domenica 3 settembre 2023

La narrazione della destra: oltre l’anti-antifascismo - Lorenzo Guadagnucci


La storia è un campo di battaglia. Di battaglia politica. Perciò è più importante raccontarla che fare autentica ricerca: l’obiettivo politico è imporre, o almeno suggerire la propria narrazione, e attorno a essa costruire senso e consenso. E quanto più alto sarà l’obiettivo, per esempio ribaltare la direzione del racconto prevalente, o portare al centro della scena ciò che sempre è rimasto in ombra, tanto più saranno spericolati gli argomenti, le affermazioni, gli slogan. In questa logica, poco importa che le nuove/vecchie narrazioni abbiano un fondamento storico-documentale, ben più importante è alzare la voce, impressionare, scandalizzare, conquistare spazio mediatico. Male che vada, si saranno intorbidite le acque, si sarà disturbato il flusso della conoscenza storica; se poi va meglio, si riuscirà a condizionare, se non deviare, il flusso della conoscenza storica e della memoria.

Viviamo una fase politica speciale, con l’estrema destra salda al potere, il partito postfascista che gode di un inedito primato elettorale e dunque questo è il tempo, per le destre, di agitare le acque della narrazione storica e della memoria. Ecco dunque un oscuro portavoce “sparare” le sue certezze sull’innocenza dei militanti neofascisti condannati per la strage di Bologna; ecco la premier che non riconosce o non rammenta “matrici” fasciste per fatti antichi – la strage del 1980 – ma anche recenti, come l’assalto alla sede della Cgil, o che compie un reclamizzato viaggio in Etiopia dimenticando di menzionare che tipo di “legame” abbia unito il nostro e quel paese in passato: una stagione colonialista marcata da ingnominiosi crimini.

L’estrema destra italiana porta in seno la “matrice” neofascista e non può riconoscersi nella narrazione che ha accompagnato la nascita della repubblica e della Costituzione, che i neofascisti del tempo non vollero né votarono, ma ha sempre stentato a proporre una propria narrazione, che forse nemmeno c’è – non in senso compiuto – visto che il Movimento sociale italiano, “matrice” dell’estrema destra di oggi, ha vissuto per decenni ai margini della vita politico-parlamentare mostrando una grande debolezza di elaborazione politico-culturale. Le stesse rivendicazioni del proprio retroterra storico-politico – il fascismo regime o almeno il fascismo repubblichino – sono state spesso dissimulate; si è rimasti quasi sempre sul crinale dell’ambiguità, tanto che oggi per una premier che sulla strage di Bologna parla di generico terrorismo, ecco un presidente del Senato che riesce a pronunciare, con posa istituzionale, il vocabolo “neofascista”. Ma intanto in Parlamento si propone di avviare una commissione d’inchiesta palesemente pensata non già per chiarire le zone d’ombra – i mandanti politici della strage – ma per riportare a galla vecchi e superati dubbi e alzare un polverone privo di sostanza storica ma utile a mettere in discussione e in qualche modo indebolire la narrazione altrui.

Rispetto al tempo delle stragi e dell’eversione in seno ai corpi dello Stato, l’estrema destra di governo avrebbe molte cose da chiarire, visti i numerosi punti di contatto, politici e personali, che vi furono, ma non ha alcun interesse a compiere un’operazione del genere e anzi punta all’obiettivo opposto: minare le certezze condivise, seppure basate su risultanze giudiziarie e storiche, e coprire con una nebbia sempre più fitta le proprie responsabilità storiche e politiche.

Quindi non siamo ancora all’espressione di una propria narrazione, mancando un compiuto “racconto storico” del dopoguerra da parte delle destre, ma siamo di fronte a un’operazione comunque pericolosa, perché le posizioni di potere nelle istituzioni sono un potente megafono e le destre postfasciste stanno lavorando per andare oltre la visione anti-antifascista che ha già conquistato, negli anni scorsi, uno spazio rilevante nel discorso pubblico, pubblicistico o strettamente politico che sia, anche con la complicità degli avversari (si pensi all’improvvida approvazione parlamentare, quasi unanime, del Giorno del ricordo, costruito, questo sì, su una narrazione della tragedia delle foibe molto propagandistica e poco fondata su elementi storici). Una certa crisi dell’antifascismo è conclamata da tempo e da destra si sente – come si dice – l’odore del sangue, si punta cioè a colpire ancora, a demolire colpo dopo colpo quel che resta della narrazione della “repubblica nata dalla resistenza”, potendo contare – va detto anche questo – su un atteggiamento del milieu mediatico e intellettuale che potremmo definire di “desistenza”. Difficile non pensare, in questa chiave, alla campagna scatenata da molti quotidiani e numerosi maitre à penser contro l’Anpi nel 2022 dopo l’invasione russa dell’Ucraina o alla frequente bollatura come “ideologica” della prospettiva storico-politica dell’antifascismo attivo, o ancora al silenzio complice tenuto dall’informazione generalista sugli omissis meloniani rispetto ai trascorsi coloniali dell’Italia fascista surante il citato viaggio in Etiopia (e dire che Rodolfo Graziani, responsabile politico del “massacro di Addis Abeba” seguito all’attentato cui era sfuggito, fu in epoca repubblicana presidente onorario del Msi, il partito del maestro politico dell’attuale premier, Giorgio Almirante).

Inutile, dunque, scandalizzarsi più di tanto per le uscite estemporanee di un De Angelis, meglio dare più sostanza politica alla narrazione antifascista, indebolita non solo dagli attacchi che vengono da destra, ma anche dalle timidezze e dalle desistenze che vengono da dentro. La resistenza e l’antifascismo furono un progetto politico di trasformazione politica radicale verso la giustizia sociale e mal si prestano a semplici omaggi alla memoria, a sempre più stanche enunciazioni e cerimonie; richiedono invece azione, pensieri nuovi, la voglia e la capacità di osare.

da qui

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