La storia è
un campo di battaglia. Di battaglia politica. Perciò è più importante
raccontarla che fare autentica ricerca: l’obiettivo politico è imporre, o
almeno suggerire la propria narrazione, e attorno a essa costruire senso e
consenso. E quanto più alto sarà l’obiettivo, per esempio ribaltare la
direzione del racconto prevalente, o portare al centro della scena ciò che
sempre è rimasto in ombra, tanto più saranno spericolati gli argomenti, le
affermazioni, gli slogan. In questa logica, poco importa che le nuove/vecchie
narrazioni abbiano un fondamento storico-documentale, ben più importante è
alzare la voce, impressionare, scandalizzare, conquistare spazio mediatico.
Male che vada, si saranno intorbidite le acque, si sarà disturbato il flusso
della conoscenza storica; se poi va meglio, si riuscirà a condizionare, se non deviare,
il flusso della conoscenza storica e della memoria.
Viviamo una
fase politica speciale, con l’estrema destra salda al potere, il partito
postfascista che gode di un inedito primato elettorale e dunque questo è il
tempo, per le destre, di agitare le acque della narrazione storica e della
memoria. Ecco dunque un oscuro portavoce “sparare” le sue certezze
sull’innocenza dei militanti neofascisti condannati per la strage di Bologna;
ecco la premier che non riconosce o non rammenta “matrici” fasciste per fatti
antichi – la strage del 1980 – ma anche recenti, come l’assalto alla sede della
Cgil, o che compie un reclamizzato viaggio in Etiopia dimenticando di
menzionare che tipo di “legame” abbia unito il nostro e quel paese in passato:
una stagione colonialista marcata da ingnominiosi crimini.
L’estrema
destra italiana porta in seno la “matrice” neofascista e non può riconoscersi
nella narrazione che ha accompagnato la nascita della repubblica e della
Costituzione, che i neofascisti del tempo non vollero né votarono, ma ha sempre
stentato a proporre una propria narrazione, che forse nemmeno c’è – non in
senso compiuto – visto che il Movimento sociale italiano, “matrice”
dell’estrema destra di oggi, ha vissuto per decenni ai margini della vita
politico-parlamentare mostrando una grande debolezza di elaborazione
politico-culturale. Le stesse rivendicazioni del proprio retroterra
storico-politico – il fascismo regime o almeno il fascismo repubblichino – sono
state spesso dissimulate; si è rimasti quasi sempre sul crinale dell’ambiguità,
tanto che oggi per una premier che sulla strage di Bologna parla di generico
terrorismo, ecco un presidente del Senato che riesce a pronunciare, con posa
istituzionale, il vocabolo “neofascista”. Ma intanto in Parlamento si propone
di avviare una commissione d’inchiesta palesemente pensata non già per chiarire
le zone d’ombra – i mandanti politici della strage – ma per riportare a galla
vecchi e superati dubbi e alzare un polverone privo di sostanza storica ma
utile a mettere in discussione e in qualche modo indebolire la narrazione
altrui.
Rispetto al
tempo delle stragi e dell’eversione in seno ai corpi dello Stato, l’estrema
destra di governo avrebbe molte cose da chiarire, visti i numerosi punti di
contatto, politici e personali, che vi furono, ma non ha alcun interesse a
compiere un’operazione del genere e anzi punta all’obiettivo opposto: minare le
certezze condivise, seppure basate su risultanze giudiziarie e storiche, e
coprire con una nebbia sempre più fitta le proprie responsabilità storiche e
politiche.
Quindi non
siamo ancora all’espressione di una propria narrazione, mancando un compiuto
“racconto storico” del dopoguerra da parte delle destre, ma siamo di fronte a
un’operazione comunque pericolosa, perché le posizioni di potere nelle
istituzioni sono un potente megafono e le destre postfasciste stanno lavorando
per andare oltre la visione anti-antifascista che ha già conquistato, negli
anni scorsi, uno spazio rilevante nel discorso pubblico, pubblicistico o
strettamente politico che sia, anche con la complicità degli avversari (si
pensi all’improvvida approvazione parlamentare, quasi unanime, del Giorno del
ricordo, costruito, questo sì, su una narrazione della tragedia delle foibe
molto propagandistica e poco fondata su elementi storici). Una certa crisi
dell’antifascismo è conclamata da tempo e da destra si sente – come si dice –
l’odore del sangue, si punta cioè a colpire ancora, a demolire colpo dopo colpo
quel che resta della narrazione della “repubblica nata dalla resistenza”,
potendo contare – va detto anche questo – su un atteggiamento del milieu
mediatico e intellettuale che potremmo definire di “desistenza”. Difficile non
pensare, in questa chiave, alla campagna scatenata da molti quotidiani e
numerosi maitre à penser contro l’Anpi nel 2022 dopo
l’invasione russa dell’Ucraina o alla frequente bollatura come “ideologica”
della prospettiva storico-politica dell’antifascismo attivo, o ancora al
silenzio complice tenuto dall’informazione generalista sugli omissis meloniani
rispetto ai trascorsi coloniali dell’Italia fascista surante il citato viaggio
in Etiopia (e dire che Rodolfo Graziani, responsabile politico del “massacro di
Addis Abeba” seguito all’attentato cui era sfuggito, fu in epoca repubblicana
presidente onorario del Msi, il partito del maestro politico dell’attuale
premier, Giorgio Almirante).
Inutile,
dunque, scandalizzarsi più di tanto per le uscite estemporanee di un De
Angelis, meglio dare più sostanza politica alla narrazione antifascista,
indebolita non solo dagli attacchi che vengono da destra, ma anche dalle
timidezze e dalle desistenze che vengono da dentro. La resistenza e
l’antifascismo furono un progetto politico di trasformazione politica radicale
verso la giustizia sociale e mal si prestano a semplici omaggi alla memoria, a
sempre più stanche enunciazioni e cerimonie; richiedono invece azione, pensieri
nuovi, la voglia e la capacità di osare.
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