È il
giornalista detenuto da più tempo al mondo. Fu gettato in carcere in regime di
segregazione 22 anni fa senza accuse, assistenza legale né processo
Da oltre due
decenni di lui non si sa più nulla. Ma non è stato dimenticato. Un blocco di
organizzazioni internazionali e il gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria
del Consiglio ONU per i diritti umani chiedono al regime eritreo di rivelare se
sia vivo e, in questo caso, il suo rilascio immediato. Ma chiedono anche che
contro Isaias Afwerki e il suo governo si alzi la voce unanime, forte e chiara
della comunità internazionale
È il
giornalista detenuto da più tempo al mondo. Si tratta di Dawit Isaak, eritreo
con cittadinanza svedese che nel 2001 venne prelevato da casa davanti a tutta
la famiglia. E in quella casa non ha fatto più ritorno. Aveva 36 anni.
In quei
giorni vennero arrestati anche un’altra decina di giornalisti trattenuti in
tutto questo tempo nelle carceri eritree senza una formale accusa e senza
ricevere alcun processo.
Tutti in
stato cosiddetto incommunicado, vale a dire segregati, senza
accesso alla famiglia, all’assistenza consolare o al diritto all’assistenza
legale.
Una
detenzione assolutamente arbitraria e in violazione a qualunque norma sul
diritto e alle carte internazionali sui diritti umani.
Alcuni di
questi giornalisti sono morti durante la detenzione, ma di Dawit non si è
saputo più nulla.
Il
giornalista non è stato però dimenticato, né – ovviamente – dalla famiglia, né
da chi negli anni ha continuato a tenere alta l’attenzione su questa vicenda.
Qualche
giorno fa, è intervenuto anche il gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria del Consiglio
per i diritti umani delle Nazioni Unite.
E questo in
seguito di una vigorosa campagna da parte di una coalizione internazionale di
ong e organizzazioni per i diritti umani, esperti, avvocati, giornalisti.
Tra questi
Reporter Senza Frontiere (RSF), il Comitato per la protezione dei giornalisti
(CPJ), l’International Bar Association’s Human Rights Institute (IBHARI), il
Parliamentarians for Global Action (PGA), PEN International, Defend Defenders,
Human Rights Foundation (HRF).
Tutti
chiedono al governo eritreo di rivelare dove sia ora in custodia – ammesso che
sia ancora vivo – il giornalista.
E,
naturalmente, il rilascio immediato e incondizionato.
In questi
anni, ormai 22, sono state molte le sollecitazioni e gli appelli ma con zero risultati.
Una
dimostrazione, questa, della diffusa cultura dell’impunità in un paese dove
nulla si muove (o sfugge) al dittatore Isaias Afwerki.
Un regime,
il suo, improntato ad abusi e violenze, che va avanti dal 1993.
Contro di
lui e contro il suo governo, le organizzazioni per i diritti umani chiedono che
si alzi la voce unanime forte e chiara della comunità internazionale e che
vengano emesse sanzioni – nell’ambito del Magnitsky Act – contro gli alti
funzionari responsabili di questi crimini e fino a quando Dawit e i suoi
colleghi non saranno rilasciati.
Quello del
giornalista eritreo è un caso emblematico di un regime corrotto e criminale –
dicono i firmatari del nuovo documento per la liberazione di Dawit – e
del disprezzo della libertà di stampa.
All’epoca
Dawit Isaak lavorava per il primo giornale indipendente dell’Eritrea, Setit,
che oggi pubblica online dal Texas e nel 2001, l’anno degli arresti dei
giornalisti e di una brutale repressione verso gli oppositori, aveva pubblicato
molte lettere aperte di condanna del regime.
Gli articoli
di Dawit disturbavano parecchio il governo e, con il senno di poi, avrebbe
fatto meglio a non tornare in patria.
Il
giornalista, infatti, si era rifugiato in Svezia nel 1987 mentre era in atto la
guerra contro l’Etiopia, ma nel 2001 era ritornato in Eritrea.
Quando
arrivarono in casa per arrestarlo la famiglia stava facendo colazione.
Lui e la
moglie offrirono una sedia intorno al tavolo ad ognuno degli uomini che erano
andati a prenderlo – probabilmente anche per non impaurire i figli allora
piccoli – poi andò con loro.
L’ultima
volta che hanno avuto contatti si è trattato di una breve telefonata. Era il
2005.
Il
giornalista esortò la famiglia a lasciare il paese e tornare in Svezia. Troppo
pericoloso per loro restare. E anche inutile, visti i divieti di farli visita.
Oggi la
figlia Betlehem Dawit Isaak è
una giornalista, come il padre. Di cui continua a ricordare la figura e il
destino.
In
un’intervista al giornale canadese The Globe and Mail ha ripercorso quei giorni
terribili, ma ha anche espresso la sua rabbia verso chi non fa nulla.
I paesi
occidentali, ha detto, potrebbero fare molto di più per fare pressioni sul
regime e difendere i diritti umani in Eritrea.
L’Occidente
ha in gran parte ignorato le sue atrocità, compresi i massacri ampiamente
documentati di tigrini da parte delle truppe eritree nel nord dell’Etiopia nel
2020 e nel 2021, ha affermato.
«Sono
arrabbiata con il mondo per non aver reagito con forza. Ho pensato: ‘Mio Dio,
siamo soli in questo’».
Ma lei
persevera nella sua battaglia: «Sento che sto facendo un lavoro importante. È
un ruolo che mi è stato assegnato. Ne facciamo tutti parte. E tanti eritrei
stanno portando avanti la stessa lotta».
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