
Territori Occupati. Lui e il suo giornale sono molto più interessati alla sorte
della popolazione di qui rispetto alla maggior parte dei media israeliani.
Nel settembre 2019, un colono israeliano di nome Neria Ben Pazi ha invaso
un’area vicino a Ramun, dopo di che i problemi dei residenti della zona sono
diventati ancora più gravi. Qualche mese prima, Ben Pazi aveva iniziato a far
pascolare le sue pecore su terreni di proprietà beduina. È stato allontanato
due volte dall’Amministrazione Civile, ma è tornato ogni volta poche ore dopo,
grazie a quello che può essere interpretato come il tacito consenso e
l’inazione delle autorità israeliane. La situazione era ormai compromessa.
Secondo il rabbino Arik Ascherman, direttore dell’ONG Torat Tzedek (Legge di Giustizia) che negli ultimi
mesi ha passato molti giorni e notti a proteggere i residenti di Al-Baqa’a
dalla violenza dei coloni, Ben Pazi è il “campione” degli avamposti dei coloni.
Ne ha già fondati quattro; alcuni dei suoi figli vivono con lui.
I coloni hanno iniziato a rubare ai pastori beni e attrezzature agricole,
compresi i pezzi di ricambio per i trattori. All’inizio, dice Ascherman, erano
cauti, ma dopo l’avvento dell’attuale governo hanno abbandonato ogni ritegno e
la violenza è diventata più brutale. I residenti locali hanno chiesto la
protezione dell’Amministrazione Civile e uno dei suoi rappresentanti, il
“capitano Fares”, ha detto loro di tenersi in contatto in caso di problemi. Non
è passato quasi un giorno senza problemi, ma era inutile anche solo pensare di
presentare reclami.
Negli ultimi mesi le azioni dei coloni contro i poveri pastori beduini sono
state documentate da Iyad Hadad, ricercatore sul campo dell’organizzazione
israeliana per i diritti umani B’Tselem. I coloni
hanno impedito alle autobotti dei pastori di raggiungere la comunità e hanno
portato le proprie greggi per bere agli abbeveratoi dei beduini. In un caso
hanno anche bruciato una tenda. Il risultato: circa 400 ettari di terra sono
stati svuotati di palestinesi e sequestrati dagli avamposti.
Il 10 luglio, la maggior parte delle famiglie ha lasciato Al-Baqa’a e solo due
sono rimaste. In breve tempo una di esse, la famiglia di Mustafa Arara, se n’è
andata dopo che il figlio di 7 anni è stato ferito da un colono. La seconda
famiglia, quella di Musa Arara, se n’è andata una settimana dopo, dopo che
tutti e 13 i loro abbeveratoi erano scomparsi; Ascherman ha visto i contenitori
trasportati da un trattore dei coloni.
La famiglia di Musa si è trasferita per il momento nella zona del Wadi
Qelt, che nasce vicino a Gerusalemme e sfocia nel Mar Morto; Mustafa e la sua
famiglia si sono trasferiti nella zona di Jab’a, nella Cisgiordania centrale.
Altre tre famiglie vivono nei pressi di Taibe, a nord-est di Gerusalemme. Il
tessuto stesso della loro vita familiare, culturale e sociale è stato fatto a
pezzi.
Dove andremo? La domanda di Mohammed Melihat viene inghiottita dalla
vastità del deserto. “Se vengono a demolire anche qui, dove potrò andare?”,
chiede ancora, inutilmente. I suoi antenati della tribù dei Kaabneh – che
Israele ha sfrattato dalle colline meridionali di Hebron nel 1948 e la cui
terra è diventata parte dello Stato di Israele – si sono posti la stessa
domanda.
“Immaginate cosa significhi”, dice Melihat, “lasciare un villaggio in cui
si è vissuta la maggior parte della propria vita e dove sono nati i propri
figli”.
Traduzione a cura di AssoPacePalestina
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